Esco dal cinema, porto a casa i miei amici e mentre sto facendo retromarcia per rimettermi in strada arriva un Golf nero tutto assettato, che sta per superare la Velocità Smodata, ma prima di finire in Zona Plaid mi si infila nel bagagliaio.
L’urto è tremendo, la macchina gira su sè stessa come priva di peso, cerco di sganciarmi per non essere trascinato via, ma è impossibile, chi ha costruito quelle cinture di sicurezza sapeva il fatto suo.

Dopo un po’ il veicolo si stabilizza in mezzo alla strada, ancora sulle sue ruote. Dallo specchietto riesco a vedere il mondo con le sue luci accese, senza l’ingombro del lunotto posteriore e dei piantoni e della carrozzeria che una volta componeva il retro della mia auto, perché dove una volta c’era il bagagliaio di una Toyota Yaris adesso c’è lo spazio.
Sul sedile accanto al mio George Clooney, vestito da astronauta, sorseggia con la cannuccia una bottiglia di vodka saltata fuori da sotto un sedile, e mi sorride placido: “È bello qui, vero? Sei al sicuro qui dentro, nessuno può farti del male, puoi spegnere la luce e dimenticarti di tutto.. Ma non è il momento di lasciarsi andare, devi scendere e scassargli la faccia a quello stronzo, hai visto come veniva giù? E parlava al cellulare, pure!”.
Scrollo la testa e la visione se ne va, anche se poteva almeno lasciarmi la vodka, che credo di averne bisogno, ma prima è meglio scendere e valutare l’entità dei danni per poter fare rapporto al mio carrozziere.

L’asfalto intorno al relitto della Yaris è disseminato di frammenti, che riflettono la luce dei lampioni ognuno a suo modo: i miei occhi si spostano da un pezzo di paraurti elastico e poroso a una scheggia di luce di posizione, trasparente e appuntita, fino a un rettangolo di alluminio che chissà per cos’era stato disegnato dagli ingegneri che lavorano laggiù, poi il vetro del lunotto posteriore, un altro pezzo di paraurti di cui si indovina la forma, poi un paio di nike rosse, dei jeans di marca ignota stretti sulle caviglie, un giubbotto Paul & Shark nero e la faccia di un tizio con la bocca spalancata e le sopracciglia all’insù che mi sta urlando qualcosa, ma è come se fossi nello spazio, le mie orecchie non percepiscono alcun suono.
Concentrati, Pablo! Concentrati!

“…osacazzofaih! Manommaivistoh! Coglioneh! Lamiamacchinah!!”

Mi volto e c’è George Clooney che mi guarda dal sedile del passeggero del mio catorcio, sereno e pacioccone come se stesse guardando uno dei suoi film in televisione, ma non Syriana, sennò ti saluto la serenità. Alza le spalle come a dire che me l’aveva detto.

“..damiinfacciaquandotiparloh! Coglioneh! Lamiamacchinah!”

Il mio pugno saetta nell’aria come un proiettile e il suo naso esplode senza alcun rumore. Un fiore di sangue e muco sboccia nello spazio fra noi per un istante, poi si disperde in mille direzioni. Il cretino perde la perpetua lotta contro la gravità e va giù senza aggiungere altri improperi.

Buzz Lightyear da Comando Stellare

“E adesso?”, chiedo a George Clooney che continua a sorridere soddisfatto.
“Ah non guardare me”, risponde, “io servo solo ad attirare pubblico al cinema, sennò un film con Sandra Bullock non se lo sarebbe cagato nessuno! Ma se proprio vuoi un consiglio ti direi che adesso devi cercare di tornare a casa sano e salvo.”
“E come? È notte e qui non c’è nessuno! È una zona talmente desolata che avrei più possibilità di incontrare degli esseri umani se fossi in orbita intorno alla Terra!”
“Tut tut, come direbbe Zio Paperone. La vedi quella pensilina laggiù? È la fermata dell’autobus, e se ti sbrighi potresti riuscire a prendere l’ultimo prima di domani mattina.”
“E come ci vado fin laggiù? La macchina è distrutta!”
“A piedi, come sennò?”
“A piedi? Ma quanta vodka hai bevuto? È lontanissimo! Saranno duecento metri! Non ho sufficiente autonomia per arrivare fin là!”
“Ma devi camminare, di che autonomia parli?”
“Del cellulare, testadicazzo! È quasi scarico, non ci arrivo fin laggiù senza cellulare! E se mi perdo? Senza il navigatore del telefono potrei girare a vuoto per l’eternità!”

George Clooney non riesce a capire e mi guarda con gli occhi sgranati, seppure ostenti ancora il suo sorriso beota. Mi indica col braccio teso la pensilina sul marciapiede, mi dice che è impossibile sbagliare traiettoria, basta camminare nella stessa direzione fin là, ma non ne voglio sapere, è troppo pericoloso! So di cosa parlo, una volta una mia amica non ha voluto affidarsi alla tecnologia ed è finita con la macchina in un quartiere malfamato. La mattina dopo c’era rimasto di lei soltanto l’accendisigari.

“Senti Ryan, quell’autobus è la tua unica possibilità di tornare a casa sano e salvo, fai come ti dico e domani mattina sarai a casa tua a Villavecchia e potrai raccontare la storia più pazzesca della tua vita. A proposito, che razza di nome è Ryan?”
“Che ne so, mi chiamo Pablo.”

Le parole di George Clooney mi infondono quel coraggio che mi occorre per abbandonare il relitto al quale sono appeso e tentare la traversata impossibile fino alla fermata dell’autobus. Mi stacco con un sospiro dallo specchietto retrovisore, che cade a terra con un tonfo, e comincio a camminare, dapprima molto lentamente, poi sempre più veloce. Alle mie spalle la voce dell’ex dottor Ross mi grida di sbrigarmi, che l’autobus sta arrivando, poi di rallentare, che sono arrivato, poi mi volto per vedere cos’ha da sbraitare, che non capisco una parola, e di colpo sbatto contro il palo della fermata. Sono arrivato! Ce l’ho fatta! Sono salvo!

Commander Chris Hadfield is not amused.

Allo stremo delle forze sollevo un braccio, e il mezzo arancione si ferma. Mi butto contro la porta, che si apre di colpo facendomi perdere l’equilibrio, ma riesco a rimanere agganciato e metto un piede sul gradino, poi l’altro, poi qualcosa mi trattiene per la giacca, ma cosa cazzo??
È il tizio della golf, la faccia rossa, non vuole lasciarmi partire senza avergli prima compilato il foglio di constatazione amichevole.

Mi stacco dalla maniglia dell’autobus e gli crollo addosso con tutto il mio peso, facendolo finire per terra, poi gli salto sopra e lo uso per darmi una spinta verso la salvezza. Le porte si chiudono un centimetro dietro la mia scarpa. Sono salvo!

Disteso sul pavimento del notturno Borgoratti/Stazione Brignole sento tutta la fatica della mia impresa eroica salirmi per le gambe. I muscoli tremano, non so più trattenere le lacrime, e mi lascio andare in un pianto disperato, ma felice. Ringrazio George Clooney, ovunque sia, gli prometto che guarderò anche Ocean Twelve, nonostante il primo mi abbia fatto veramente cagare.

Poi mi arriva una voce dall’alto, immagino sia Dio, non ho la forza di aprire gli occhi, solo che questa voce mi chiede se sto bene e poi se ho il biglietto, e non ricordo molto del catechismo, ma Dio non ti chiede se hai il biglietto, perciò mi sa che la mia avventura non è ancora terminata, e allora è meglio se tengo gli occhi chiusi e faccio finta di essere morto.

Dalla finestra del mio ufficio in Bernabeu Straβe potevo vedere le luci dell’Empire State Building cambiare colore, le finestre riflettere gli ultimi raggi rossi prima del tramonto. Sai quell’ora blu che piace tanto ai fotografi, e che corrisponde più o meno al crepuscolo, e che ammanta di una luce magica le strade e gli edifici? A Villavecchia non ce l’abbiamo. Qui la luce è grigia, in questa stagione, poi si spegne e resta il buio umido, l’odore di nebbia e il suono dei rospi. Anche d’autunno, qui i rospi ci sono tutto l’anno, siamo la principale meta del turismo rospese, ci vengono a fare perfino la settimana bianca, mi è già capitato, a metà gennaio, di sentire sotto lo scarpone il suono viscido e croccante (una cosa tipo sguish crik) caratteristico di quando stritoli un capofamiglia, guardare giù e vedere i suoi guantini sepolti nella neve pressata dalla mia suola.

Non mi sentivo in vena di romanticherie, perciò cambiai sfondo del desktop con un abile tocco di mouse, e il più famoso simbolo di New York lasciò il posto a un’anonima modella tettona. Dalla finestra arrivava il suono di organetto di un luna park, quella melodia sfiatata che mi riportava con la memoria a Coney Island, quando passeggiavo mano nella mano col mio grande amore e ci fermavamo a comprare lo zucchero filato alla bancarella davanti alle montagne russe, e poi guardavamo l’oceano e sognavamo di attraversarlo e lasciare quel paese così povero di speranze e rifarci una vita in Europa, magari in Italia.

Scacciai quel ricordo doloroso e guardai giù: il furgoncino del torrone apriva la fiera di quartiere, e alle sue spalle si estendevano banchi carichi di ogni mercanzia, dai formaggi di alpeggio alle collane fatte di pasta, e la strada era ingombra di famiglie allegre che allungavano il collo di qua e di là.
Il Mercatino Di Villavecchia, una delle mille attività che facevano di questa strada il centro della mondanità valligiana. Non capisco proprio perché la mia ex moglie si opponesse tanto a trasferirsi proprio qui, quando in quei giorni guardavamo l’oceano e io sospiravo e le chiedevo “amore, perché non molliamo questo paese così povero di speranze e non ci rifacciamo una vita in Europa? Magari in Italia! Ho letto su una rivista che c’è questo piccolo borgo nell’entroterra genovese..”. Di solito lei mi interrompeva con astio, mi chiedeva se avevo di nuovo bevuto la candeggina, e per farmi smettere di delirare mi comprava altro zucchero filato.

Misi la giacca e feci un fischio al mio assistente, Jack Oneyed, che pisolava sul divano.

Superato il banco del torrone ci imbattemmo in quello dell’antiquariato, dove un attempato signore con un grosso sigaro fra i denti mostrava il relitto di una macchina da scrivere a un tizio con un buffo maglione a righe colorate che lo faceva somigliare a un’ape lisergica. O Grosso Sigaro era un buon venditore o l’Hippymaia non aveva mai visto una macchina da scrivere prima di allora, perché quel pezzo di metallo contorto che giaceva su un tavolino a tre gambe arabescate dai tarli non aveva neanche più tutti i tasti, e somigliava alla bocca di un tossicomane.

Lasciai il signor Barnum e la sua prole e continuai l’esplorazione del mercatino. Accanto a me Jack Oneyed annusava in egual misura le ceste appoggiate ai muri e le gambe dei visitatori, non sapendo da quale delle due aspettarsi una sorpresa.
Nè da una nè dall’altra, risultò poi. L’inaspettato ci giunse alle spalle nella figura rotonda e baffuta del maresciallo dei carabinieri, che mi chiamò da lontano e poi trotterellò fino a venirmi ad ansimare davanti. Dieci metri di corsa sono un’attività più che impegnativa per chi fa da anni una vita di scrivania.

“Renzi, lo fai ancora l’investigatore privato?”
“Marescià, vi abito di fronte, non faccia finta di non sapere come mi guadagno da vivere, eh?”
“Oh, scusa se ho cercato di non essere troppo diretto!”
“Va bene, dai. Che le serve?”
“Hanno ammazzato uno nei vicoli ieri sera, e cercando in archivio è venuto fuori che si era rivolto a te in passato. Si chiamava Franco Ratti, lo conosci?”
“Cazzo! E lo conosco si! È stato mio cliente per un anno e mezzo!”
“Di cosa si trattava?”
“Mi spiace, non posso dirglielo. Sa, etica professionale, sono certo che mi capisce.”
“Allora dovrò chiederti di farmi vedere la licenza di investigatore privato. Sono certo che anche tu mi capisci.”
“Si trattava di stalking.”

Il maresciallo strabuzzò gli occhi. “Ratti subiva stalking? E da chi?”
“No, non lo subiva, voleva praticarlo su una tizia che gli piaceva, ma siccome è illegale è venuto da me a chiedermi di farlo al posto suo. Una cosa innocente, sa, indagare su questa donna, scoprire dove abita, cosa fa nella vita, se vede qualcuno..”
“È illegale anche per un investigatore privato, che cazzo combini?”
“Infatti ho i miei metodi. Non l’ho pedinata, ho organizzato un incontro casuale, mi sono presentato e l’ho invitata a cena.”
“E hai scoperto qualcosa?”
“Un sacco di cose, ma non potevo raccontarle a Ratti.”
“E perché?”
“Era una faccenda delicata. In effetti la ragazza si vedeva con uno che aveva conosciuto al supermercato, avevano cominciato a frequentarsi e poi la cosa aveva ingranato ed era cominciata una relazione vera e propria.”
“Questa roba potrebbe essere utile alle indagini, magari Ratti è andato dal fidanzato della ragazza in un attacco di gelosia folle e questo l’ha fatto fuori!”
“Ma figuriamoci!”
“E tu che ne sai?”
“Sono io il fidanzato. Ho cercato di non farmi scoprire da Ratti, ma ho paura che se la sia data: una mattina l’ha vista uscire dal mio portone.”

La nostra conversazione venne interrotta bruscamente da un sibilo fortissimo e tutti alzammo gli occhi al cielo per cercare di capire da dove provenisse.

Non potevamo credere ai nostri occhi: un’enorme sagoma circolare avanzava lentamente nel cielo, a coprire con la sua ombra i tetti delle case.

“Minchia!”, esclamò il maresciallo.
“Minchia!”, esclamò il tizio con la pipa.
“Minchia!”, esclamai io.

Minchia arrivò dal fondo della via con un pacco di fogli in mano, tutti i permessi per organizzare il mercatino, le richieste al comune e ai vigili e le carte bollate, ma disse che quella cosa lì non l’avevano organizzata loro, si scusò coi presenti e svenne a faccia avanti.

Il mio intuito di detective mi suggerì che quell’anno il mercatino di ottobre sarebbe stato parecchio più interessante del solito.

…………………

Io però non ci sono andato lo stesso, sono stato a casa a guardare Hot Fuzz e a preparare l’insalata di polpo con le patate, che è venuta perfetta, e capisco che non sarà un piatto difficile, ma ero sicuro che il polpo sarebbe rimasto coriaceo e di pessimo umore (e vorrei vedere voi se vi infilassero in pentola e poi vi facessero a pezzetti), e invece sembrava burro, e quindi adesso me la tiro un po’.

Hot Fuzz è un film bellissimo, e a proposito di film, voglio andare a vedere Gravity al cinema. Chi viene?