Martedì 14

Shasha deve andare a fare i documenti, perché pare che ora funzioni tutto, e io l’aspetto in hotel, dove consumo una ricca colazione trinazionale. Poi torna a prendermi e andiamo in centro a sbrigare tutte le pratiche.

Non ho capito bene questo passaggio, che senso ha andare a fare i documenti e poi tornare e andare di nuovo a fare i documenti? Quando le ho chiesto delucidazioni in merito, mesi dopo, mi ha risposto che non ho capito niente e in realtà alla stazione di polizia ci è tornata il primo giorno, alcune ore più tardi, perché il sistema aveva ripreso a funzionare. Quella mattina era andata con sua madre a fare delle robe che però a noi non interessano, sono robe di donne che un uomo è bene che non conosca. E poi mi piace di più la mia versione in cui sono finito in un paradosso temporale cinese in cui le ore scorrono in maniera circolare e dopo un po’ ti ritrovi al punto di partenza, perché questo significa che è di nuovo ora di colazione!

là dietro volavano aquiloni, qui saliva l’invidia, che io non sono capace

Non dovendo più tornare alla stazione di polizia perché l’abbiamo già fatto ieri, e non dovendo fare di nuovo colazione perché ne ho già fatte tre, ma facendo comunque il solito caldo fotonico, pensiamo di andare a bere una bibita nel centro commerciale di fronte a casa dei nonni.
Shasha vorrebbe convincermi a provare il bubble tea, la sua bibita preferita. Non ci penso neanche, l’ho bevuta la prima volta che sono stato in cina, l’anno scorso, e ne conservo ancora un ricordo drammatico.

In pratica si tratta di un tè freddo a cui vengono aggiunti diversi ingredienti, dal ghiaccio tritato per renderlo più cremoso a svariati tipi di guarnizioni, come panna, cioccolata, robe colorate o dadi di acciaio zincato chiave sei. Già così mi risulterebbe insopportabile, per me il tè è tè e basta, caccerei gli inglesi dall’Europa solo per la loro mania di aggiungere il latte.
Questo, per aggiungere fastidio, contiene delle palline (da cui il nome bubble) che aspiri mediante una grossa cannuccia. Di solito sono fatte di tapioca, ma se ne trovano anche di gelatina, che ti scoppiano in bocca e rilasciano succo di frutta. Ma non potete bervi il tè come tutte le persone civili e poi farvi un caffè e poi una spremuta e poi un succo di frutta e poi una cioccolata? Ma che fretta avete per dover mischiare tutto insieme, eh, cinesi?

Troviamo un compromesso e andiamo a prenderci una bibita da Happy Lemon, ma il servizio in una città di secondo/terzo livello non è lo stesso che nella capitale, e nel tempo che le due commesse impiegano a riempire i nostri bicchieri mi sono fatto un giro e ho trovato un posto che fa i pasteis de nata, i tipici dolcetti portoghesi con lo stesso peso specifico della ghisa.

la nostalgia di Porto, signora mia!

Non è strano trovarli da queste parti, Macao è stata una colonia portoghese, e da lì i dolci si sono diffusi in tutta la Cina.

Per 10 soldi me ne danno 5, un affarone, e non sono neanche pesanti come quelli portoghesi.

Neanche così buoni, a dire la verità, senza la cannella e la scorza di limone sanno di budino al latte.

Ne mangio uno, gli altri li lascio sul tavolo in casa dei nonni, dove ritengo siano tuttora, dato che nessun altro condivide il mio entusiasmo verso la cucina lusitana.
Per quanto riguarda la famiglia della mia fidanzata questo scetticismo si estende a quasi tutta la cucina occidentale: dall’Italia ho portato un salame di ottima fattura, ed è arrivato a Guiyang invece di restare con noi a Pechino, dove ne avrei celebrato il sapore ogni sera come aperitivo; i suoi nonni lo hanno cucinato. 

Anche i cinesi rompono gli schermi dei cellulari, proprio come faccio io ♥, ma la differenza è che loro li portano a riparare in un laboratorio in città, e non dove li hanno acquistati.

Ed è proprio qui che ci rechiamo per sostituire lo schermo del cellulare di Shasha, in un sottopasso pieno di banchi dove comprare vecchi e nuovi modelli, riparare e sostituire pezzi e farsi riprogrammare le schede.

seduto al banco un classico cinese con la panza fuori, in procinto di farsi crescere la panza

Il tizio da cui ci fermiamo si chiama Liú Máng – Lo stilista del telefonino. Lo scegliamo fra gli altri per il suo taglio di capelli audace, alla bella marinara.

Si mette subito al lavoro, assistito da una donna che gli lancia i componenti quando occorre.

Il nome di lei non l’ho capito, Miba, Miva..

Una volta mio padre aveva una televisione marca Mivar, ma i componenti non li lanciava, quando si rompevano dovevi chiamare il tecnico che li cambiava.

Belli Capelli termina il lavoro in mezz’ora, per un costo di 150 soldi che comprende anche il guscio e il vetro protettivo, più un vetro per il mio telefono, che a stare lì mi è venuta voglia di partecipare.

Se penso che in euro sarebbero meno di 18, quando in Italia per sostituire il mio schermo ne ho spesi 210 e ho aspettato oltre un mese mi viene una gran voglia di iscrivermi ai terroristi.

le bellissime traduzioni cinesi

Sulla via del ritorno ci dedichiamo alla mia attività preferita, quella a cui ho dedicato lo spazio più ampio nei miei resoconti di viaggio.

C’è una specie di mercato coperto dietro casa dei nonni, dove compri la pietanza che preferisci a una delle numerose cucine presenti, e te la vai a mangiare a uno dei tavoli comuni. Shasha non ha molta fiducia nell’igiene di questi posti, per me è come la festa dell’unità, ma senza il porchettaro. Li proverei tutti, se non avessimo un invito a cena di lì a poco.

Sarà la nostra ultima cena a Guiyang, subito dopo dovremo prendere l’aereo per tornare a Pechino, e per questo è stata anticipata a un’orario che neanche all’ospedale.

Il tavolino del salotto, un grosso cubo rosso, viene liberato dalla solita tovaglia e rivela un piano cottura a induzione. Si accende e vi si deposita sopra il pentolone di brodo in cui tutti andremo a intingere i nostri pezzi di carne. Eh sì, stasera hot pot casalingo.

Non ho ancora cominciato a mangiare quando ricevo un messaggio da mia sorella con una foto che impiego qualche secondo a riconoscere: in Italia è appena passato mezzogiorno, e quello è il ponte di Campi, diviso a metà.

La consapevolezza mi colpisce come una martellata in faccia, poi si fa strada un terrore lucido, controllato, che mi mangia lo stomaco un pezzetto alla volta, con metodicità. Un pezzetto per ogni persona che conosco e che potrebbe essere rimasta coinvolta.

Perché il primo pensiero è alla coda che di solito si forma su quel tratto di strada, è alle case di sotto, è a tutta la città che sopra e sotto quel ponte fa avanti e indietro più volte al giorno. Il primo pensiero è una strage.

Mostro la foto a Shasha, le spiego cos’è successo e le chiedo di scusarmi con la sua famiglia, ma non posso stare lì con loro, devo tornare a casa, almeno con la testa.

Passo il resto della serata a cercare di mettermi in contatto con chiunque mi venga in mente, scorro i social per cercare segni di vita, spunto una lista mentale di nomi, aggiorno le pagine dei quotidiani per capire meglio.

Quando saliamo sul taxi per l’aeroporto quasi non saluto nessuno, mi limito ad abbracciare la nonna.

Poche ore dopo, quando atterriamo a Pechino, la situazione appare meno catastrofica: i miei amici stanno tutti bene, il pezzo di ponte crollato è quello che passava sopra il torrente e la ferrovia.

Qualche giorno più tardi scoprirò che sotto quel ponte è rimasto Cico, un collega della mia ex compagna che incontravo alle fiere. Ha passato la vita a viaggiare avanti e indietro per l’Italia per dare una vita dignitosa a sé e alla sua famiglia, ed è morto in un giorno di festa mentre andava a un matrimonio, della morte più assurda che si potesse immaginare.

Sono passate solo poche ore, e già Genova ha fatto il pieno di ignoranza, proclami roboanti, caccia alle streghe, sciacallaggio politico e teorie complottiste. Provo una vergogna così intensa per i miei connazionali che se potessi chiedere asilo in Cina non esiterei a farlo, nonostante i limiti alla libertà di questo governo ho ancora l’illusione che le persone qui siano migliori. Probabilmente perché non so leggere i loro social.

Mercoledì 15 agosto

Shasha ha il giorno libero, ci alziamo con calma e facciamo colazione coi prodotti del supermercato, come in Italia. Ce n’è uno sotto casa che offre grossomodo le stesse cose, seppure di marche differenti. Sennò se vuoi sentirti al sicuro vai al Carrefour un po’ più avanti, ma vuoi mettere l’avventura?

Sulla verdura per esempio ci sono le etichette in cinese, così non sai cosa stai comprando e potrebbe capitarti di prendere le patate dolci invece di quelle comuni. Per dire, eh, figurati se uno non le sa distinguere, chi vuoi che sia così scemo.

Per me il gioco è comprare prodotti familiari in versioni sconosciute, e scoprire solo dopo di cosa sanno: essendo un agosto orrendamente caldo (anche se dopo la prima pioggia le temperature non sono più risalite a quel livello offensivo dei primi giorni) mi specializzo sui gelati.

1 uovo

All’inizio mi limito a infilare la mano nel frigo e tirarne fuori uno a caso, ma col passare dei giorni ci prendo gusto, e alla fine ne prendo due alla volta e li mangio mentre torno a casa.

Il più buono è quello all’uovo, ma è facile, sa di crema pasticcera; fra i gusti inaspettati si piazza molto bene quello ai fagioli rossi, che in Cina sono normalmente utilizzati per preparare i dolci, mentre ottiene un punteggio basso il gelato all’uva ghiacciata, che sarebbe uva normale vendemmiata tardissimo nei paesi nordici, quando il grappolo è ormai coperto di neve. Sa di tautologia e contiene pezzi di roba ghiacciata che potrebbe essere benissimo quell’uva lì.

Devo dire che sono rimasto deluso, dalla confezione avevo capito che fosse una specie di gelato alla frutta candita, e volevo tirarmi fuori dalla mia comfort zone mangiando qualcosa per me disgustoso.
No, la dico vera, quando ho visto la foto sulla confezione ho sperato di poter degustare un gelato alla cima genovese, con tanto di filo da cucito.

Ci sono comunque andato vicino col gusto successivo, il campione di questa mia personale competizione: il gelato ai piselli.

Che non è cattivo, non si può definire cattivo per niente. È che sa di piselli. È come mangiare una crema di piselli congelata, fa strano tirarla fuori da una confezione di gelato e tenerla col bastoncino.

Un’altra differenza fra il supermercato sotto casa e quelli italiani è che qui non vendono l’insalata. Ci sono diversi tipi di verdura simile, ma è tutta roba che dovresti passare in padella, la lattuga non c’è, il radicchio neanche. E le zucchine sono così grosse che le vendono singolarmente avvolte in retine di plastica come i meloni, ma quando le apri non sono andate in semenza come ti aspetteresti, sono zucchine normali, grandi come una coscia di cane. E se compri per sbaglio le patate dolci poi non sai come cucinarle e ti restano nel frigo tipo per sempre. Ma non sto dicendo che sia successo a me.

Mi piace andare a fare la spesa lì, le commesse mi conoscono e mi sorridono. Quella del reparto frutta e verdura mi dice anche delle cose che però non capisco e sorrido e me ne vado alla svelta.

La mattina di ferragosto siamo a casa a fare colazione con la frutta che ho eroicamente acquistato due giorni prima, da solo, e che tengo in un sacchetto vicino a quell’altro che contiene tuberi di cui non mi va di parlare.

Faccio anche il caffè con una Bialetti che ho portato lo scorso natale, a cui purtroppo manca il manico perché qualche scemo l’ha fuso al primo utilizzo, e quella volta Shasha si è incazzata più che per le patate.

Poi andiamo a Sanlitun, dove sono passato solo una volta in bici e non ho visto niente.

È un quartiere moderno, pieno di palazzi e negozi fighi e centri commerciali e un negozio di fumetti assolutamente stiloso, dove certi giorni suonano complessi jazz e puoi sederti al tavolino a sorseggiare un caffè di marca (qui il bicchiere di caffè lo degustano al tavolino per un’ora, non esiste la tazzina di espresso che tracanni e via, perciò sarà anche Illy, ma è comunque una brodazza), ma se vuoi un fumetto la scelta è fra un centinaio di albi spillati e altrettanti brossurati. Però, con mia sorpresa, hanno anche V for Vendetta. Non credevo che un testo contro il totalitarismo che sembra essere stato scritto apposta per raccontare la situazione in Cina superasse le maglie della censura, ma ammetto di essere troppo prevenuto nei confronti del governo locale. In un’altra libreria ho trovato anche 1984 e La Fattoria Degli Animali, di Orwell. Diciamo che la critica al potere è ammessa, basta che non sia espressamente citato il potere cinese.

Mi compro una scatolina di action figures Titans ispirata a Breaking Bad, una di quelle in cui non sai quale personaggio ci troverai dentro. Sono venti, e di alcuni non viene mostrata neanche l’anteprima sulla confezione. Mi aspetto la fregatura, tipo le sorelle scassacazzi o il ragazzino con le stampelle, ma la possibilità di trovare qualcosa di valido è alta, sarei felice di portarmi a casa Mike o Saul Goodman, o magari il camper. Mi va di straculo e dalla scatoletta spunta il porky pie nero di Heisenberg!

Usciamo dal negozio felici come due ragazzini, col mio personaggio preferito e un volume di V for Vendetta in inglese per la mia fidanzata, che certe letture sono imprescindibili anche se non vivessi sotto una dittatura, e andiamo a mangiare un hamburger ciclopico in un posto lì vicino.

Dopo pranzo Lama Temple, una delle ultime attrazioni cittadine che non ho ancora visitato.

Niente di nuovo da raccontare, è il classico tempio cinese composto da diversi cortili su cui si affacciano gli edifici, dentro ai quali puoi trovare niente oppure una statua alta ventisei metri intagliata in un unico tronco di legno di sandalo. La cosa curiosa è che ti danno questi bastoncini di incenso all’ingresso, e un cartello ti spiega che dovresti bruciarne tre in ogni braciere lungo il percorso fino all’ultimo tempio, ed elevare le tue preghiere. Né io né Shasha siamo particolarmente religiosi, e molliamo tutto l’incenso al primo braciere dicendo byebye, che suona come 拜拜, e a Taiwan significa rendere omaggio alla divinità. Non so se in Cina venga usato, ma immagino di sì, visto che a me lo ha raccontato una ragazza cinese. Di lì in poi è tutto un ironizzare sul doppio senso, che ci rende la visita un unico cazzeggio irrispettoso.

In giro la città si è riempita di italiani, ne incontriamo gruppi numerosi al tempio e nell’hutong, dove ci spostiamo per continuare il nostro pomeriggio da coppietta innamorata. Insegno a Shasha un paio di frasi maleducate da usare in presenza dei miei connazionali più molesti e andiamo in un locale che conosce lei, a fare merenda, e poi a cena in un vietnamita. Entrambi i locali si trovano nell’hutong, hanno un giardino interno e ti fanno scordare di trovarti in mezzo a una città enorme.

C’è anche il tempo per un bicchiere in un baretto imboscato dietro una falsa libreria, come uno speakeasy americano: sposti la falsa parete ed entri nel locale, piccolo e poco illuminato. Bella scelta di marketing, ce n’è uno simile anche a Genova, solo che non ho mai capito dove sia, è nascosto troppo bene.

La trafila è la solita per ogni volo: ti fai portare all’aeroporto, fai la fila per il gate, ti fanno salire su un cubotto per una perquisizione dove manca soltanto il guanto in lattice, e ti lasciano libero di vagare in un’area piena di ristoranti, negozi, giardinetti. La differenza con Orio Al Serio è perfino ridicola, ma anche la Malpensa qui avrebbe grosse difficoltà a mostrare i muscoli.

Scegliamo un coreano che offra il pollo fritto, dal mio viaggio precedente me ne è rimasta una voglia da donna incinta, e facciamo venire l’ora della partenza.

Sul viaggio non ho granché da raccontare, l’aereo ha i sedili e i finestrini, le hostess sono gentili e il volo da Pechino a Guiyang dura un tempo difficile da quantificare se ti addormenti subito dopo il decollo. Se sono qui a scrivere significa che è andato tutto bene.

All’arrivo l’aria è più fresca, il taxi che ci porta in hotel ha l’autista chiuso in una gabbia, cosa che mi fa pensare a elevati tassi di criminalità locale, ma Shasha si limita ad alzare le spalle. La città dal finestrino sembra più caotica della capitale, le strade sono decisamente più strette, e il traffico ne risente, sebbene sia già piuttosto tardi.

Ma dov’è, poi, Guiyang?
Partendo da Pechino e spostandosi verso sud bisogna percorrere 2.183 km prima di arrivare a Guiyang, o almeno è quanto sostiene Google Maps. La metà della distanza fra Los Angeles e New York, che corrisponde, dicono, a circa 150 milioni di aspirine messe in fila. 

Ora non so chi si sia preso la briga di comprare così tante aspirine e collocarle su una lunghezza simile, ma se lo dicono dev’essere vero.

Guiyang è la capitale del Guizhou, una provincia che ospita il 37% delle minoranze etniche del Paese, ma se non sei cinese non ne riconosci nessuna, e quando ti dicono “Vedi quello? È un Miao” ti volti e vedi un altro cinese. Boh.
Il Guizhou è considerato da wikipedia una regione povera e sottosviluppata, ma da quando è stata scritta quella pagina sono cambiate diverse cose, e Guiyang si sta trasformando in un polo tecnologico all’avanguardia.

Perlomeno la sua parte più moderna, se cammini nella città vecchia (che poi, vecchia, sarà degli anni ’60, toh) ti senti come a casa mia, solo con più palazzi e molti più cinesi. Più o meno quattro milioni e mezzo.

L’hotel si trova nella parte nuova della città, che è come dire un’altra città, con una terza città nel mezzo. Guiyang sta subendo un’espansione molto veloce, come molte altre località della Cina. Trovandosi in mezzo ai monti è riuscito difficile allargarsi in cerchi concentrici come Pechino, si è cercato di fare un po’ come si poteva. Adesso dal centro si prende una strada a tre corsie che sale verso la parte nuova, fatta di grossi palazzi e centri commerciali. A metà strada si passa in mezzo a un altro complesso, fatto di quei palazzoni tutti uguali tirati su in mezzo al niente.

Alloggiamo all’Hyatt Regency, un cinque stelle sobrio in cima a una collina, da cui si gode una buona vista del parco sottostante e della città nuova alle sue spalle.

È dotato di ogni tipo di comfort, secondo gli standard di questa categoria: due piscine di cui una con l’idromassaggio, una palestra aperta anche di notte, un ristorante di lusso, salotti e salette per ogni necessità. Le camere sono confortevoli e piene di bottoni da schiacciare, i letti enormi.

Purtroppo, a differenza dell’Hyatt Regency di Shanghai in cui ho alloggiato a capodanno, il coperchio del gabinetto nella mia camera non si alzava e abbassava da solo quando entravo nella stanza, e il copritazza non era riscaldato.

È chiaro che se continui a offrire un servizio così mediocre gli affari ne risentono. Ogni volta che mi sedevo sulla tazza dovevo resistere alla tentazione di scrivere una lettera indignata al direttore della struttura; mi calmava solo il pensiero che, essendo fidanzato con una dipendente Hyatt, avrei potuto alloggiare a babbomorto praticamente ovunque nel mondo, e l’immagine di me che esco da un hotel di lusso a New York e saluto il valletto all’ingresso come Crocodile Dundee mi rimetteva subito di ottimo umore.

Sabato 11 agosto

Faccio colazione all’italiana: cappuccino, brioche, pane e marmellata, succo di frutta, yogurt, latte e cereali, una mela. Poi, siccome sono in un hotel figo, ne approfitto per fare anche una colazione inglese, che comprende uovo fritto, salsiccia, bacon, formaggio, salame e fagioli.

Per finire, essendo ospite in un Paese che ha usanze proprie per la colazione, faccio il terzo giro con jiaozi, baozi, youtiao (delle trecce di pasta fritte, una specie di krapfen senza la crema e dalla forma allungata) pucciati nel latte di soia.

Ho bisogno di energie, oggi è una giornata importante: conoscerò la famiglia di Shasha.

(domani farò la stessa colazione con una scusa diversa)

Sono un po’ preoccupato, mi sono stati descritti come una famiglia molto tradizionale, e non so se devo considerarla una cosa buona. Cioè, per me la famiglia tradizionale cinese è composta da una madre che indossa il qipao, un burbero nonno con una lunga barba bianca che insegna il kung fu e una nonna impegnata a dipingere caratteri con un pennello e cucinare robe al vapore. E sono tutti ostili verso gli occidentali.

Ci facciamo portare in taxi fino a casa dei nonni, in centro, e di lì ci infiliamo in una stradina malmessa. In un campo da calcetto lì accanto vedo degli anziani che camminano agitando le mani e battendo i piedi in una specie di danza. Shasha mi spiega che stanno facendo ginnastica.

“I tuoi nonni partecipano a queste attività di gruppo?”

“No”

“Allora posso parteciparvi io?”

“Sei nervoso?”

“No”, rispondo, mentre mi fermo un momento ad allacciarmi le infradito.

Alla fine verrà fuori che la famiglia di Shasha è una normale famiglia, solo più cinese delle altre.

E non parla inglese, cosa che ha limitato le nostre conversazioni alla nonna che mi dice cose e ride, e tutti gli altri che mi agitano la mano per salutarmi e poi ci si ignora.

Non potendo comunicare diventa difficile relazionarsi anche a livello emotivo, capire se queste persone ti sono simpatiche e tu a loro. L’unica che non ha problemi in questo senso è la nonna, che comunica nel linguaggio universale delle nonne: mi dà da bere, mi porta un gelato, si assicura che non abbia troppo caldo e che faccia il pisolino dopo pranzo con la coperta sulla pancia.

Una premura che tutta la famiglia mi ha dimostrato durante la mia permanenza a Guiyang, è stata di sintonizzare la televisione sul canale CCTVNews, un canale di notizie esclusivamente in lingua inglese. Non che me ne fregasse qualcosa, oltretutto il pluralismo dell’informazione in Cina non esiste, avrei ottenuto notizie più credibili dal mio telefono, ma quando sei in una casa piena di persone che parlano fra loro in un idioma sconosciuto l’unica alternativa al fingersi morto è fissare lo schermo sperando che succeda qualcosa.

Il primo giorno incontro anche la famiglia dello zio. Lui è un tipo gioviale, cerca di fare amicizia, si prende confidenza. Sua figlia è una ragazzina con gli occhiali che parla inglese decentemente, proviamo a dirci qualcosa, ma è come la gag di Guzzanti sull’aborigeno.

Una delle ragioni per cui siamo venuti fino a Guiyang è che la mia fidanzata deve rifare la carta d’identità.

Andiamo subito dal fotografo, e intanto che lei posa nel retrobottega io vado a fare due passi senza allontanarmi troppo, che se mi perdo qui non so proprio come riuscirei a ritrovare la strada.

Il clima è migliore che a Pechino, l’aria sembra più fresca. Di certo è più pulita.

Vengo attirato da un uomo che trasporta due ceste cariche di roba appese a un bastone, come una bilancia. È la tipica immagine dell’Oriente che collego alla mia infanzia, quando sfogliavo enciclopedie e guardavo cartoni giapponesi. A Pechino questi ambulanti non si vedono di sicuro, ma qui ne incontri di continuo: vendono frutta, oggetti, noci, e sempre col loro bilanciere sulla spalla.

Entro in un negozio di scarpe e la commessa si avvicina come al solito, e come al solito le dico, in inglese, che sto solo dando un’occhiata.

Questa va nel panico, chiama la sua collega che stava nel retro, ridono isteriche e si nascondono dietro al banco da dove mi fissano come se fossi in mutande.

Mi sento, in effetti, come una strana attrazione da circo, e la cosa non mi garba affatto, per cui decido che ci sono un sacco di altri negozi meritevoli della mia attenzione, ringrazio ed esco. Alle mie spalle risate come a una stand-up comedy.

Dopo pranzo (del pollo avanzato dalla sera prima e della roba buonissima comprata in una delle bancarelle giù in strada) i nonni devono riposare, quindi schiodiamo.

Shasha mi porta avedere il Padiglione Jiaxiu e il giardino Cuiwei. Fa un po’ strano tradurre i nomi cinesi, ma sennò non si capisce di cosa sto parlando, se di un piatto o di un edificio.

In questo caso si tratta di un complesso di edifici storici, epoca Ming (1598), formato da un ponte sul fiume Nanming, un padiglione di ottima fattura e una serie di edifici più piccoli circondati dal tipico giardino cinese,con gli ingressi tondi e i leoni di pietra.

Nel 1998, una delle periodiche inondazioni che colpiscono la regione danneggiò la struttura, e nella squadra di architetti che la riportarono allo stato originale era presente suo nonno. Per questo ci teneva a mostrarmelo, e mentre percorriamo il vialetto che sale verso l’edificio più alto mi mostra dove, da bambina, veniva a giocare con gli amici.

Sorride mentre lo racconta, e io quando sorride perdo interesse in tutto il resto, quindi scusate, ma del padiglione Jiaxiu non mi ricordo altro.

La parte di città in cui ci troviamo è dominata dal Kempinski Hotel, l’edificio più alto della zona.

Ci lavora un amico di Shasha, e andiamo a convincerlo a lasciarci salire ai piani alti. Grazie alla sua intercessione otteniamo un passaggio in ascensore e raggiungiamo il salotto panoramico, dove dei distinti uomini d’affari in abiti eleganti stanno prendendo il caffè. Noi in ciabatte e pantaloncini siamo perfettamente a nostro agio e scivoliamo lungo le vetrate con la grazia di baiadere in libera uscita.

Speravo di vedere il parco giochi futuristico appena inaugurato, o perlomeno il palazzo con la cascata sulla facciata, ma devono essere entrambi nella parte nuova, a nord.

Il colpo d’occhio è comunque notevole.

Abbiamo tutto il pomeriggio per ciondolare prima di andare a cena a casa di sua madre (leggera tensione sottocutanea): torniamo al fiume a giocare con gli aquiloni nella piazza principale, che si chiama Renmin, piazza del Popolo. È ampia e brutta, circondata da coppie di colonne e panchine, include nel campionario di squallori anche delle teste di animale su piedistalli di cemento, raffiguranti i dodici segni dell’oroscopo cinese.

Sul fondo una specie di ufone dorato tenuto a mezz’aria dalle canne di un organo collassate per la vergogna. Dalla parte opposta un’alta statua di Mao Benedicente fa la guardia a un edificio che ricorda qualche hotel americano degli anni ’50, quando faceva moderno somigliare a pandori spaziali.

In mezzo alla piazza gente in bici, coi pattini, e diversi campioni indiscussi di aquilonerie.

“Sei capace a far volare l’aquilone?”

“Che ci vuole? Dammi qua!”

Per dieci soldi (un euro e venti) compriamo il modello economico a forma di triangolo. Io avrei voluto quello più figo ad aquila reale, ma la mia saggia fidanzata preferisce andare per gradi, metti che non siamo così bravi.

Spoiler: aveva ragione lei, far volare un aquilone è più difficile di quanto pensassi. Mentre tutto intorno i locali ci sbeffeggiano da altezze che dovrebbero essere proibite ai mezzi sprovvisti di turbine, il nostro farfallone arranca a due metri dal suolo con l’incedere pericolante di un ubriaco dopo il cenone di capodanno.

In compenso, ciabattando avanti e indietro per evitare atterraggi rovinosi, rischiamo di travolgere diverse persone. Shasha commette anche l’errore di srotolare completamente il rocchetto di filo, e cattura un incauto pattinatore che stava dieci metri più in là.

Le nostre prodezze ci rendono immediatamente popolarissimi, tutti si fermano a guardarci e commentano a voce alta. Ho l’impressione che non ci stiano lodando per la nostra irresistibile simpatia, perché ad un certo punto, quando finalmente sono riuscito a rimettere le mani sul giocattolo e sto cercando di farlo ripartire, Shasha decide che è l’ora dell’aperitivo e mi trascina via.

Mi porta in un bar che conosce bene, dove mi mette davanti a un birrone gelato senza niente da mangiare, neanche due noccioline.

La barista sta tagliando a pezzi un grosso cubo di ghiaccio, mentre sul fuoco una pentola piena d’acqua raggiunge l’ebollizione.

Chiedo se serve per il minestrone, e mi viene spiegato che con quella si fa il ghiaccio. Viene bollita prima per eliminare le bolle d’aria. Non lo so se è vero, a quel punto sono ubriaco, neanche ascolto più.

La cena a casa della mamma è sobria: ordinano una teglia con dentro un pescecane intero sprofondato in una salsa di qualunque cosa comprese le arachidi. In tutta la serata dico forse tre parole, di cui una è ciao e le altre due bye bye. Però non va male, dopo cena ci sediamo a prendere il tè e assisto a una complicata cerimonia di travasi in contenitori sempre più piccoli. Mi regalano anche un servizio di teiera e quattro tazzine che spero tanto di riportare in Italia intatto.