Io lavoro in un posto che mi permette di essere a casa per l’ora di pranzo, cosa che mi permette di essere a casa quando la postina viene a portarmi la corrispondenza. Funziona così, lei arriva, scende dalla macchina, il mio cane la sente e si precipita in giardino, salta sul muretto e comincia ad abbaiare come un leghista davanti al progetto di una moschea, io esco per farlo tacere e la postina mi consegna quel che deve e mi sfancula. Lo fa con una cadenza preoccupante, tanto da farmi credere che le dia fastidio essere accolta dai latrati. Ho pensato di tenere il cane rinchiuso, ma poi mi sono reso conto che probabilmente mi sfancula perché è mia sorella ed è abituata così, e sul muretto mi ci sono messo io e adesso appena si presenta ci siamo in due ad accoglierla, Jack che abbaia e io che le tiro le pietre.

Qualche giorno fa mi ha portato una lettera diversa dalle solite, non cominciava né con Gentile Cliente né con Comando Dei Carabinieri Di, e mi sono incuriosito tanto da aprirla subito.

“Cazzo fai, mi porti le lettere degli altri?”, ho chiesto a mia sorella.
“Perché? C’è il tuo indirizzo sulla busta! A chi dovevo portarla?”, mi ha risposto.
“E io che ne so! Qui dice La Esse Vu è invitata.. Io mica sono Esse Vu!”
“Deficiente! Esse Vu vuol dire Signoria Vostra!”
“Ah. Credevo Simona Vetuschi.”
“Mavaffanculo.”

Ho letto il resto della lettera, diceva che la essevù di cui sopra era invitata al Gran Ballo Delle Debuttanti che si sarebbe tenuto a Genova presso il Palazzo Ducale di lì a qualche giorno.

Il Ballo Delle Debuttanti! Non ci potevo credere! Non ero mai stato invitato a un evento così importante! Sognavo di parteciparvi da quando avevo sedici anni, e mai, dico mai una volta che mi fosse arrivato l’invito!
Una volta alle superiori una mia compagna era stata scelta dalla Gilda Delle Debuttanti, l’organismo che si occupa di monitorare tutte le diciottenni della città per decidere chi sarà all’altezza di accedere al Gran Ballo, e in poco tempo tutta la scuola ne era venuta al corrente, stazionavano frotte di ragazzine fuori dall’aula solo per guardarla, le sentivi sospirare, anche se il rumore che copriva tutti gli altri era quello di denti digrignati.

Come dar loro torto? La fortunata sarebbe stata accolta dalla crema della città, avrebbe trascorso la serata conversando amabilmente con industriali, banchieri, avvocati, medici, e quell’anno si mormorava della presenza di un vero dittatore sudamericano!

E finalmente toccava a me, avrei assaporato il vero lusso, quello che si vede in televisione, mi sarei confrontato con qualcuno che sentivo al mio stesso livello per educazione e cultura, e alla fine avrei ballato con un vero cadetto della Marina..

Ho emesso un bestemmione da oscurare il cielo, e mi sono rivolto alla mia ragazza in cerca di aiuto: “Marzia, porcatroia, io non so ballare! Insegnami qualche passo!”
“Ma io conosco solo balli sudamericani, a Palazzo Ducale dovrai ballare dei valzer!”
“Meglio che niente, poi cercherò di adattarli alle circostanze.”

Salsa, bachata, rumba, lambada e merengue solo per cominciare. Poi i passi più difficili come il cha cha cha cha, che è una versione più impegnativa del cha cha cha, la samba quattroperquattro, che ancora adesso devo capire cosa sia, fino al pericolosissimo mambo verde, che se lo balli per dieci secondi muori.

“Non riesco a immaginarti a sculettare nel bel mezzo di una mazurca, mi sa che è meglio se rinunci.”, mi dice Marzia.
“E perdere l’occasione della vita? Mai! A costo di pestare i piedi a tutta la marina militare io parteciperò a quel ballo!”

La sera della festa ero emozionatissimo, mi sono preparato con cura, ho messo un abitino bianco con una gonna piena di svolazzi, una coroncina deliziosa fra i capelli e delle scarpette senza tacco che sembravano due confetti. Mi sono anche fatto la barba.

Marzia ha trattenuto a stento una lacrima. “Sei bellissimo”, ha detto, “Se tua madre potesse vederti!”
“E come fa? Non ha mica la vista a raggi x!”, le ho risposto ridendo. In effetti mia madre era nell’altra stanza, l’avevamo invitata a cena, ma dopo che ce l’aveva preparata l’avevamo chiusa in cucina a lavare i piatti.
“Vai ora, o farai tardi!”, mi ha sussurrato all’orecchio, spingendomi fuori.
“Non mi dai un bacio?”
Mi ha spinto più forte.

Davanti a Palazzo Ducale le diciottenni non si contavano, erano tutte assiepate sugli scalini, o vicino alla fontana, e indossavano abiti elegantissimi. Certe avevano delle scollature da caderci dentro, o delle gonne così corte che una maglietta le avrebbe coperte di più.
Io sembravo la loro nonna, con quel vestito morigerato. Gli occhi a girandola tradivano un desiderio di parentele più strette.

Mi sono presentato al militare all’ingresso, un ufficiale di marina alto come un corazziere, e gli ho mostrato il mio invito.
Se l’è rigirato fra le mani, mi ha guardato un po’, ha ricominciato a esaminare il biglietto.

“Lei è il padre?”, mi ha detto alla fine.
“Di chi?”, ho trasecolato.
“Quest’invito non va mica bene”, ha detto, e mi ha restituito la lettera.
“Perché no? Non è il Ballo Delle Debuttanti questo?”
“Si, ma non è il ballo ad essere sbagliato, è l’invito. Non vale per questa festa.”
“Ma qui c’è scritto Palazzo Ducale!”, ho insistito.

Il marinarone nel restituirmi la lettera mi ha indicato l’intestazione:
“Vede qui? Legga bene cosa c’è scritto.”

È stato a quel punto che mi sono reso conto dell’errore, non ero stato invitato al Ballo Delle Debuttanti.

E dove sarebbe questo Ballo Delle Ributtanti?”
“Nei fondi di Palazzo Ducale. Si entra per quella scala laggiù.”

L’atmosfera alla festa al piano interrato era un po’ diversa, meno sontuosa. C’era qualche festone appeso al soffitto, un tavolino per le cochecole della lidl e al posto dell’orchestra un apparecchio per il karaoke con quattro tizie davanti impegnate a peggiorare, per quanto possibile, una canzone delle Spice Girls.

Lì le ragazze in minigonna erano più numerose che di sopra, ma le loro scollature erano da paura per le ragioni sbagliate, buttarci l’occhio dentro era come sbirciare dal parapetto dell’inferno.
Mi sono fermato sulla porta, incerto se scappare subito o scroccare un alcolico per sopportare meglio la delusione, e subito è arrivata una tizia ad abbordarmi. Era bionda, ma le due dita di ricrescita raccontavano una storia diversa, e aveva superato i diciotto anni da altrettanti. Non sarebbe stata neanche brutta, se gli occhi avessero guardato in un’unica direzione. A dire il vero non c’era niente nel suo viso che seguisse una traiettoria precisa, gli occhi si incrociavano verso il naso, che però pendeva a destra, e i denti erano un monumento all’anarchia. Per completare il quadro si era pettinata con un ardito taglio a spazzola, ma il gel non doveva essere stato sufficientemente potente, e la cresta ribelle si era afflosciata come le ortensie di cui avrei dovuto occuparmi in assenza di Marzia.

Ciao, vuoi ballare?”
“Grazie, ma non ho ancora perso conoscenza.”

Si è allontanata, ma subito ne è arrivata un’altra a prendere il suo posto. Questa aveva un grosso paio di occhiali con le lenti spesse, i capelli neri unti erano appiccicati alla calotta cranica, era alta e magrissima, con un po’ di gobba. Mi osservava dall’alto in basso come una mantide, e muoveva le mani in continuazione.

“Ciao, io mi chiamo Luana”
“Io no”

Mi sono guardato intorno in cerca di una via di fuga, e ho notato che vicino all’ingresso c’era una ragazza diversa dalle altre, meno ributtante. Non che fosse uno spettacolo, in realtà aveva un aspetto piuttosto comune, ma in mezzo al catalogo Pozzi Ginori spiccava come una macchia di sugo sulla mia maglietta preferita.
L’ho raggiunta, liberandomi di Luana col vecchio trucco dell’improvvisa perdita di memoria. Stava parlando con un’altra tizia, ma il casino della sala mi ha permesso di capire cosa le stava dicendo solo alla fine:

..sporcano per terra, rubano, violentano, e noi zitti. Bisogna rimandarli a casa loro, ‘sti arabi di merda!”

Non ho neanche rallentato, ho preso la porta e le scale e mi sono fiondato in strada con lo stomaco capovolto. Posso sopportare qualunque bruttezza, tranne quella interiore.

Tornando a casa ho riflettuto sul significato di quell’esperienza, e come Tolstoj ho scritto quaranta pagine di pistolotto morale da inserire in fondo al racconto. Se fosse un romanzo ce le metterei senz’altro, che fanno volume, ma in una pubblicazione da blog rischio di perdere anche quei due tre che resistono a frequentare quest’angolo di rete, perciò lo riassumo in un paio di concetti molto semplici: il ballo delle debuttanti è una cagata, e mia sorella è una postina inaffidabile.