Il Pablog sembra essere diventato preda dei bot, ma non quelli che si sparano a capodann, questi sono dei cosi elettronici che vengono a sbagasciarti il contatore delle visite e ti fanno credere che praticamente ogni giorno ci sia qualcuno che si legge la seconda puntata di un racconto in quattro parti, ma non le altre, solo la seconda, e poi vada a leggere un post vecchissimo e sconclusionato sul perché si mangia la crosta del formaggio scimudin. Ora io non lo so perché sia diventato un bersaglio delle intelligenze artificiali, sicuramente è colpa mia e della mia mania di toccare in giro, e non so quanto possano essere intelligenti delle entità elettroniche che decidono di venire a leggere il mio blog invece di comprarsi roba su Amazon e addebitarla a Bezos, ma se domani i robot cani e i robot corridori si ribellano all’uomo e iniziano ad autoprodursi in serie e in un attimo conquistano il pianeta, potrei avere delle chance di diventare il loro scrittore feticcio. Poi lo so che mi chiudono in una stanza e mi fanno scrivere duecento pagine al giorno come Misery, ma finché non succede me la immagino come una cosa figa.

Nella distopia che ho in mente sarei uno dei pochissimi umani ancora costretti a lavorare, perché le giornate lavorative non esisteranno più: non esisteranno più i lavori, i robot faranno tutto ciò di cui hanno bisogno, cioè produrre altri robot e farsi la manutenzione regolarmente, produrre elettricità con cui alimentarsi e tenere le strade libere dalla spazzatura che si accumula e impedisce di spostarsi da una fabbrica all’altra ai modelli che non sono in grado di volare.
Gli esseri umani saranno perlopiù disoccupati, dovranno arrangiarsi a procacciarsi il cibo e a non farsi trovare in strada quando passa il camion robot della spazzatura. A parte questo piccolo fastidio non avranno alcun motivo di temere le macchine, che li ignoreranno bellamente.
Tranne quando vorranno servirsi della tecnologia per migliorare la propria condizione, ovvio. Provaci un po’ a usare un phon che ti considera un essere inferiore.

Finché questa realtà distopica non si realizza, però, sono obbligato ad arrabattarmi nella mia nuova vita in cui sono rinato come la leggiadra farfalla dal bruco schifoso, che è molto meglio della prima e include una nuova casa, una nuova compagna e un nuovo lavoro (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei un poveretto), ma non mi permette di occupare ruoli importanti nella società dei robot, e quindi devo andare a lavorare come tutti dal lunedì al venerdì. Sono abbastanza libero di prendermi un paio di giorni di ferie da attaccare al fine settimana, e già questo rappresenta un grosso passo avanti rispetto alla mia occupazione precedente (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei anche un frustrato di merda), e per questo stavo pensando di farmi un weekend all’estero il prossimo gennaio.

E sì perché il prossimo gennaio compirò 50 anni, e dato che non sono mai arrivato a compierne 50 prima d’ora non ho ben chiaro come dovrei comportarmi.
Ricordo una tizia che conoscevo, una scrittrice parecchio brava, che oltre al talento aveva un sacco di amici e un ego spropositato, che per festeggiare il suo mezzo secolo aveva affittato un teatro e ci aveva messo in scena uno spettacolo di arte varia, invitando tutti i suoi amici scrittori e poeti a esibirsi sul palco, e band di studenti a suonare i loro pezzi, e alla fine aveva chiuso lei, vestita con una tunica bianca e una corona di fiori in testa, a suonare la chitarra e cantare una roba tipo We Shall Overcome, non mi ricordo, per allora ero già sotto l’effetto di stupefacenti che avevo iniziato ad assumere al sesto minuto da che si erano spente le luci, come lenitivo di quella gigantesca rottura di coglioni a cui non avevo avuto il coraggio di mancare.

Per un breve periodo anch’io mi sono cullato con l’idea di recitare in una cosa scritta da me e invitare i miei amici, ma poi ho pensato che sono già pochi così, e ho preferito inventarmi qualcos’altro.
Adesso, a due mesi dalla data fatidica, dovrei avere in mente cosa sarà, quel qualcos’altro, ma quando rivolgo il mio sguardo interiore alla casella in cui dovrebbero trovarsi le idee su cosa farò per il mio cinquantesimo compleanno ci trovo i ragni che si inculano.

Ho anche consultato un manuale di aracnidi per capire se è normale che si comportino così, ma nel numero che ho trovato in edicola si dipanava una vicenda molto complessa che aveva per protagonista un tizio vestito di spandex rosso e blu che combatteva contro un altro tizio vestito da leone, mentre la sua compagna, una modella fichissima, stava a letto a chiedersi dove fosse finito e se valesse la pena soffrire tanto per uno che usciva di casa conciato come un ultras genoano a una festa fetish.

Ne ho parlato con mia moglie (dei festeggiamenti per il compleanno, non di questa cosa dei ragni) e lei mi ha suggerito di fare un bel viaggio.

“Potremmo andare ad Amsterdam e drogarci fino a perdere conoscenza”, mi ha detto.
“Scusa, ma questa è la mia festa di compleanno, mica la tua. Se devo cominciare a drogarmi voglio fare come il nonno di Little Miss Sunshine e iniziare a settanta con l’eroina”, le ho risposto.
“E allora dove vuoi andare?”
“Non lo so, immagino che dovrei avere in mente un posto mitico che sogno di visitare da tutta la vita, ma non me ne viene in mente nessuno.”

Stavo mentendo, in realtà di posti così ne avevo e ho in mente almeno una decina, ma sono tutti:

1. Posti dove sarei voluto andare a vent’anni e adesso non rappresentano più niente, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
2. Posti dove sono già stato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
3. Posti che si trovano in Inghilterra, dove a mia moglie è richiesto un visto, tipo quella città dove si trova la casa di Freddie Mercury;
4. Posti verso i quali ho ricevuto un ordine restrittivo e non posso più avvicinarmi a meno di 500 metri senza essere denunciato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
5. Posti troppo lontani o troppo costosi, tipo Urano, che in inglese mi ricorda molto la casa di Freddie Mercury a Londra.

Poi pure essere che mi sbaglio e ne sto dimenticando qualcuno, ma bisogna tenere presente il fatto che la mia lista di posti da vedere assolutamente prima di morire l’ho compilata a sette anni sfogliando un volume dell’enciclopedia I Quindici che si intitolava Luoghi da conoscere e aveva tutte le foto in bianco e nero; per dire, uno dei posti era l’Atomium di Bruxelles, che venne inaugurato nel 1957 e negli anni in cui lo scoprivo sulle pagine del mio libro doveva già essere diventato un rudere ben diverso da come veniva descritto.

“Oppure potrei organizzare una bella cena con tutti gli amici!”, ho suggerito alla stanza vuota dopo che mia moglie se n’era andata a fare qualcosa di più divertente. “Sì, certo, come no”, ho aggiunto subito dopo, mentre l’entusiasmo mi scivolava di dosso come la sottoveste a Scarlett Johansson nella mia fantasia erotica preferita.

In breve tempo la domanda oziosa da cui ero partito si è trasformata in un dubbio esistenziale che mi mangia le caviglie e di lì risale attraverso il sistema linfatico per raggiungere gli organi più importanti e divorarseli uno a uno crudi e sconditi. Se non trovavo alla svelta un modo originale, memorabile e in grado di produrre una quantità di foto per instagram che mi valessero almeno un commento tipo “Nuoooh che figo che invidia madonna quanto vorrei avere anch’io cinquant’anni per festeggiarli in questo modo pazzesco ti prego scopami sui chiodi voglio essere il tuo/la tua schiavə sessualə, dove la schwa non ci wa ma ce la metto per fare la rima” avrei celebrato direttamente i 51, anzi, i 53 così mi sarei messo a posto anche con la smorfia napoletana.

Solo che all’anagrafe non me l’accettano il cambio di anno, dicono che devo celebrare gli anni regolarmente uno alla volta e che se volevo farmi modificare l’anno di nascita dovevo pensarci cinquant’anni fa e farmi concepire prima. “Casomai dopo”, ho detto all’impiegata. “Tipo vent’anni più tardi, così oggi avrei festeggiato i trenta con molta più saggezza in corpo e un aspetto molto più florido”.

Mi ha detto che vent’anni fa facevo cagare esattamente come oggi, e anzi, senza una donna che mi obbligava a vestirmi bene andavo in giro che sembrava che mi fossi introdotto in casa di Kurt Cobain il giorno che si è sparato e gli avessi fregato i vestiti, ma non quelli nell’armadio.

Ferito nell’orgoglio e ormai privo di aspettative, mi sono rassegnato a trascorrere il giorno del mio cinquantesimo compleanno da solo a casa, sebbene cada di venerdì e grazie a una rara congiunzione di fattori abbia a disposizione sia il tempo che il denaro per renderlo memorabile. E tutto per colpa di persone che non sono io, tipo il governo britannico che identifico per comodità nella figura del suo Primo Ministro Boris Johnson e tutta la stirpe di mia moglie che ha deciso di mettere le radici in un posto che sta sul cazzo al governo inglese, e che per comodità identificherò nella figura di Jackie Chan, che poi è anche la prima persona a cui pensi quando vedi la cugina di mia moglie coi capelli a caschetto.

Ferito nell’orgoglio e privo di aspettative e incazzato col resto del mondo, ho acceso tutte le luci di casa e ho messo i condizionatori a palla, così in un paio di mesi il riscaldamento globale supera la soglia di irreversibilità e arrivato gennaio non sarò più l’unico disperato nei dintorni, andatevene tutti affanculo.

Vabbè, a quarantacinque ci sono arrivato, pensavo, mentre le mani si rattrappivano sulla corteccia gelata e i rami più sottili cercavano di levarmi gli occhiali. Sotto di me, parecchi metri più in basso, un amico illuminava con la pila l’oggetto che stavo cercando di raggiungere. Il fascio di luce spariva da qualche parte più su di dove mi trovavo, e più lontano dal tronco a cui cercavo di restare appollaiato. Ma chi cazzo me l’aveva fatto fare?

Il mio fine settimana di celebrazioni scatenate era coinciso con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e forse per questo tutti i miei amici avevano il telefono staccato quando li avevo chiamati per uscire. Gli unici che ero riuscito a recuperare erano Lorenzo, un maniaco depresso con la vita sociale azzerata da decenni di benzodiazepine, e Pino, la sola amicizia rimasta nel buco di paese in cui mi ostinavo a vivere, ma con cui non mi capitava mai di uscire perché faceva il benzinaio notturno all’autogrill, e nei pochi venerdì sera liberi che si concedeva non volevi averlo seduto vicino perché i suoi capelli odoravano di gasolio.

Ma era una serata particolare, quarantacinque anni meritano di essere celebrati nel migliore dei modi, e quale modo migliore di sfondarsi di alcool fino a perdere i freni inibitori e poi buttarsi in qualche locale a caccia di femmine?

“Eh per esempio alla birreria tedesca di Clavarezza. Hanno la Dunkel Draften che mi piace.”
“Io in discoteca non ci voglio venire, c’è troppa gente.”

Cinque minuti che era iniziata e la mia serata di festa grande mi aveva già rotto i coglioni.

“Ragazzi, dai, alla birreria ci potete andare quando volete, stasera andiamo a spaccarci in un locale con della gente! Conosciamo delle donne, cazzo!”
“Alla birreria ci sono le donne, la cameriera è carina”, puntualizzò Pino.
“Ha diciassette anni! E le altre femmine presenti sono la moglie del barista e la sua mucca che tiene nel cortile dietro il bar. E se le scambiasse di posto non se ne accorgerebbe nessuno!”
“Io torno a casa, non mi sento bene”, disse Lorenzo, e me la vedevo già la mia serata immerso nei miasmi oleosi di un tavolino isolato, scartato dagli sguardi del mondo, a far venire l’ora in cui puoi andare a dormire senza sentirti troppo sconfitto.
Mi arresi, e dopo mezz’ora di tornanti al buio su un passo alpino ci ritrovammo seduti al Dumme Esel, l’unico locale della valle che tenesse aperto oltre le diciannove, contando anche la stazione ferroviaria e le cabine telefoniche.

L’arredamento ricordava una tipica birreria bavarese rilevata da un nostalgico degli anni ’70 e che avesse subito un pignoramento in tempi recenti: c’erano quattro tavoli di legno, due tavolini di formica verde malattia e un bancone impiallacciato faggio con ripiano in finto marmo; alle pareti alcuni tappetini che i fornitori di birra ti regalano per farsi pubblicità, di marche prodotte in paesi dove certamente non si parlava tedesco, e un quadretto della Guinness comprato durante il viaggio di nozze a Dublino. Dietro il banco, fra le bottiglie di Biancosarti e di grappa Nardini, campeggiava l’unico cimelio che giustificasse l’ispirazione teutonica: una foto di Rummenigge con la maglia dell’Inter, autografata.

Era l’unico locale aperto di venerdì sera nel raggio di venti chilometri, e consisteva di quaranta posti a sedere compresi gli sgabelli al banco: quella che ci accolse oltre la porta non era la folla in un locale di successo, era l’ultima curva prima del suicidio di massa.
Ciondolammo un po’ in attesa che si liberasse un posto, e arrivò la cameriera, sgusciando fra una mandria di manzi postadolescenti che le rivolsero muggiti di approvazione. Bisognava capirli, il corpo di una ragazza che ti si struscia contro era qualcosa di sconosciuto, facile che si spingessero fin lassù apposta per quell’esperienza, per alcuni di loro la cosa più vicina al sesso che sarebbero riusciti a ottenere.

Pino la salutò con un entusiasmo fuori luogo, lei ci condusse a un tavolino vicino ai cessi da cui si stavano alzando tre bimbi in bomber, appagati dal boccale di birra che doveva aver danneggiato in modo serio il loro equilibrio, perché ci franarono addosso in uno scroscio sguaiato di risate e porchidii. Lorenzo mostrò la sua faccia insofferente n.21, con gli occhi stretti che scappano a destra e le labbra che stentano a contenere un insulto. Pino lo mise a sedere con una spinta decisa.

Dal cicaleccio degli avventori saliva la risata acuta della moglie del barista, e la linea di basso di un classico dei Guns’n’Roses. Era il momento in cui avremmo dovuto parlare di qualcosa. Pino guardò il suo bicchiere, poi Lorenzo che guardava il proprio e poi me, e decise che dei tre ero quello che offriva maggiori spunti di conversazione.

“Allora, come ci si sente ad avere quarantacinque anni?”
“Hai presente quando ne hai compiuti quarantatre lo scorso novembre? Uguale.”
“Beh cazzo, quarantacinque sono un traguardo importante, sei..”
“Vecchio?”
“Adulto!”
“Lo ero anche prima, credo.”
“Ma a quarantacinque è certificato, quando dici quarantacinque la gente ti immagina sistemato, con una posizione, una famiglia, dei figli che vanno a scuola. Tu invece sei ancora lì a cazzeggiare. Come ti senti? Fortunato?”
“Mi sento un alieno. E credo di dare quest’impressione anche all’esterno, perché quando conosco qualcuno e gli racconto come vivo mi guardano come se ad un certo punto dovesse aprirmisi la faccia e uscire Lady Gandal.”

Pino rispose con la faccia di quello che gli hanno raccontato una barzelletta difficile, e Lorenzo alzò gli occhi dal bicchiere:
“Il generale di Goldrake, quello che gli si apriva la faccia e sotto c’era una donna cattiva che lo dominava. Bellissima metafora del rapporto di coppia, se volete il mio parere. È un esempio che però calza più a me che a te, scusa.”
Lorenzo cercava sempre di spostare la conversazione sui suoi drammi sentimentali, che da un paio d’anni erano uno solo, sempre lo stesso, una storia finita malissimo da cui non era riuscito a riprendersi e aveva scoperto il magico mondo degli antidepressivi. Lo ignorai, sennò in dieci minuti ci saremmo aperti i polsi con gli stuzzicadenti.

Alla terza birra Lorenzo ci stava parlando della sua ex. Eravamo riusciti a deviare il discorso raccontandoci serie tv di cui a nessuno fregava davvero qualcosa e cercando di immaginare entro quanti mesi Trump avrebbe scatenato una guerra atomica con la Cina, ma quella vecchia volpe ci aveva presi in contropiede raccontandoci una storia innocua su un articolo che aveva letto, e non si sa come era finito a sputare veleno su quella stronza di merda e a riproporci i soliti discorsi che oramai conoscevamo a memoria. Una volta Pino mi aveva suggerito di scrivere le frasi che sentivamo ripetere più spesso e tenerle in tasca, e mostrarle al nostro amico appena ne recitava una.

Cercammo di ricondurlo su un terreno meno sassoso, ma sapevamo che era inutile, quando partiva si fermava soltanto per sfinimento, suo o nostro. Allora andai in bagno.
Ma c’era la coda.
Come se servisse un bagno in una birreria in mezzo al nulla, pensai, e guadagnai l’uscita senza neanche indossare la giacca.
Lo sbalzo termico mi incrinò gli occhiali, e quando riuscii a trovare ciò che stavo cercando in mezzo alle gambe faceva troppo freddo per rilassare la vescica, contrattasi alle dimensioni di una biglia. Tentai di riattivare l’impianto con alcuni massaggi, ma l’immagine che davo di me stesso all’esterno mi fece desistere, e tornai sui miei passi.
Sulla porta incrociai Lorenzo, che si allontanava con la faccia da cospiratore.

“Dove vai?”, gli chiesi.
“A pisciare”, rispose lui, e si allontanò svelto.

(continua)

Quello che segue è un post che ho tenuto in cantina per un anno intero. Avrei voluto farne una puntata di centotre-e-tre, ma lo scrivo talmente di rado che chissà se sarei mai riuscito a collegare Renato Rascel e Laura Nyro, e nel frattempo passa un anno, e di quella bella serata milanese neanche una riga, nonostante ci abbia incontrato una delle persone più belle e preziose che mi sia mai capitato di conoscere. Su quel che è venuto dopo solo un paio di accenni qua e là, perché volevo prima raccontare l’inizio e poi il seguito, solo che il seguito è finito prima di raccontare l’inizio, e allora non aveva più molto senso.

La metto qui, come un saluto da lontano.

Sono a una festa di compleanno in mezzo a persone mai viste prima, e questa sconosciuta mi inciampa addosso, rovesciandomi un cocktail sulle scarpe. Le dico che non fa niente, non mi ha neanche preso, la maggior parte è finita sul tappeto, ma lei si prodiga ancora in scuse, la faccia tutta rossa che s’intona col vestito a fiori, e cercando un tovagliolo per pulire almeno il tavolino, scivola su un cubetto di ghiaccio e finisce in braccio alla festeggiata.

“Guarda, è meglio che ti siedi e ti riprendi”, le suggerisce l’amica e me la deposita accanto.

È molto carina, i suoi occhi chiarissimi mi osservano senza più il minimo imbarazzo:

“Mi chiamo Lisa”, mi dice. E ci stringiamo la mano. Solo che nel porgermi la sua scontra il mio bicchiere e me ne fa cadere mezzo sui pantaloni.

“Oh no!”, esclama, e si butta in avanti per recuperare il tovagliolo di prima, versando il resto del suo cocktail sul divano. Ormai è come stare in piscina, mi sfilo le all star e indosso un paio di comode infradito.

“Forse è meglio se cambiamo posto”, suggerisco.

“Forse è meglio se cambiate bar”, replica il cameriere intervenuto a pulire.

Per rabbonirlo ordiniamo due bibite alla frutta e andiamo a sederci in un posto asciutto, camminando con attenzione e guardando bene dove mettiamo i piedi, soprattutto i suoi.

È piacevole parlare con lei, mi fa sentire subito a mio agio posando il bicchiere lontano dai miei vestiti, e poi mi fa un sacco di domande, e quando rispondo con le mie idiozie non butta neanche occhiate nervose alle amiche sperando che qualcuna venga a salvarla.

Parliamo delle cose che ci piacciono, come fanno di solito le persone che si sono appena incontrate, e mentre si avvolge ciocche di capelli intorno alle dita mi racconta della sua passione per la musica. È preparata, ascolta un mucchio di roba che non conosco, e parte con due gol di vantaggio e l’uomo in più semplicemente dicendo che le piace Tom Waits.

Poi mi racconta di questa cantante, Laura Nyro. Si sente che è la sua cantante preferita, le si sono accesi gli occhi come fari, le dita si sono fatte più veloci, adesso accompagnano le parole volando di qua e di là in gesti ampi, che però vengono frenati dalle ciocche di capelli ancora intrecciate alle dita, e gli strattoni che dà le provocano strilli di dolore.

Riprende il bicchiere con indifferenza, ma si trafigge con lo stecchino. Allora si infila in bocca una fetta d’ananas, che ovviamente le va di traverso, e attacca a tossire. I pezzetti di frutta che espelle dal naso non le tolgono una briciola di fascino, e quando mi rovescia adosso il bicchiere cercando di mettersi una mano davanti alla bocca non cerco neanche più di spostarmi. Mi ha conquistato, lo ammetto. Sarà che da bambino ero innamorato del tenente Crandall, la bella infermiera pasticciona di Operazione Sottoveste, ma non vorrei più alzarmi da quel divano. E neanche credo che potrei, ormai l’alcool e lo zucchero mi hanno avvolto in un bozzolo talmente appiccicoso che per tirarmi via di lì servirà un lanciafiamme.

La serata prosegue senza grossi incidenti, portano la torta che finisce, ovviamente, sul pavimento, il cameriere rimedia un paio di ferite lacero-contuse e per l’abbinamento candeline/vodka sulle pareti manca poco che arrivino i pompieri, ma devo essere onesto, non è stata colpa della mia nuova amica, quando il cameriere ha portato la torta era in bagno.

Per la precisione ne stava uscendo, e come faceva a sapere che dietro la porta c’era un tizio con una torta in mano?

Credo che sia stata una serata piacevole anche per lei, perché quando ci hanno cacciato dal locale ha accettato volentieri di continuare altrove.

Peccato che l’abbia investita un taxi mentre attraversava la strada.

Adesso è in ospedale, non è gravissima, e se la legano bene al letto dovrebbe guarire senza altri incidenti.

Nel frattempo ho cominciato ad ascoltare Laura Nyro, di cui vado a raccontare qualcosa, per chi non ha trascorso la serata con la sua fan numero uno in un locale che ha chiuso per restauri e non riaprirà prima del 2017.

New York negli anni ’60 è un calderone di generi musicali, tutti gli artisti che contano sono lì, Joni Mitchell, Diana Ross, Miles Davis. Se ne vanno in giro alle feste, quando si incontrano suonano insieme, salutano tutti.

Laura Nyro invece sta a casa, chiusa in cameretta a guardare dalla finestra le gang del Bronx che imperversano sul marciapiede. Nessuno la invita alle feste, le ragazze del Bronx hanno la fama di dure, e così lei s’incupisce e scrive canzoni tristissime che si canta da sola con quella voce incredibile da cantante gospel, che non ha mai potuto far sentire in chiesa, perché nel suo quartiere la chiesa l’hanno bruciata quelli della gang di Coney Island, li stanno ancora cercando, mi sa che non ci tornano nel loro quartiere.

Quando Laura canta anche le strade del Bronx si addolciscono, gli spacciatori si trovano un lavoro onesto, i mafiosi si costituiscono, le gang si iscrivono alle scuole serali, e i marciapiedi ripuliti si popolano di coniglietti, uccellini e caprioli.

Poi la magia finisce, perché le canzoni che Laura scrive sono davvero tristissime, e i coniglietti si buttano in massa sotto il tram, i caprioli si tagliano le vene e gli uccellini si annegano nell’Hudson.

Davanti a quella carneficina il padre di Laura, Louis, che suona la tromba nei locali, decide che è ora di dare una direzione a tutto quel talento, prima di beccarsi una denuncia da qualche associazione ambientalista, e la mette in contatto con Artie Mogull e Paul Berry, due produttori che conosce lui.

Grazie a loro Laura Nyro vende una canzone a un trio folk che sta andando molto forte: Peter, Paul & Mary, che noi conosciamo grazie a “Datemi Un Martello”, di Rita Pavone, e vabbè, ognuno ha i folk singers che si merita.

È dello stesso periodo la sua prima esibizione da professionista, in un nightclub di San Francisco, l’Hungry I (angri ai, non angri uno, e non chiedetemi perché), dove ha cominciato la sua carriera, fra gli altri, Woody Allen.

La sua seconda esibizione da professionista non è alla pizzeria Moromare, ma al Monterey Pop Festival. Quel giorno sul palco passa gente del calibro di Otis Redding, i Byrds, Janis Joplin con i suoi Big Brother & The Holding Company, e i Mar-Keys, che tutti vi chiederete chi cacchio sono, sono il gruppo in cui militò Donald “Duck” Dunn, il bassista dei Blues Brothers.

La sua esibizione è un successo, ma Laura si è convinta di avere fatto schifo, ha sentito dei fischi, c’è rimasta malissimo e vuole tornare a chiudersi in cameretta.

Per fortuna l’ha sentita anche David Geffen, uno che sta cominciando a muovere i primi passi di una carriera che lo porterà abbastanza in alto, tipo sulla luna, con un bambino seduto a cavalcioni che pesca in un laghetto: avete presente la Dreamworks, quella che ha prodotto l’ultimo film che avete visto al cinema, e anche quello prima? L’ha fondata quel David Geffen lì.

Fra il ’68 e il ’71 Laura Nyro pubblica i suoi cinque album migliori, poi si sposa e decide che non ha più voglia di fare la cantante di successo, che quella vita lì non le piace mica.

Cinque anni più tardi è il suo matrimonio a finire, e pubblica un disco nuovo. Si vede che non si era spiegata bene.

Da lì in avanti pubblica altri dischi, ha un figlio, una vita piuttosto intensa e non priva di dolori che termina molto presto, quando ha appena 49 anni.

Ma che genere fa Laura Nyro?

La prima cantante a cui mi viene da accostarla è Joni Mitchell, ma senza quella vena folk che attraversa tutta la sua produzione. Qui siamo più dalle parti di Nick Drake, ma anche Jeff Buckley, tutto messo a macerare in un pentolone di rhythm’n’blues. Sono canzoni intense, di quelle che se stai ad ascoltare finisci per sederti e non fare altro, si prendono tutta la tua attenzione, ma sono anche piuttosto malinconiche: il dolore e la solitudine sono temi ricorrenti nei suoi testi, e l’atmosfera notturna che dà il pianoforte fa il resto. Diciamo che se siete appena stati scaricati dalla fidanzata e tornando a casa vi hanno rapinato e nella cassetta della posta c’è quel referto medico che stavate aspettando e che comincia con “prima di andare avanti a leggere forse è meglio che si sieda”, ecco, magari è meglio se mettete su Jovanotti, tipo.

che poi buoni propositi fa troppo cara mamma ti prometto che l’anno prossimo sarò più bravo e terrò in ordine la mia cameretta senza arrivare a farmi chiudere per una settimana nel ripostiglio senza mangiare né bere, mentre in realtà io volevo solo scrivere una lista di spunti di cose che mi piacerebbe veder realizzate in questo 2012 che sta arrivando.

E scusate se comincio col mio compleanno, ma cadrà a gennaio, non è che c’è tutto questo tempo per organizzarsi e le cose da fare sono molte. Per il mio quarantesimo anniversario vorrei evitare di ricevere dai miei amici un mucchio di regali che lo so, sono sentiti, lo capisco, sono destinati a una persona dai gusti particolari e non è facile azzeccarli, lo apprezzo tantissimo che vi siate ricordati e abbiate voluto celebrarlo al meglio, ma davvero, DAVVERO, non ho bisogno di nessun oggetto/apparecchio/libro/capo d’abbigliamento che giustifichi la vostra spesa. Davvero. Grazie, ma no grazie.

L’unica cosa che potreste fare, se proprio non riuscite a resistere alla voglia di rinfacciarmi che compio quarant’anni e sono probabilmente a metà della mia vita e quella più divertente era la prima, sarebbe aiutarmi a realizzare il secondo desiderio: bermi una Sagres seduto al tavolino di un bar. Non è molto, dite? Basta trovare un bar che tenga la birra portoghese, dite? Ecco, il fatto è che il bar io l’avrei già scelto: ha i tavolini fuori, è poco frequentato e soprattutto si affaccia sulla Ribeira, il lungofiume di Porto. Capito adesso? Se proprio non resistete alla voglia di farmi un regalo regalatemi un pezzettino di vacanza a Porto. Non mi interessa starci quindici giorni, mi bastano due o tre, il tempo di camminare per le strade e ascoltare i gabbiani, andare a mangiare ad Afurada e bermi la mia sagres guardando i barconi ormeggiati. Sarebbe il miglior regalo per i miei quarant’anni, ve l’assicuro.

Un altro degli impegni che ho preso con me stesso per il prossimo anno è quello di vendere il vecchio vespino 125 (monomarcia, non quei gloriosi pezzi da esposizione). Non che sia da buttare, intendiamoci, nonostante gli anni e i chilometri è ancora in grado di portare due persone oltre i Giovi senza neanche il fiatone, ma con l’anno nuovo erediterò (pagandomi il passaggio, che intenderei appunto ammortizzare con la vendita della vespa) un Beverly 500 con cui conto di andare a spappolarmi contro un muro, sopraffatto dalla velocità, entro aprile, e mi piacerebbe che il fedele vespino andasse a stare a casa di qualcuno che lo sappia apprezzare.

Il quarto proposito viene via col terzo, perché se non prendo la patente A il Beverly lo posso guidare solo a Napoli, e fare avanti e indietro tutti i giorni per andare a lavorare a Busalla diventa lunga. Non dovendo studiare per l’esame di teoria conto di riuscire a cavarmela senza troppa fatica, al limite nascondo dei criceti ammaestrati sotto i birilli e li faccio muovere a comando.

Restando in tema di motori come non ricordare che quest’anno dovrò anche cambiare macchina, che duecentomila chilometri e un minaccioso sibilo alla distribuzione pesano più di un incentivo statale? Per questo spero che il 2012 mi porti una massiccia dose di culo e mi faccia trovare una macchina usata pochissimo a un prezzo bassissimo, ma credo che farò meglio a rivolgermi al solito rivenditore di famiglia.

E le vacanze? Le vacanze quest’anno mi sa che saltano, oscure nubi si addensano all’orizzonte e minacciano spesone. Naturalmente una piccola pausa portoghese non è proprio una vacanza, non va contata nei sacrifici, soprattutto se regalata dagli amici, che amici!

E poi direi basta, l’ultimo proposito del 2012 è di andare allegramente in culo ai maya e ritrovarci qui fra 365 giorni per tirare le somme e farsi promesse per l’anno a venire. Buon anno a tutti!