“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

Riassunto della puntata precedente:
Per dimenticare un canarino vado in un posto che si chiama Palazzo Fava.
Giù in strada c’è Freud che mi suona con insistenza il campanello perché ha delle cose importanti da dirmi.

2.
Drusilla la rivedo una settimana più tardi. Sono ai Giardini Dimarzo col mio amico Beonio a bere pisciazza seduti dietro quell’uomo che grida gelati.
In effetti non lo so perché continuiamo a frequentare questo posto, la birra fa schifo e c’è pieno di ambulanti rumorosi.
Gli sto spiegando come il testo dell’omonima canzone di Battisti sia uno specchio dell’ontologia heideggeriana, in totale disaccordo, ad esempio, col superuomo di Nietsche, il quale verrà definitivamente estromesso dalla cultura musicale nel 1992, con l’avvento di Max Pezzali.

A Beonio questi discorsi non interessano. Lui vuole parlare di figa.
Mi indica tutte le ragazze carine che ci transitano davanti, di quelle brutte commenta “Eh però, due colpi..”

“Guarda quella con la maglietta a righe! Secondo te sta con quello lì che sembra un cattivo di Dragonball?”

È Drusilla, naturalmente. Il tizio che l’accompagna lo conosco di fama, canta in un gruppo di quelli coi testi complicati che non vogliono dire niente. Me ne ha parlato qualche volta, non sapevo che si frequentassero.
La birra che ho in mano fa schifo, abbandono il bicchiere e raggiungo la mia amica, subito tallonato da Beonio cui non sembra vero di poter avvicinare un esemplare privo di pisello.

“Ma tu solo magliette a righe quest’anno?”, le domando mentre mi impiglia alla barba un bacio leggero.
Mi presenta il cattivo di Dragonball, si chiama Piergigi e di persona sembra molto meno carismatico di quanto appare su youtube.

“Ciao, ho visto il video di Amore Lepidottero. Mi è piaciuta l’idea degli orsetti di peluche che invadono il pianeta, molto efficace.”

In realtà non me ne frega un cazzo, ma devo apparire gentile con gli amici di Drusilla, so che a lei fa piacere.

“È stata un’idea del regista. Noi volevamo mostrare gli occhi di un bambino che muore stritolato da un trattore guidato da centotrenta congolesi sotto il sole del Salento.”
“Eh, non credo che ve l’avrebbero passato su mtv”

Drusilla è parecchio su di giri, gli chiede se al concerto di stasera le dedicherà una canzone, lui dice Ogni Pesce Cerca Un Verme Dentro La Bottiglia, lei vorrebbe I Tuoi Capelli Distribuiscono Sigarette Automatiche, lui fa un sorriso pirata, lei si scioglie. Beonio ha capito che lì non ce n’è e dice che va a prendersi un’altra birra. Lo accompagno, troppi feromoni nell’aria mi fanno prudere il naso.

“Carina la tua amica. Perché non glielo butti?”
“Perché Clint Barton non glielo butta a Kate Bishop, tutto l’equilibrio della serie si basa su quello”
“Non ho capito”
“Non occorre che tu lo faccia”

Le bevande al bar dei giardini sono una peggio dell’altra, la birra è un’offesa al luppolo e i cocktails sono ghiaccioli privi di sapore. C’è gente che per riuscire a trangugiare qualcosa di decente è costretta a farsi servire l’amaro del carabiniere. Però la musica è ottima, tutte le sere suona qualche artista sconosciuto, ed è sempre qualcosa che ti cattura. Mentre aspettiamo che la ragazza al banco ci riempia il bicchiere di plastica con un’altra dose di urina osserviamo un trio parecchio gasato interpretare un vecchio successo di Zappa. Il chitarrista avrà sessant’anni, oppure trentacinque e una dipendenza pericolosa dagli stupefacenti, la maglietta sbiadita mostra ancora la scritta “Da vicino nessuno è normale”, che gli conferisce una certa rispettabilità fra noi amici di Basaglia. Gli altri due sono più canonici, uno mostra delle braccia toniche che gli invidio, oltre a una batteria che francamente non saprei dove mettere nella casa piccola in cui vivo, per cui mi limito ad ammirargli il fisico; l’altro è una ragazza bassa, capelli rossi e occhi azzurri, e suona la tromba, il sax, il clarinetto e il trombone slide. Ha l’aria di una che non si fa problemi a ottenere qualcosa, se lo vuole, e sembra di quelle che qualcosa lo vogliono sempre. Mi domando come si possa mantenere un equilibrio in gruppo con una bella donna inquieta, forse i due uomini sono una coppia, o lei è un androide. Forse sono io che mi faccio troppe domande inutili.

Ancora una volta è Drusilla che mi riporta alla realtà, entrando nel bar col suo amico e venendo diretta a ficcarmi le dita nelle costole.

“Mi hai lasciata sola!”
“Non mi sembrava che ti seccasse”

Se fossi un bravo attore le mie parole avrebbero sempre l’intonazione giusta, si farebbero capire sempre da tutti compresi quelli in ultima fila, e nessuno sgranerebbe occhi color laghetto estivo trovandole ostili. Sono gli allievi di poche speranze come me che devono giustificarsi di fronte al sopracciglio interrogativo delle ventisettenni perplesse, e fare free solo come Alain Robert sul Burj Khalifa, senza neanche i guantini appiccicosi del film.

“Secondo te la rossa sta con uno dei due?”, le chiedo per disinnescare l’imbarazzo.
“Perché dev’esserci sempre un’implicazione sentimentale? Non potrebbero essere semplicemente tre amici che amano suonare insieme?”
“Perché è più divertente”
“Mescolare il lavoro e il letto non è mai divertente”, commenta Cattivodidragonball, “E finisce sempre male.”

Drusilla gli si appende a un braccio: “Storie di vita vera! Racconta!”, ma Piergigi non vuole dire altro, gli è bastato dare un colpo di matita al tratteggio che vende di sé. Se si lasciasse avvicinare di più mostrerebbe le macchie di sugo sul colletto della camicia.
Decido in quel momento che mi sta sul cazzo, lui e tutti i personaggi bidimensionali dei cartoni animati come lui. E la birra dei Giardinidimarzo mi ha rotto i coglioni, contiene esterasi leucocitaria, che denota una possibile infezione batterica del barista, e io di prendermi i suoi malanni grazie ma mi bastano già i miei, che stasera mi pesano particolarmente, meglio se me ne vado a casa.

“Ma no, dove vai?”, dice Beonio.
“Ma no, dove vai?”, dice anche Drusilla.
“Mi piace Bologna mi piace la Spagna mi piace uno sguardo mi piace un abbaglio”, dice il poeta maledetto a una biondina, accendendo fastidi diffusi.

Vado a casa a piangere perché non c’è più Chico Buarque a proteggermi dagli stronzi che si prendono la scena e non rispettano il pubblico, né a capirmi quando ho una cosa che non riesco a far uscire se non dagli occhi e ormai ci sono più impagliatori di sedie ciabattini maniscalchi che lettori di occhi, né a regalarmi i suoi la sera in macchina quando nessuno parla per non disturbare il ticchettio della pioggia e perché non si parla mentre si legge.
Dove ritroverò quella sintonia? Di certo non qui, e allora cosa ci resto a fare.

(continua)