Titolo scarso, eh? Pensate che la prima idea è stata “la Cina in cucina”, poi mi sono vergognato.

I cinesi quando si incontrano non si dicono ciao, si chiedono “Nǐ chī le ma?”, che vuol dire “Hai già mangiato?”, e io a un popolo che prima ancora di chiederti come stai ti offre da mangiare non posso che volere un sacco di bene.

A Pechino trovi da mangiare dappertutto più o meno a qualunque ora, i baretti e i ristoranti chiudono tardi, ovunque ti giri c’è un chiosco che cucina roba.

A Wangfujing c’è una strada chiamata Dashamao Hutong che sulle guide viene chiamata “The snack street”. Ci trovi solo bancarelle che vendono spiedini di qualsiasi cosa. I cinesi infilzano ogni specie animale o vegetale, puoi comprare fragole caramellate, calamari grigliati, pezzi di carne la cui origine resterebbe ignota anche alla polizia scientifica, e gli scorpioni.

In effetti tutti parlano di questo vicolo perché è l’unico posto in tutta Pechino in cui puoi trovare gli scorpioni grigliati. Perlomeno l’unico di cui si parla.

L’entomofagia è la pratica di mangiare gli insetti, ma i ragni non sono insetti, quindi si dovrebbe parlare di entomo- e aracnofagia, ma è anche vero che non ha senso cercare un pelo in un piatto pieno di zampette. Questo regime alimentare è diffuso in gran parte del mondo, ma non da noi, che pertanto ci prendiamo la briga di schifarci se a un pranzo di lavoro ci mettono davanti un piatto pieno di larve grosse come mandarini. È successo a una mia amica in una città della Cina in cui si trovava ospite, ed è la sola ragione per cui accetto che i cinesi, davvero, si mangino i bagoni.

Nei dieci giorni di permanenza in Cina non ho mai trovato nessun altro posto al di fuori del vicoletto di Wangfujing, e anche lì i due banchi presenti erano del tutto snobbati dalla seppur numerosa clientela. Inoltre i cinesi che conosco io si farebbero investire da un’auto piuttosto che infilarsi in bocca un millepiedi.

Ma com’è il cibo cinese? È buono? Ero partito prevenuto, abituato al cibo meno che mediocre servito nei ristoranti genovesi, dove fra un all you can eat e un sushi bar (che è come se un ristorante francese facesse la pasta al pesto) ti tocca accontentarti di una quindicina di piatti ibridi, sempre gli stessi ovunque, cucinati peraltro in maniera dozzinale.

Ecco, la cucina cinese originale non è molto diversa, nella sostanza: un sacco di zuppe, con o senza spaghetti dentro (spaghetti di riso o di soia, quelli di grano che mangiamo noi non li usano), diversi tipi di stufato e padellate di verdura, o carne, o entrambe. La cucina al forno non la considerano, non usano la farina di granturco né i derivati del latte come burro e formaggio. Il pane è diffuso, ma come un alimento occidentale, la stessa cosa che succede qui con l’hamburger.

Però, se a cucinarla sono dei cuochi e non dei facchini, la cucina cinese è proprio buona, e il mio primo impatto vero è stato la sera di Natale, quando mi sono seduto al tavolo del prestigioso Made In China.

Che già me lo chiami Made In China e penso che adesso la sedia si rompe e la forchetta è di plastica e il cameriere ha i baffi finti e se guardo dietro la parete di bottiglie preziose scopro che c’è solo una trave a tenerla in piedi e separarla dall’officina allestita dietro, tipo set cinematografico. Made in China, ma dai!

Il tavolo è in un angolo appartato, le luci sono soffuse e il cameriere non ha i baffi. Provo a spingere una parete e non si muove niente, tiro i capelli al tizio seduto al tavolo accanto e sembrano veri anche quelli. Guardo sotto al tavolo, sopra gli scaffali, tiro giù sei o sette bottiglie per cercare telecamere nascoste, non trovo niente. Mi sa che è un ristorante vero.

Allora ordiniamo. Cioè, Shasha ordina, io non so neanche dire buonasera.

Spinaci con crema di senape e semi di sesamo e melanzane al vapore. E io sarei a posto così, ma in quel ristorante sono famosi per l’anatra alla pechinese, il cui nome lascia intuire che non sia il caso di mangiarla in un’altra città.

l’anatra alla pechinese è quella nel piatto

L’anatra alla pechinese è un piatto che risale all’impero Yuan, che sono quelli venuti prima dei Ming, che erano interpretati da Max Von Sydow e amavano to play with things a while before annihilation. Stiamo parlando della fine del 13° secolo, metà del 14°, anche se la sua vera fortuna risale al tardo impero Ming, grossomodo quando Colombo stava in mezzo all’Atlantico cercando di convincere il suo equipaggio che una volta arrivati nel Catai ci sarebbe stato papero arrosto per tutti. Poi è andata a finire come sappiamo, ma intanto a Pechino la corte si godeva questo piatto raffinato, diventato così celebre che neanche trent’anni più tardi apriva il primo ristorante specializzato, Bianyifang. C’è un ristorante in città che porta lo stesso nome: non è proprio lo stesso ristorante, ma è parente, risale alla metà dell’800, ed è comunque il più antico ristorante cittadino.

Noi però avevamo lo sconto al Made In China.

Come si mangia l’anatra alla pechinese?

I cinesi a tavola stanno molto attenti all’igiene, al punto di bere acqua calda perché quella fredda fa male, perciò non vedono di buon occhio infilarsi il cibo in bocca con le mani. Se a casa ognuno è libero di fare come gli pare l’etichetta richiede che qualsiasi pietanza venga consumata aiutandosi con le bacchette o il cucchiaio. Sì, anche gli involtini primavera, e se li mangiate con le mani sappiate che dalla cucina vi stanno guardando come degli zozzoni. È per questo che ogni pietanza nella cucina cinese viene servita già tagliata in bocconcini, compreso il pesce e il pollame.

Scordatevi la coscetta strappata via e rosicchiata con gusto tenendola per l’osso, il piatto tipico di Pechino viene servito a fette in tre piattini: in uno trovate la carne magra, in uno la pelle arrostita e nell’ultimo la carne più grassa. Insieme alla portata principale il cameriere porta delle piccole sfoglie di pane, tipo crèpes, in cui vanno arrotolati i bocconi di carne. A piacere si può aggiungere della cipolla fresca tagliata a bastoncino e della salsa, che sui tavoli non manca mai.

Come viene preparata non ve lo spiego, e neanche lo voglio sapere: una cosa che ho capito della cucina cinese è che dietro quella porta succedono cose che mi farebbero passare l’appetito, a prescindere da quanto sia buono il risultato.

La cena di Natale è stata il momento più elegante dei miei pasti cinesi, ma se devo dire la verità non la più soddisfacente. Non tanto per la qualità del cibo, credo che il Made In China sia il posto migliore in cui mi sono seduto (di sicuro il più caro), quanto per il menu. Perché l’anatra è buona, ma preferisco il pollo. Forse è una questione psicologica, se invece che con Carl Barks fossi cresciuto con Doug Savage i miei sentimenti verso i pennuti sarebbero ripartiti diversamente. A parte che sarei molto molto più giovane.

A Pechino comunque non c’è solo l’anatra, neanche impegnandosi si corre il rischio di morire di fame, neanche se sei vegano, fruttariano, pisquano o adepto di qualche altra aberrazione alimentare. Per dire, volendo potresti nutrirti di cibo italiano ogni giorno senza sederti mai due volte nello stesso ristorante. Per dire, eh? Io per esempio non ci ho neanche mai provato, non mi piace la cucina cinese in Italia, figurati se provo quella italiana in Cina. Metti che mi portano la pasta col cappuccino e non sanno fare bene né la prima né il secondo.

Però ho mangiato in un giapponese straordinario, impraticabile qui a casa, come ho già spiegato più sopra, e in un coreano, novità assoluta per un provinciale come me. Il pollo fritto gangnam style è entrato di prepotenza fra i miei piatti preferiti.

You House, il giapponese spettacolare nell’hutong Wudaoying

Ho fatto anche una colazione vietnamita, ma sulle colazioni gli asiatici hanno tutti qualche problema. D’altronde se non usi burro e zucchero che colazione puoi preparare? Per fortuna, a volersene servire, la capitale è piena di bar in stile occidentale che ti preparano caffè e brioche. Il caffè espresso ormai si trova dappertutto ed è generalmente bevibile, tranne da Starbucks, ma loro sono malvagi e ci odiano, e lo fanno cattivo per dispetto. In un bar di Shanghai ne ho bevuto uno buono, ma così forte che non ho dormito tre giorni. E per prepararlo ci hanno messo un quarto d’ora, giuro, un quarto d’ora per una tazzina di espresso lavorandoci in due. Sembrava che stessero maneggiando una bomba. Il cliente cinese non ha fretta, si prende la tazzina, se la porta al tavolino e la sorseggia come faremmo noi con un bicchiere di vino rosso.

Io e le colazioni non ci siamo trovati in sintonia, devo ammetterlo. La mia testardaggine a non voler mangiare italiano mi ha tenuto lontano dalle sponde sicure; la tipica colazione pechinese a base di jianbing, una frittella arrotolata in un’altra frittella più unta, mi ha reso facile passare direttamente al pranzo senza allontanarmi troppo dai canoni. La cosa più simile alla nostra è la colazione del sud, di cui la mia ragazza è portabandiera, e che comprende gli youtiao: delle frittellone a bastoncino da inzuppare nel latte di soia. Molto vicino alla focaccia nel latte dei nostri nonni (vabbè, nonni..).

Sennò, se siete coraggiosi potete provare il douzhi, succo di fagioli fermentati. Chi l’ha provato dice che odora un po’ di uovo, quindi immagino sia come bere peti.

È passato un po’ di tempo dal mio viaggio in Cina, e buona parte di esso l’ho trascorsa a cercare nella mia città ristoranti che mi offrissero la stessa qualità trovata a Pechino. Che non vuol dire che a Pechino si mangia sempre e solo bene, fuori dal Tempio del Cielo ho mangiato in una bettola infame, e ho mangiato malissimo. L’unica ragione per cui ne conservo un ricordo positivo è che l’ho trovata da solo, sono entrato, ho ordinato e pagato. Non era difficile, parlavano inglese, e come gli inglesi facevano da mangiare: il peggior pasto in dieci giorni di permanenza.

mangiar male a Pechino si può eccome

Ma il resto è stato squisito, e nei tre giorni passati a Shanghai ho scoperto che la cucina del Sud è anche meglio. Ma di quella preferisco parlare in un altro capitolo, se mi venisse voglia di scriverlo.

(magari continua)

2.
Mi sveglio molto presto, il fuso orario o il fantasma del cuoco di Picota che mi ha tenuto compagnia per tutta la notte. Vorrei alzarmi, ma i miei compagni di stanza dormono ancora, magari aspetto, dev’essere presto. Passa il tempo e sento l’edificio svegliarsi piano piano, qualcuno va in bagno, qualcuno scende a fare colazione. I miei compagni di stanza no, sono sempre nella stessa posizione. Magari sono morti e io mi sto facendo gonfiare la vescica per una cortesia inutile verso due cadaveri. Spunto con la testa e vedo il mio vicino di letto con la bocca spalancata da cui sale un gorgoglio ritmico, come un geyser che sta lentamente tornando in attività. Immagino che anche la ragazza nell’altra branda sarà in ottima salute. Vabbè, senti, mi alzo. Cerco di fare più piano che posso, ma ogni movimento produce lo stesso frastuono di un ciclo produttivo all’Italsider. Dopo un po’ mi rendo conto che se evito di muovermi con attenzione ci metto la metà del tempo, e forse disturbo meno.

Scendo a fare colazione e non c’è nessuno, solo io e un tizio che legge il telefono. Mi servo un succo di qualche frutto inesistente in natura, dal sapore dev’essere stato estratto dall’albero del polistirolo, e una bella tazza di quella sbobba annacquata che qualcuno si ostina a definire caffè americano. Non è caffè, smettila. Il caffè ha un sapore e un odore e una consistenza ben precisi, questa sostanza non ha ancora trovato una sua collocazione neanche nella tavola degli elementi. Se venisse fuori che la raccolgono da un tubo in una discarica non ci sarebbe niente di strano.

la chiesa dove si adora il signor Morto e i pasticcini pesantoni

Faccio la seconda colazione al Forno dos Clerigos. È quella panetteria dove mi reco in pellegrinaggio ogni volta che torno in città, sotto la chiesa che porta lo stesso nome. Prendo un pastel de nata pesante come solo un dolce portoghese sa essere, e mi racconto per l’ennesima volta che ne mangerei a chili perché è così buono. Non è vero, buono è buono, ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.
Prendo anche una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Credevo che le cose più grosse e pesanti del pastel de nata si trovassero solo nei cataloghi di artiglieria.

Mi scrive Marzia, dice che verrà a fare colazione lì, ma che è ancora in albergo. Da quanto ho capito alloggia in una specie di ex carcere fuori città, senza riscaldamento e con la colazione sparata in camera mediante irrigatore a canna. Non ho capito perché non abbia prenotato nel mio stesso ostello, lo conosceva anche lei e come me lo ha adorato da subito. Dice che se ne sono occupate le sue compagne di viaggio, che però non erano mai state a Porto. Boh, rinuncio a capire, certe volte nella testa di Marzia succedono cose misteriose.

Dopo un po’ che non la vedo arrivare mi alzo, o perlomeno ci provo, e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato.
Non mi dice granché, ma ho tempo da perdere, magari proseguo verso una direzione sconosciuta. In quel momento ricevo un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

La trovo al tavolino che sta macinando un panino al prosciutto. Accanto a lei è seduta Vivienne Westwood, o perlomeno spero tanto che lo sia: è tutta viola, i capelli, la montatura degli occhiali, una pelliccia e gli anfibi. Sembra un incrocio fra una bici, Iggy Pop e il Teletubbie Tinky Winky. Mi limito a due saluti due, i gestori ci stanno guardando male e credo di aver visto spuntare da sotto il banco qualcosa di metallico con un percussore e un grilletto. In Portogallo sanno essere molto rudi coi clienti.
Ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno, andremo a pranzo tutti insieme alla Taberna Do São Pedro, un altro di quei posti per cui vale sempre la pena tornare da queste parti.
Le lascio alla loro colazione e me ne vado a vedere la Sé.

La guida della città descrive la Sé come una cattedrale-fortezza; ai tempi della scuola ero un bimbo gracilino e facevo un sacco di assenze, perciò ho saltato sia la lezione in cui spiegavano le cattedrali, sia quella in cui descrivevano le fortezze. Però ho giocato a un sacco di videogiochi a tema fantasy, quindi la Sé la immagino come un edificio altissimo, goticissimo, dalle pareti spesse come tutta casa mia, abitato da creature deformi che mi puntano addosso un’ascia bipenne ed emettono suoni biascicati attraverso le zanne, poi mi vendono una pozione che mi restituisce +10 al mana.

Niente di tutto ciò. Per essere grossa è grossa, e pure massiccia, ma somiglia più a una sobria fortezza medievale che a una cattedrale gotica, anche se i pilastri all’interno sono grossi e nerboruti come le braccia di mia sorella, seppure meno pelosi.

Pilone Tupparello

Le creature deformi ci sono, ne incontro due. Indossano palandrane e invece dell’ascia bipenne mi puntano addosso un volantino e mi chiedono se voglio fare una foto per beneficienza. Accetto volentieri, una foto insieme a una creatura deforme starebbe benissimo nel mio album di Facebook.
Di certo meglio delle vostre con la bocca a culo di cane e la fronte in avanti per nascondere il risultato della dieta. Del fatto che non ne state seguendo nessuna, intendo.

La giovane baffuta volontaria dell’Ente Turistico Ecclesiastico Della Madonna Del Cerchione o di qualche associazione analoga mi spiega a grugniti che sarà lei a fare la foto, io devo solo mettermi là davanti a quella parete di azulejos e fare la faccia da uno che non vedeva l’ora di farsi fotografare.

Cioè come se me la facessi da solo? Eh ma te la faccio io. E se me la faccio da solo? Noi te la stampiamo su carta fotografica e la mettiamo in questo libretto interessantissimo che mostra tutte le meraviglie della cattedrale, non so se hai afferrato il sottinteso, se non l’hai afferrato guarda l’occhiolino che ti sto strizzando da mò. Credevo fosse l’orifizio da cui respiri, con voi creature deformi che abitate le cattedrali-fortezza è sempre difficile capire. Allora, ti metti davanti alla parete o devo tirare fuori i tentacoli? Non c’è niente che possa fare, sono al massimo della potenza. Dovrò spegnere tutto. Ma dovrete faticare per prendermi. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi.

Mi metto in posa e faccio tutte le smorfie del mondo, da quella triste a quella scoglionata, ma la tizia è abile e riesce a prendermi proprio nel momento in cui rido. Mi lascia andare senza sacrificarmi al suo dio sanguinario e riprendo il giro.

Il chiostro della cattedrale è insignificante, le tombe di San Carralho e San Colombão Certenholi sono anonime, la stanza piena di roba barocca è carina, ma evitabile. L’unica cosa che attira la mia attenzione sono i gabbiani. Hanno tutti l’elmo e una piccola alabarda.

Torno all’uscita e mi ferma la creatura di prima, il cui approccio non è diventato più gentile neanche adesso che ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso tanti momenti felici. Cara mia, se speri che adesso ti libererò dall’incantesimo che ti ha gettato addosso la strega cattiva devi proprio cambiare atteggiamento. Piuttosto bacio il parroco.
E anche la foto che cerca di rifilarmi, ma cos’è? Va bene, rido, ma sembro un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è, dai. E te la devo pure pagare? Ma vai, vai.

Mentre scendo verso il ponte Dom Luís mi specchio in una vetrina. Vedo un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è. Vado a cercare un’altra vetrina, questa è rotta.

(continua)

 

Com’è come non è mi trovo a scrivere il diario della mia vacanza newyorkese a cavallo del decennale dell’attacco alle Torri Gemelle. Che faccio, racconto di nuovo che ci sono stato e c’era il cantiere? Racconto che poi ci sono tornato per infilarmi da Century 21, che è un negozio di abbigliamento che ci sta di fronte e che è così affollato che se gli aerei si fossero piantati lì contro avrebbero fatto il doppio dei morti? Oppure mi prendo una pausa dalla narrazione e mi incolonno dietro il lungo serpentone di giaculanti col mio bel cero in mano e do il mio contributo non richiesto?

Facciamo che invece vi parlo di quando sono tornato da Washington e ci siamo infilati a Chinatown.

La fermata della metro a Canal Street dà su uno stradone piuttosto anonimo e molto trafficato, pieno di negozietti di abbigliamento, elettronica o cianfrusaglie che ricorda molto da vicino Via Gramsci a Genova. Se non siete pratici del capoluogo ligure metteteci pure una via analoga della vostra città piena di cineserie tutto a cinque euri. Se non avete neanche quella non so cosa dirvi, provate a sostituire una decina di negozi della via più periferica che avete con altrettante cineserie, ma se il risultato non è lo stesso non prendetevela con me, io miracoli non ne so fare.

Ma dicevamo di Canal Street, che se uno pensa che Chinatown sia tutta lì potrebbe rimanere deluso, risalire sulla metro e filare via verso nuove e più eccitanti destinazioni, però sbaglierebbe, perché la Lonely Planet, o come la chiamiamo fra noi turisti scammurriati “La Santa”, te lo dice chiaro di avventurarti nelle strade laterali, che sono più interessanti. Ochei, ti dice anche di non andare in giro da solo a Porto o rischi di morire malissimo, e poi la cosa più pericolosa che ti può capitare è di scivolare giù per un marciapiede verticale e fermarti dentro un tram sotto lo sguardo assonnato dei fantomatici “loschi figuri” (li chiama proprio così, loschi figuri, si vede che l’edizione italiana l’ha tradotta Cecco Angiolieri).

Ma stavamo sempre dicendo di Canal Street e delle sue vie laterali, che abbiamo percorso dopo, perché prima c’era da assaggiare la tipica colazione americana: pancakes con lo sciroppo d’acero.

In un deli cinese.

Il deli è quel tipico locale americano che puzza di linoleum unto dove puoi mangiare qualunque tipo di cibo in grado di schiantarti il fegato, dall’hamburger che cola grasso sulle patatine rifritte al riso colloso su cui sono stati avvitati alla meglio dei pezzetti di verdura per dargli un aspetto più invitante. Ci sono stati anche dei deli che sono entrati nella storia per ragioni diverse dal record di infrazioni presso l’ufficio di igiene, e ce ne sono parecchi in cui l’aspetto ricorda da vicino quello di un luogo salubre, ma sono eccezioni alla regola, il deli è sporco e ci si mangia male, punto.

Quello di Canal Street in cui ci sediamo a prendere la seconda colazione è il classico locale fetente con la saliera appiccicosa sul tavolino coperto dalla tovaglia di plastica unta, a venti centimetri dal cuoco messicano che frigge patatine e arrostisce salsiccia.

Per mostrarmi coraggioso con la mia fidanzata ordino anche del bacon come condimento, e quello che mi arriva insieme ai tre frittelloni ne ha tutto l’aspetto, un nastro di carne bianca e rossa fatta saltare in padella proprio come la farei io in casa.

Esattamente come la farei io in casa, facendomi i cazzi miei per un’ora davanti al computer e scordandomela sul fuoco finché il fumo non mi facesse lacrimare gli occhi.

È un po’ come mangiare le pringles ingoiandole intere, o dei vetri, tipo. Però magari all’esofago una scartavetrata ogni tanto fa bene, vai a sapere.

Lo sciroppo d’acero è una di quelle cose di cui senti sempre raccontare, così buono, lo trovi solo lì, da provare per forza, come la Dr. Pepper e le cupcakes, sono in America mi tolgo la soddisfazione, no?

La Dr. Pepper in realtà l’ho assaggiata a Washington, e ho capito come mai in Italia l’hanno messa sul mercato tipo per venti minuti e poi l’hanno ritirata di corsa. Lo sciroppo d’acero è una roba densa che sembra miele mescolato col propoli, forse fa bene per il mal di gola, ma io lo venderei negli stessi negozi della Dr. Pepper.

La via in cui ci infiliamo subito non ha l’aspetto molto cinese, ci sono un sacco di ristoranti italiani e un tizio sulla porta di un negozio indossa una maglietta che dice “cannoli eating competition”. Siamo a Mulberry Street, tutto ciò che rimane del quartiere mammapizzamandolino della città. Non è grande, non è neanche brutta, è un concentrato di stereotipi italiani su una superficie di qualche centinaia di metri, una specie di parco tematico dell’italianità più becera, e neanche tanto aggiornato, se devo dire, per esempio non c’è il tamarro con gli occhiali da sole che sbraita nel telefonino ultra sofisticato bevendosi una ceres coi piedi in un paio di ciabatte di prada appoggiato al suv in doppia fila.

La strada accanto a Mulberry Street si chiama Mott Street, ed è talmente cinese che i cinesi che vengono a visitarla quando tornano a casa loro si sentono spaesati. Non c’è un’insegna in inglese, un negozio occidentale, un banchetto di hot dogs, ovunque ti giri cassette di litchis, quei frutti con la buccia borchiata da non confondere coi leeches, altrettanto commestibili, ma dall’aspetto meno invitante, e poi secchi di rane vive e bianchetti secchi, laboratori di massaggi e agopuntura, soia da appagare qualunque mortaccio, riproduzioni a basso costo di qualunque cosa ti venga in mente compresa tua madre.

In mezz’ora vediamo tanta Cina da toglierci la voglia di oriente per parecchi anni, portiamo via le stanche membra e ci dirigiamo verso la meta successiva della giornata, l’Impero Stato Palazzo.

Avevamo già provato a salirci il primo giorno, ma si avvicinava il tramonto e c’era una coda che faceva il giro dell’edificio. Stavolta entriamo subito, l’atrio è vuoto, saliamo le scale mobili per la biglietteria e finalmente ci troviamo in coda. Per fare il biglietto ci vuole poco, dieci minuti e via, ma subito al di là comincia la coda per gli ascensori, e sono cazzi, perché l’attesa minima parte da 45 minuti, durante i quali ti puoi leggere tutti i pannelli informativi su come l’edificio sia stato modificato per ridurre al minimo l’impatto ambientale, puoi leggerti un po’ di storia di come l’abbiano tirato su ‘sto gigante, in un’epoca in cui la prevenzione degli infortuni si faceva stando a casa, e puoi scoprire che nonostante i ritmi serrati (è stato costruito in tredici mesi, dico tredici mesi, cinque piani alla settimana) alla fine ci siano stati solo cinque morti, di cui uno investito da un camion e un altro coinvolto in un’esplosione. Puoi scoprire anche che il World Trade Center non si è inventato niente, l’Impero Stato Palazzo è arrivato prima anche lì.

Da settembre 2001 è tornato ad essere il palazzo più alto della città, e quando sei sulla terrazza te lo fa pesare parecchio:

“Ma guarda la gente per strada com’è piccola!”

“Si, è il raduno dei nani, ne ha parlato il telegiornale stamattina. Guarda là invece, le persone normali”

“Uh si, sono molto più alte. Che delusione.”

Dal lato sud, proprio accanto al Flatiron Building, che da lassù è ancora più bello, tutto schiacciato sul suo fazzoletto di terra, si eleva una sontuosa loggia massonica con un compasso disegnato sulla facciata grosso come casa mia. Hai capito Liciogelli?

Vabbè, poi non è che puoi stare tutto il giorno appollaiato lassù a fare le fote, dopo due tre giri di terrazza ce ne veniamo via.

 

Sulla strada per Grand Central Station sbattiamo dentro Sniffen Court, un vicoletto privato diventato famoso per essere sulla copertina di Strange Days dei Doors. Mi faccio una foto a memoria, ma senza i baffoni e un mimo accanto ho un bel cantare pippol ar streing, non ci somigliamo neanche un po’.

 

 

La stazione principale di New York è la più grande del mondo per numero di banchine, significa che quando sei sul binario 11 e l’unica obliteratrice funzionante è al binario 126 fai prima a prendere il treno dopo. L’atrio principale lo conoscono tutti, è quello grande con l’orologio in mezzo che abbiamo visto in un mucchio di film. Ci sono due terrazzini da cui si fa la classica foto con la gente, e quando ci siamo stati noi c’era un signore sudamericano con una grossa canon, prestatagli dal figlio, e non la sapeva usare. Ma tipo niente, né messa a fuoco né tempi di scatto, era solo in grado di schiacciare lì, però voleva fare una foto con l’orologio a fuoco e le persone intorno mosse. E indovina a chi ha chiesto aiuto.

Io non parlo spagnolo, ma la mia fidanzata si, però non era in grado di spiegargli il meccanismo, così io lo spiegavo a lei in italiano, lei lo traduceva alla buona in spagnolo, questo continuava a non capire e io ci mettevo del mio in inglese. Alla fine gli ho preso la macchina, gli ho fatto la foto e l’ho mandato a cagare.

La prossima volta vi racconto dei musei niuiorchesi, che ce la passiamo veloci, che lo so che non siete gente che ci piacciono i quadri, ma due righe ci vogliono.

(continua)