Ehi ma tu sei Pablo, quello che scrive sul Pablog! Eh. Perché cosa puoi dire a una che ti ferma per strada e ti dice qualcosa che sai già, se non eh. Leggo sempre la tua rubrica di cinema, mi piace tantissimo! Allora leggi molto poco, perché non scrivo di cinema da anni, ormai. Infatti, e mi chiedevo come mai. Forse non vai più al cinema? Ho letto che ti sei dato al teatro. Mi sono dato a un sacco di cose: alla psicoterapia, alle droghe, ai libri in formato elettronico e al sesso occasionale con sconosciute che mi fermano per strada per chiedermi del mio blog. T‘è andata male, io volevo solo sapere quando scriverai un’altra recensione di cinema. Che due palle, ma sempre così? Guarda, sto giusto andando a vedere Birdman. Magari poi scrivo due righe, se mi lasci il tuo numero di telefono te lo faccio leggere in anteprima. Grazie, ma aspetto di leggerlo sul blog. Ciao. 

Niente, è chiaro che provarci con tutte quelle che respirano non fa per me, forse dovrei cambiare strategia e spacciarmi per un orsacchiotto tenerone. Oppure scrivere le mie robe senza preoccuparmi di cosa succederà domani, tanto domani arriva comunque.

La preoccupazione di vedersi il tempo scivolare via e non riuscire a tenerlo è uno degli ingredienti del film di ieri sera, dove Batman non sa farsi una ragione di essere invecchiato e che il suo posto sia stato preso da Christian Bale, e si rode tanto da cercare sé stesso in un ambito diverso: il teatro.

Bisogna capirlo, quando hanno fatto indossare la cappa nera a Val Kilmer e a George Clooney sono sicuro che Keaton ha strabuzzato gli occhi e si è chiesto come cazzo è possibile che al pubblico possano piacere due panettoni come quelli, dico, a dirigere me c’era Tim Burton, lì c’è uno che fino a ieri faceva videoclip, è chiaramente un prodotto per accontentare il pubblico, ma sotto non c’è contenuto, non c’è storia, non c’è un cazzo di niente. E gli è andata bene, perché il pubblico si è mostrato intelligente e maturo, e li ha snobbati. Poi è arrivato Christopher Nolan a mostrarci cosa sia davvero un film cupo su Batman, e lì Michael Keaton è andato in crisi, perché si è sentito superato da qualcuno che giocava con le sue stesse armi, e giocava meglio di lui.

in quest’immagine c’è tutto il film, che vi piaccia o no.

Allora si è reinventato, basta supereroi, io sono un uomo di cultura, io non ho bisogno di mezzucci per dimostrare il mio valore, io sono un attore vero e faccio teatro. Poteva andare peggio, poteva condurre un talk show.

Si mette in gioco completamente, come chi percepisce che quella sarà la sua ultima possibilità, ci crede fortissimo, ipoteca la casa di sua figlia, si distrugge il fegato e l’equilibrio, e si presenta a noi alcuni giorni prima del debutto, mentre è impegnato con le anteprime.
Non è facile, ci sono attori che non tengono la parte, altri che la tengono troppo, c’è sua figlia che dopo Spiderman 2 si è data alla droga ed è sempre lì in bilico fra la voglia di buttarsi di sotto e quella di scoparsi il primo che le dà un minimo di considerazione, c’è la sua ex moglie, la sua forse amante, la critica, i fantasmi del passato, l’insicurezza, il maledetto tempo che quando ti togli la maschera lo vedi lì nello specchio che ti fa il pendolo col dito e ride e dice tic toc tic toc, e questo tizio che suona la batteria in giro per il teatro, lo senti continuamente, ma chi cazzo è.

Non c’è un attimo di pausa, nessuno stacco, è un unico, (ochei ritoccato ma) bellissimo piano sequenza, c’è una fotografia meravigliosa, c’è Michael Keaton bravissimo e Edward Norton gigione, che va bene bravone, ma fare il personaggio sopra le righe è facile, e comunque quando c’è lui non vedi altro perciò il cappello me lo levo eccome, Naomi Watts è bella di quella bellezza che la guardi e ti senti come se gli occhi si fossero seduti sul divano dopo una giornata in giro in un paio di scarpe strette, Emma Stone è la rana dalla bocca larga. I dialoghi serrati si alternano a monologhi intensi, c’è Carver, no, dico, Carver, c’è New York, il teatro, le considerazioni sul teatro e sulla vita e gli scazzi fra gli attori e i dubbi esistenziali e sono lì che mi frego le mani e penso che sia il film più bello dell’anno quando ad un tratto succede quello che nessuno si aspettava: il film diventa prevedibile.
C’è un punto, non dico quale per non rovinare la visione a chi ancora non, in cui pensi che non succederà mica quella cosa che ti stanno telefonando da venti minuti, dai, non ti cadrà mica nella banalità. E invece telolì, e da quel punto il film perde la quasi magia gionni e diventa un polpettone hollywoodiano di taggiovolutobbenattè, e non succede più niente, e anche il finale che puoi fargli dire un po’ quel che vuoi è una roba da regista impegnato e all’avanguardia che ti fa gomitino e ti suggerisce che se l’hai capito sei figo come lui, e quando si sono accese le luci sono uscito dal cinema un po’ deluso, e insomma, io il dvd di Birdman alla fine non me lo compro.

Capita prima o poi di trovarsi seduti su una panchina, al buio, di guardare per aria e chiedersi il significato di tutto quanto, la vita, l’universo, la panchina, e quarantadue non è detto che basti come risposta. Ci si interroga sugli elaborati meccanismi che regolano la nostra esistenza su questa sfera malfatta, ci si chiude in casa finché non si è trovata una soluzione ai grandi misteri, e ci si fa il sangue nero perché quella soluzione non la troviamo, e intanto stiamo anche smettendo di vivere. La rinuncia non è mai la soluzione, rimuovere le cose le rende solo più forti, tranne quando sono i vigili che ti rimuovono la macchina, non rende più forte te o la tua macchina, ti fa spendere un sacco di quattrini e basta, perciò alla fine rende più forti i vigili, ma questo è un altro discorso. Può capitare, se siamo parecchio fortunati, di imbatterci in qualcosa di inaspettato: mentre siamo lì a chiederci se non sarebbe meglio cambiare strategia e metterci a guardare il dito che indica il cielo, potrebbe capitarci di notare qualcosa di nuovo, come l’apparizione di una stella.

Osservare la nascita di un fenomeno celeste è una gran botta di fortuna, ti permette di esaminare con lucidità tutti i passaggi che hanno portato Christopher Nolan a girare Interstellar, e magari a non cadere nei suoi stessi errori, o a farne di nuovi, tipo spendere altri sette euri e cinquanta per un film che ne valeva tre, giusto per la compagnia; capire come funziona l’universo, chi sei tu che lo abiti e dove devi metterti per non farti colpire dalle comete sono risposte che arrivano dopo, ma partono comunque da lì, dal film di Christopher Nolan che però Inception era più bello.
“Something about the universe and how it’s all connected”, diceva coso, e non c’è da meravigliarsi, siamo fatti dei medesimi atomi che compongono una stella, ed è per questo che il processo che ci porta a guardare al di fuori di noi è sempre lo stesso, che si tratti di visitare un corpo celeste o uno terrestre.

Per primo c’è l’avvistamento:
Stai guardando il cielo e pensi ai fatti tuoi, e noti una luce: è apparsa ora, o magari c’è sempre stata, ma eri tu a non avere gli occhi giusti per vederla. Pensi che potrebbe essere la scoperta del secolo e già stai cercando il numero di telefono della Esimia Società Di Astronomia, ma ti fermi, che già in passato li hai contattati per chiedere che ti dedicassero una sala dell’istituto, e poi era solo una ditata sul cannocchiale. Riprendi l’osservazione col cuore in affanno, è difficile stare tranquilli e far finta di niente quando si ha una natura inquieta e fallace, e poi non è neanche il momento giusto, hanno appena ripromosso Plutone al grado di pianeta, se arrivi tu con la tua nuova stella è facile che neanche ti prestino attenzione. Il tuo lato razionale stabilisce le regole a cui dovrai sottostare di lì in avanti, che l’astronomia è una scienza esatta e l’improvvisazione fa ridere, ma non ti porta da nessuna parte. L’istinto, dall’altra parte, risponde che certo, le regole, e promette che domani inizierà a seguirle tutte, adesso però mollami. È come se dentro di te ci fosse la NASA che pianifica al millesimo una missione spaziale e poi mette al comando un astronauta ubriaco.

La seconda fase è l’avvicinamento:
Va bene, è un nuovo corpo celeste, ma che ci fai? Interstellar è una macinatura di balle, ma ci ha insegnato che per tirare su una missione spaziale e spedire un gruppo di astronauti dall’altra parte dell’universo basta un quarto d’ora di pellicola, perciò ci sta che in due righe ti sia già organizzato un’impresa che a confronto la Luna è stata scendere un attimo dal tabacchino sotto casa. Impari a guidare un’astronave in un solo stacco di scena, ti prepari al viaggio più impegnativo della tua vita in tre battute tre, e potresti già essere in viaggio , però uno non parte così come niente e va ad esplorare una stella, sono corpi astrali con un campo gravitazionale fortissimo, se non prendi le dovute precauzioni ti riducono a pulviscolo cosmico prima che tu possa dire tesseratto.
Prima di tutto si inviano segnali radio per capire se è abitata, poi delle sonde ti diranno di più sulla gravità in superficie; la gravità è importante, a volte capita di atterrare su un pianeta e trovarci una gravità diversa dalla tua, fai una battuta innocente e quelli ti guardano come se gli avessi ammazzato la famiglia con un trapano. Bisogna capirla la gravità, quando ogni cosa cade dall’alto con tonfi incredibili è meglio non avventurarsi.
Tutte queste congetture vanno fatte in un tempo breve, che un’altra cosa imparata dal film di Nolan è che se ti distrai un momento sono passati ventitré anni e devi ricalcolare tutto dal principio, che una stella non è che sta lì ad aspettare te.

Accertate le condizioni favorevoli dell’astro rimane la parte più emozionante, il contatto:
Sbarchi sul nuovo mondo con tutto il tuo bagaglio di speranze da confermare e doni per gli autoctoni. Esperienza e perline, e chiedi in cambio pressappoco lo stesso, che per intraprendere vantaggiosi scambi commerciali c’è sempre tempo, e neanche sai se ne vale la pena, metti che incontri delle creature che mangiano le banane con la buccia perché non le sanno aprire. L’importante è metterci il giusto impegno, sennò tanto vale che te ne stai a casa tua.

È uno sbattimento notevole e spesso neanche ne vale la pena, ma allora perché dedicarcisi? Cos’è che ci spinge a conoscere, a superare noi stessi e non accontentarci dell’involucro che ci siamo costruiti? Aspiriamo ad essere più di quanto la natura ci ha concesso, ma da dove arriva quest’inquietudine, e come si può controllarla, ed è giusto farlo?
I saggi e gli incoscienti sanno che la risposta è sempre sticazzi, “la serenità si misura in sticazzi per unità di tempo” (cit.), ma Torquato Tasso diceva già nel ‘500 che “Perduto è tutto il tempo che in viaggi spaziali non si spende”, e non possono avere ragione entrambi. E poi ci siamo noi, da qualche parte nel mezzo fra i due, ad arrabattarci e cercare risposte che non ci sono, col sospetto crescente che non ci sia in tutto l’universo un pianeta adatto, se neanche su quello dove siamo nati riusciamo a sentirci completi, e che il nostro guardare il cielo nasconda molto peggio di un’indole romantica.

“Beati loro che si accontentano di ciò che hanno”, diciamo, “ignari del dubbio che possa esistere di meglio, e che forse ciò che hanno non era quello che volevano davvero”. Alla fine loro restituiscono una vita in positivo, ed è solo quello che conta, sennò non vivi, sopravvivi.

Già, beati loro.. Ma vorresti tu vivere così? Se potessi staccare la corrente che dà luce a quell’impianto complicato che hai nel cuore, lo faresti? Di lasciare al buio il quartiere in cui vivi, che la creatività è figlia dell’inquietudine, ormai lo sanno anche le pietre che dalle pietre non nasce niente, rinunciare al calore che ti brucia ma ti tiene in vita, lo faresti davvero?
Passi la vita a progettare astronavi, ma alla fine non ti importa mica se il pianeta che hai scoperto lo raggiungerai o no, mentre sei lì col naso per aria a guardare le stelle cominci a pensare che lo scopo non sia la destinazione, ma il viaggio.

Comincio a credere che non sia una cosa bella.