Va sempre come dovrebbe andare, solo che finché non lo capisci ti domandi che strada prenderà, azzardi anche delle previsioni, ti concedi il lusso di sperare.

Se sono qui a scrivere è perché alla fine è andata in quell’altro modo.

 

Dovevo partecipare a un workshop di scrittura con Paolo Nori, uno dei miei autori preferiti, e il tema era qualcosa di delizioso: i matti.

Tutti abbiamo il nostro matto preferito, quello che grida “isotopi di figa” alle ragazze in galleria, quella che scrive rime discutibili sui muri a caratteri cubitali, quella che oggi ti dice che era tutta la vita che cercava uno come te e domani.. vabbè, ma lo sapete, ci siete passati anche voi. Tanto che certe volte il vostro matto preferito siete proprio voi che ancora pensate a quella volta là, che ci parlate e vi fate le vostre ragioni e le spiegate anche a interlocutori che dalla parte di chi vi guarda devono essere nascosti da un muretto, perché non ci sono mai, e il dubbio che stiate parlando da soli è fortissimo.

Siete i vostri matti preferiti solo perché odiare sé stessi è un atto ancora più insano.

Officina Letteraria, una scuola di scrittura genovese, aveva promosso questo laboratorio che doveva svolgersi nell’arco di due fine settimana questo gennaio, e chiedeva, come esame di ammissione, di descriversi in 350 caratteri. Poi Paolo Nori avrebbe letto i testi e selezionato i partecipanti.

Mi sono fatto due conti, ho pensato che a gennaio avrei goduto di una situazione economica piuttosto florida, è il mese in cui festeggio il compleanno, e i parenti mi mollano qualche diecieuri, ma soprattutto è il mese in cui sono di turno a raccogliere le offerte dei fedeli per riparare la cappelletta della Madonnina di Mordor, cui sono devoto da quindici anni. Più o meno da quando vanno avanti i lavori, interrotti dopo pochi giorni perché finiscono sempre i fondi.

Ho spedito le mie due righe di testo, che dicevano:

350? E chi è capace? Io manco ci so contare fino a 350, alle elementari avevo la maestra part-time e quand’è arrivata a 213 le è scaduto il contratto e non l’abbiamo più vista.
Di lì in poi il mio insegnante è stato il bidello. Per questo oggi non so raccontare chi sono, ma se vuoi ti faccio dei pavimenti che ti ci specchi.

Niente di pazzesco, ma non è che puoi raccontare una vita ricca di episodi in 350 caratteri, soprattutto una come la mia, che ho sventato colpi di stato e vinto premi nobel e stretto la mano ad attrici famose e dormito sul divano, ma a loro è bastato.
Poi lo so che la selezione è stata fra dieci tizi che hanno spedito una descrizione in italiano e altri quattro che hanno scritto “Mi chiamo Ciccio ho 34 anni abito a Genova faccio l’infermiere mi piace scrivere mia moglie dice che sono divertente tifo la sandoria”, non penso di essere un genio, sono sicuro che per raggiungere il numero hanno tirato dentro anche la zia di Paolo Nori, ma quando ho ricevuto l’email mi sono sentito comunque lusingato.

Per tre secondi. Poi ho letto che le lezioni sarebbero state il 13 e 14 gennaio, e ho nominato la Madonnina di Mordor in un modo che probabilmente le si è incrinata la cappelletta.

Perché io il 13 e 14 gennaio sarò a Porto, Portogallo, a mangiare polpo grigliato da quel beone di Adão. E se il giorno in cui ho prenotato il volo avessi scelto un’altra data sarebbe stata il fine settimana successivo, quello in cui compio gli anni, e avrei avuto lo stesso problema, dato che il workshop si articola su due weekend consecutivi. Perciò, vedi? Era proprio destino che non partecipassi.

Lunedì tornerò a lavorare, andrò dal mio capo e gli farò una tirata sul destino e su come sia stupido tentare di opporvisi, gli spiegherò che tutto è già stato deciso, che siamo solo burattini, che arrabbiarsi non serve a niente, mettersi di traverso ci fa solo male, molto meglio assecondare gli imprevisti cercando di attutire la botta il più possibile. Lui non capirà, non è il tipo che si dilunga su questioni filosofiche, e mi chiederà di farla breve. Allora io gli dirò che mi servono venerdì e lunedì di ferie.

Sarà allora che scoprirò che anche lui è devoto alla Madonnina di Mordor, e che per le prossime riparazioni serviranno molti più soldi.

Sarà che a noi i posti affollati non piacciono granché, o che la luce del Portogallo rende tutto più gradevole, fatto sta che ci siamo messi via due soldini e siamo partiti per un fine settimana nella città più portoghese di tutto il Portogallo, Porto.

Non era la prima volta, già due anni fa passammo una splendida settimana in giro per le strade ripide del suo centro storico, fra il lungofiume della Ribeira e i profumi del Mercado do Bolhão.

Il bagaglio è composto da due trolley, uno di abiti e roba che normalmente ci si porta in viaggio, l’altro contenente aggeggi elettronici e un asciugamano che non si sa mai, come insegna Douglas Adams. Chi dovesse fregarmelo si guadagnerebbe l’equivalente di uno stipendio. Alla Malpensa ci comunicano che dovrà essere caricato nella stiva, perché l’aereo è piccolissimo, tipo un apino con le ali, e il pilota ha già dovuto lasciare a terra il suo secondo per mettersi in cabina la valigia di una signora di Parma. Considerato che non ci penso neanche a mettere un computer, due macchine fotografiche e un lettore mp3 nelle mani dei portabagagli di Milano, finisco per tenere tutto in mano e lascio nella stiva un trolley vuoto. L’asciugamano me lo lego in testa tipo turbante.

L’apino con le ali della Tap Portugal

L’aereo è veramente minuscolo, trentasette posti a sedere, ma è comodo e non ti fanno le menate per il bagaglio a mano, come per esempio un’altra compagnia a caso con un’arpa disegnata sulla coda. E se proprio devo dirla tutta non ti rompono neanche il cazzo ogni cinque minuti per tutto il viaggio con annunci per comprare qualunque cosa,  dai grattaevinci (ma ti pare, i grattaevinci sull’aereo, e allora perché non mi metti anche due slotmachine al posto dei cessi) ai peluscini a forma di aereo con l’arpa disegnata sulla coda, ai biglietti del treno per Catanzaro.

Delle due hostess di bordo una sembra il cavallo di Guernica su cui un vandalo abbia disegnato un rossetto viola con un pennello cinghiale; ha questa macchia viola intorno alla bocca che le conferisce un aspetto da carnefice pop, e quando ti chiede se vuoi qualcosa da mangiare non puoi fare a meno di pensare a Warhol, o a Dalì; l’altra hostess è carina, ma ha uno scazzo cosmico, si vede che nella precedente occupazione faceva la cameriera.

Quando ci mostra le vie d’uscita lo fa di fretta, come se la cosa non la riguardasse e fosse solo lì a sostituire un’amica che è andata un momento in bagno. Il messaggio che trasmette non è “prestami attenzione se ti preme la vita”, è più “mi hanno detto che dovrebbe esserci un’uscita anche da quella parte”. In realtà non gliene frega niente, è stanca di vivere e ci odia tutti; probabilmente sta meditando di sabotare uno dei prossimi voli e schiantarsi sui Pirenei.

Sui voli Tap si mangia bene, il pranzo a bordo consiste di una ciotola di riso con pollo e pancetta, un panino, una porzione di burro salato e mezza mela a pezzetti, più una bevanda a scelta. Grazie al coraggioso sacrificio della mia amorevole fidanzata riesco a barattare un’altra porzione di riso con qualche pezzetto di mela, e innaffio tutto con una lattina di sagres. Avevo espresso il desiderio di celebrare il mio compleanno bevendone una, ma questa non vale, dal finestrino non si vede il Douro.

Dal finestrino non si vede niente, per la verità, giusto un po’ di azzurro in alto se strizzi gli occhi.

Poi all’improvviso le nuvole si diradano e sotto c’è il Portogallo. Scendiamo rapidi e riconosciamo i primi ponti, la Ribeira, il Dom Luis I. È un’emozione che francamente non mi aspettavo. Sono felicissimo di essere di nuovo qui.

Il meglio di Porto al finestrino: la Ribeira, la Sè, il ponte.

Atterriamo, recuperiamo il bagaglio in un momento e usciamo a prendere un taxi. L’aeroporto è piccolo e quasi deserto, perlomeno quando arriviamo noi. Il taxi è già lì che ci aspetta, gli spiego l’indirizzo e si parte. La periferia è squallida come tutte le periferie del mondo, ma già a Trindade si capisce che sta per succedere qualcosa. Girato l’angolo ci troviamo giù per la piazza di Aliados e i miei compagni di viaggio non trattengono un gemito di gioia. Io sono quasi commosso. È pazzesco quanto questa città mi sia rimasta nel cuore, davvero.

Davanti all’ostello ci congiungiamo agli altri due membri del gruppo, arrivati in mattinata, Paola e Antonio; sbrighiamo le formalità di reception e molliamo i bagagli. La camera è un buco di merda peggio di quella di Lisbona, ma dal terrazzino ti affacci su Rua das Flores, che è un bel vedere, con le sue case ricoperte di piastrelle. E poi sono solo due notti, chi se ne frega! Il tempo di posare le valigie e siamo di nuovo per strada ad affrontare la prima di innumerevoli salite.

Prima tappa alla Livraria Lello, che conosciamo per avere visto le foto su internet: è tutta di legno, un capolavoro di liberty, con una vetrata sul soffitto che noti solo se alzi gli occhi e poi ti chiedi perché non l’hai notata prima, e gli scaffali decorati e pieni di libri antichi, ma soprattutto una scala pazzesca che sale fino a metà, si raddoppia, torna indietro, si riunisce e risale, coi gradini arrotondati colorati di rosso, come un ruscello che venga giù da chissà dove in mezzo al negozio. Le foto sono proibite, e quasi è un sollievo, che non mi sento in grado di fermare tanta meraviglia nello spazio limitato di una cornice. Per compensare ciò che non potrò portarmi via tocco tutto, i corrimano, la balaustra, il corpo sinuoso della scala, ma non basta mica. Dovrei comprarmi un libro fotografico dedicato al negozio, solo che costano una fortuna, un semplice segnalibro te lo danno per due euri e mezzo, capace che per una pubblicazione di venti pagine ti partano quindici venti euri come niente. Senti Lello, hai un bel negozio, ma sei un avido, vaffanculo.

Dopo la cultura è il momento di riempirsi la pancia: il bar panificio pasticceria davanti alla Igreja dos Clerigos è ricolmo di meraviglie proprio come lo ricordavo. Due pasteis de nata e un bicchiere di succo d’arancia per me, quattro frittelline di carne per la fidanzata, una roba gigantesca e inquietante per gli ultimi aggregati, che sinceramente non so dove trovino il coraggio di mangiarla, io neanche ci avvicinerei le mani a una roba così, metti che mi morde.

È sufficiente un’immagine per convincere la BCE a cancellare il debito portoghese? In questo caso credo di si.

Ormai tra l’arrivo, la sosta in ostello e quel minimo di nutrimento non è più ora di fare i turisti, la giornata è praticamente agli sgoccioli, e poi Porto l’abbiamo già girata tutta nella visita precedente; molto meglio, perciò, dedicarsi subito allo shopping, e mi ricordo che c’era un bel negozietto appena fuori dal Mercado do Bolhao dove due anni fa comprammo la nostra bottiglia di porto.

C’è ancora, si chiama Comer E Chorar Por Mais, che è un modo di dire portoghese che sono sicuro che saprete tradurre anche da soli (me lo auguro, almeno, che io non ne sono capace). È un negozio fondato addirittura nel 1912, ma nel frattempo ha cambiato proprietario, e quello che ci offre assaggi di tutto quello che c’è in vendita non è una riproduzione locale della mummia di Tutankhamon, ma un simpatico signore sui sessanta. Cerchiamo di ripagare la sua gentilezza uscendo con una borsa di salami e formaggi da nutrirci per qualche mese, ma ci ho lasciato le pere secche, ne soffro un po’.

Ultima meta la Ribeira, che poi è la ragione principale per cui siamo tornati a Porto. Non esiste una sensazione altrettanto magica di guardare la zona del lungofiume dalla sponda di Gaia, con quelle case colorate ammassate una sull’altra e il ponte come un mostro di metallo pronto a mangiarsele.

Vabbè, si, quando ti portano il conto mentre stai riverso sul tavolo del ristorante a cercare di digerire la quantità spaventosa di pesce che ti sei cacciato in bocca, e scopri che hai speso poco più di dieci euri provi qualcosa che ci si avvicina molto.

Però è qui che desideravo bermi la mia sagres, seduto al tavolino di un baretto sovrastante il lungofiume, a guardare le barche, e il ponte, e Gaia dall’altra parte del fiume, e la gente che passeggia sotto di me, e ancora il ponte, e Gaia, ammazza se è brutta Gaia, e il ponte, che belin, è proprio imponente, e il cameriere che si fa i cazzi suoi e io intanto vorrei un’altra birra.
Non ci andiamo adesso a bere la sagres, che è quasi ora di cena: stiamo un po’ a ciondolare davanti al Douro, poi attraversiamo il ponte giusto in tempo per goderci il tramonto sulla città vecchia, e andiamo a cena da Casa Adao.

Il proprietario è un signore piccoletto con dei grossi occhiali e il fare un po’ burbero, molto disponibile e piuttosto divertente quando si mette a insegnare a Marzia la pronuncia corretta di não, per dire no invece di nave. Dopo averci servito un polpo grigliato da sfamarci una portaerei ci annega nella ginja e poi torna un’altra volta a servirci le ciliegie sciroppate da mangiarci insieme, solo che fa casino e le rovescia tutte addosso a Paola.

Usciamo gonfi come bibini, ma la notte è giovane, c’è ancora tempo per un caipirão, il liquore tipico portoghese, ci spiega il cameriere, e c’è da chiedersi come abbia fatto un popolo capace di eleggere a bevanda nazionale una roba che sa di fluimucil a non essersi ancora estinto.

(continua e finisce nel prossimo numero, come Martin Mystère)

La cantina
Dal prato di Gaia il profilo di Porto è una delle cose più belle che vorresti avere davanti, tranne forse trentasette centimetri di simpatia. Un labirinto colorato che si arrampica per il pendio, edifici appoggiati uno sull’altro come i gradini di un anfiteatro e tu, sul palco, a sentirti protagonista e spettatore insieme. Ricorda un po’ il centro storico di Genova, ma da noi per godere di una prospettiva simile devi imbarcarti su un traghetto.
La facciata di un palazzo è coperta da secoli dal pannello giallo della Sandeman, la più famosa marca di vino della città, ma non disturba affatto. L’uomo intabarrato col bicchiere in mano è una figura onnipresente, ti ammicca dalle vetrine, dai barconi sul Douro, dal tetto degli edifici, dai tram, è come Belen Rodriguez, ma recita meglio.
Altro discorso vale per la gigantesca insegna rossa della Seat che copre la facciata di un palazzo proprio davanti alla sé. Quella è veramente un pugno nell’occhio, non puoi non vederla, rovina le foto, è brutta.
Non che la cosa mi impedisca di portarmi via altre duecento immagini con la scusa che la luce è migliore.

La luce è un’altra cosa di cui bisogna parlare se si racconta del Portogallo, perché è un altro dei suoi elementi essenziali. Se potessi scattare una foto che riassuma questo Paese sarebbe l’insegna di una pasteleria a metà di una salita ripidissima, con una chiesa tutta arabescata in cima, un tram che viene giù, una casa decorata ad azulejos e una Madonna che piange. E sarebbe una foto sovraesposta. Perché la luce in Portogallo, come racconta Alessandro nel suo diario parallelo, “è del 46% più luce della luce che c’è da altre parti”. Roba da farti suicidare l’esposimetro.

La digestione del pesce ci prende un paio d’ore, ma quando ci alziamo siamo di nuovo tonici e pronti all’ennesima sfida, specialmente gastronomica. L’unico impegno che abbiamo è vederci con Lucilla e Alessandro, che sono arrivati in città da qualche ora, si sono accampati da qualche parte e stanno facendo i turisti chissà dove, ma abbiamo in programma di cenare insieme, quindi per un po’ siamo ancora liberi.

Vila Nova De Gaia è la zona delle cantine, allineate una accanto all’altra alle nostre spalle vivono del commercio di bottiglie, ma hanno trovato un lucroso mercato organizzando visite guidate per i turisti. Per quest’attività così redditizia si servono di individui senza scrupoli, i bagarini. Sono inarrestabili, riconoscono il turista al volo e ci si avventano contro con quella finta cortesia che è quasi insolenza, gli si piantano davanti e gli decantano la magnificenza della cantina, l’accuratezza della spiegazione multilingua di cui potrà godere e soprattutto la quantità di assaggi gratuiti compresa nel prezzo d’ingresso. Nel mio caso è facile, ho la macchina fotografica perennemente appesa al collo e l’espressione estatica del bambino in gita, mi basta transitare dall’altra parte del marciapiede e i bagarini mi sciamano addosso come testimoni di geova su un campanello. Per fortuna ho Marzia a tenerli lontani, non ama essere importunata dai passanti e li scaccia roteando i suoi sguardi minacciosi.

Però il porto di Cristiano Ronaldo non era granché, vuoi rinunciare a un assaggio di qualcosa di meglio? Andiamo da Ramos Pinto, di cui non sappiamo nulla, ma che non si serve di buttadentro e la cosa ci fa già simpatia.

Il primo impatto è ottimo, appesi alle pareti ci sono manifesti pubblicitari liberty firmati Rossotti, Capiello e Metlicovitz, tre autori che mi scatenano un’emozione fortissima quando mi rendo conto di non averne mai sentito nominare neanche uno. Ma è perché sono un ignorante, si tratta di tre importantissimi illustratori italiani dei primi del Novecento, autori di quei manifesti che oggi pullulano le bancarelle vintage che fanno tanto elegante a metterli in salotto e che strapaghi per realizzare poi che sono tutte riproduzioni sgranate che se le vedessero Rossotti, Capiello e Metlicovitz ti sputerebbero in faccia.

Con sei euri ci facciamo la degustazione per principianti, cinque bicchieri dal bianco più giovane a un rosso di dieci anni, un breve manuale “assaggiatori di vino for dummies” con l’omino dalla faccia triangolare in copertina che punta il dito, le schedine per annotare le sensazioni provate, una matitina.

Agitiamo il bicchiere come veri sommeliers, notando come l’alcool resti appiccicato al vetro, ma non a quello della finestra, cazzo fai, pulisci che ci vedono; diamo una prima annusata veloce e poi una seconda più lunga e intensa, per riconoscere ogni elemento che impreziosisce il bouquet, financo lo strutto e i chiodi arrugginiti tirati via dalla botte dopo quarant’anni di stagionatura, assaggiamo a piccoli sorsi, passandoci il gustoso nettare su tutta la superficie della lingua, così da permettere alle papille gustative che stanno in fondo di guadagnarsi la paga anche loro, che non fanno mai un cazzo e non le posso neanche lasciare a casa perché sono raccomandate dall’alto.

Annotiamo scrupolosi quello che abbiamo colto dall’esame del primo bicchiere, ci dedichiamo con diligenza a studiare il secondo, proviamo il terzo, tracanniamo il quarto e facciamo ampi gesti di approvazione fischiando rumorosamente e dandoci grosse pacche sulle spalle dopo esserci spazzolati il quinto. È il migliore, non ci sono dubbi! Ha un retrogusto di noce così persistente che ndevi mandarlo via a parolacce, Non lo compriamo solo per non doverci portare dietro la bottiglia, ma prima di abbandonare la città torneremo senz’altro.

In realtà Marzia ha letto sulla Santa Guida Lonely Planet che esiste una piccola cantina indipendente chiamata Càlem, e il suo spirito ribelle la spingerebbe ancora una volta a sostenere le minoranze, anche quando sono proprietarie di un capannone grande come un campo da calcio. Non ci andiamo subito perché se beviamo ancora qualcosa di più forte dell’acqua distillata andiamo in coma etilico, ma le prometto che non mi butterò in nessun incauto acquisto prima di aver visitato i suoi amici “rivoluzionari”.

Tempo libero
L’ennesimo bagarino ci arpiona col suo blocchetto di vouchers: questo propone una gita in battello della durata di 50 minuti per la modica cifra di dieci euri, più una visita guidata alle cantine Offley’s. Accettiamo, forse l’aria del fiume ci rischiarerà le idee, e io già sbavo all’idea di fotografare il ponte da una nuova prospettiva.

La gita è tranquilla, la parte a monte fino al Ponte Maria Pia è piuttosto anonima, quella zona della città è troppo moderna, si vedono le spiagge che abbiamo notato arrivando in treno. L’unica cosa degna di rilievo sono due pescatori seduti coi piedi in acqua a leggersi i libri di Pedro Gambadilenho a turno, a voce alta. Quando ritengono di avere letto abbastanza buttano i libri nel Douro e si baciano voluttuosamente facendo un sacco di spruzzi. Chiedo a Marzia cosa ne pensi di quel bizzarro teatrino, ma dice che non ha visto niente e che mi sono inventato tutto e che dovrei farmi visitare da un medico appena torniamo in Italia. Certe volte quella ragazza mi preoccupa, è talmente apprensiva..

Il viaggio in battello prosegue verso la foce, fino al borgo di Afurada, un villaggio di pescatori che abbiamo in mente di visitare il giorno dopo. C’è una fitta nebbia che ci impedisce di vedere l’oceano, ma è anche meglio, possiamo immaginare che sia proprio lì a due passi, come direbbe Cristo.

Dopo la gita non andiamo a vedere le cantine perché sono già chiuse, ma anche perché non ce la facciamo più neanche a tornare a piedi fino all’ostello. Ci sediamo sul prato e aspettiamo che i nostri amici ci trovino.

“Allora, avete alloggiato nel nostro ostello superfigo?”, chiedo a Lucilla.
“No”, mi risponde, “Non c’era posto, così abbiamo cercato lì vicino.”
“E dove avete trovato?”, domanda Marzia.
“Stiamo nel grosso palazzo abbandonato su Avenida dos Aliados”, rivela Alessandro, mortificato.
“Però costa poco!”, cerca di giustificare Lucilla. “Abbiamo una camera molto spaziosa!”
“Si, la dividiamo con solo quattro barboni!”, interviene Alessandro.
“Ma nel nostro c’è la colazione compresa!”, dico.
“Nel nostro sono compresi gli scarafaggi!”, replica.
“Nel nostro ci sono i film!”, insisto.
“Nel nostro gli ubriaconi che si accoltellano!”, insiste. “E c’è anche la connessione remota!”
“Davvero?”
“Si, nel senso che uno dei barboni che dormono con noi una volta si collegò a internet”.

Lasciamo che i nostri amici vadano a prenotare al ristorante buonissimo segnalato da un’amica di Marzia che va in Portogallo tutti i giorni, un posto dove cucinano il polpo alla brace come lo mangiavamo in Puglia, dove ti servono pezzi di tentacolo lunghi un metro e passa. Noi strisciamo sul primo autobus che ci riporti in centro per una doccia ricostituente.

Il Rivoli Cinema Hostel è sempre lì, con le sue serrature elettroniche a custodire ogni sorta di meraviglia. Appena varcata la soglia c’è una bacheca di prodotti locali, fra cui due bottiglie di porto, alcuni gadgets di Star Wars che mi fanno venir voglia di inoltrare domanda di assunzione e..

“Aaahhh!!”, strilla Marzia come se avesse visto il più grosso scarafaggio della sua vita.
“Cosa! Dove!”, faccio io.
“Guardaaaa!”, e indica la bacheca, solo che non ci sono scarafaggi, ma delle assurde scarpette di plastica. Ho capito tutto. È incredibile come uno strillo di gioia femminile somigli così tanto a un urlo di terrore, dopo tutto questo tempo non ho ancora imparato a riconoscerli, come l’impercettibile differenza di tono che distingue un “non ho niente (sono assolutamente serena e in pace col mondo)” da un “non ho niente (ti odio con tutte le mie forze e sto seriamente pensando di ucciderti nel sonno)”.

Insomma che ha visto delle scarpe che pare siano l’ultima novità in fatto di abbigliamento alternativo, quelle robe di moda fra chi non vuole essere di moda, che in Italia costano come le ciabatte orrende di Prada e invece qui te le porti via con quindici euri. Evidentemente i portoghesi sono meno stupidi degli italiani.

“Devo scoprire dove le vendono! Devo averle a tutti i costi! Devono essere mieee!”

La trascino via di peso, e per fortuna che alla reception c’è un tizio che non parla né inglese né spagnolo, perché se avessimo avuto una minima speranza di comunicare avrei potuto scordarmi la cena.
Torniamo invece a Gaia e occupiamo il nostro tavolo al ristorante Casa Adão, dove lavora la cuoca assassina.

Ancora È costei una grossa signora con la cuffia e la voce imponente, che lavora segregata nel suo spazio tra i fornelli dalla mattina alle sette fino a notte inoltrata, tanto che capita spesso che debba fermarsi a dormire lì. Per questa ragione si è organizzata tenendo una coperta e un cuscino dentro il forno, che non usa. Tutti i piatti della Casa Adão sono bolliti.
I ritmi di lavoro massacranti hanno segnato profondamente il carattere della signora, che col passare degli anni ha raggiunto un tale livello di misantropia da minacciare col coltellaccio chiunque le rivolga la parola. È evidente che nella cucina di un ristorante sia inevitabile rivolgersi alla cuoca, e questo genera dei conflitti che spesso sfociano in gesti violenti, come quello cui siamo testimoni quella sera, quando la cameriera riporta in cucina un piatto di riso lasciato intatto e la cuoca lo prende come uno sgarbo personale.

Il dialogo esatto fra le due non lo posso riportare per ovvie difficoltà linguistiche, ma cercherò di essere il più fedele possibile al concetto, e mi scuso fin d’ora per le libertà narrative che mi concederò.

CAMERIERA – Il tavolo quindici non ha neanche toccato il riso.
CUOCASSASSINA – E io cosa ci devo fare?
CAMERIERA – E io che ne so? Mangiatelo!
CUOCASSASSINA – Io me lo devo mangiare? Io? Loro se lo devono mangiare! Quei bastardi! Lo sanno quanta cura ci ho messo a prepararlo?
CAMERIERA – Beh, magari non avevano più fame.. Hanno preso parecchi antipasti..
CUOCASSASSINA – Lo sai dove glieli infilo gli antipasti? Fammeli vedere, voglio vederli in faccia quei figli di puttana!
CAMERIERA – Sono.. sono andati via..
CUOCASSASSINA – Sono andati viaa? Li hai mandati viaaah?!?
CAMERIERA – Hanno pagato e se ne sono andati, cosa dovevo fare, sequestrarli?
CUOCASSASSINA – Aargh! Li ammazzo! Giuro che li ammazzo! Bastardi! Mi fanno fare una vita da schiava e poi non mangiano! Figli di puttana! Gliela faccio vedere io gliela faccio!

Ciò che segue non è molto chiaro, gli altri camerieri ad un certo punto si sono frapposti tra il nostro tavolo e la finestrella della cucina, e non abbiamo più potuto vedere com’è andata a finire, ma pare che la cuoca abbia brandito un’ascia e abbia cercato di correre in strada per inseguire i clienti; la cameriera ha cercato di impedirglielo, che c’era da preparare un bacalhao per il tavolo otto che stavano aspettando già da un po’, ma la cuoca pazza di rabbia ha tentato di divincolarsi e si è ferita.

Tutto ciò ha ritardato di parecchio la nostra ordinazione, ma abbiamo ingannato l’attesa bevendo vinho verde e pregando per la nostra incolumità.

Il polpo arriva, effettivamente è tagliato in pezzi così grandi che fra i tentacoli si trovano ancora dei frammenti di chiglia, ma non è gustoso come quello di Mola Di Bari. Non credo dipenda dalla cuoca, ma anche se fosse mi guardo bene dal protestare, e così i miei compagni. Mangiamo tutto in silenzio, non ci lamentiamo nemmeno quando nel piatto troviamo un dito mozzato ancora sanguinante. Ci limitiamo a ripulirlo col tovagliolo e a lasciarlo nel piattino delle mance al momento di alzarci.

Il conto ormai è un’abitudine, quando va male come stasera sono quindici a testa, ma abbiamo mangiato come struzzi e Alessandro ha bevuto tanto vino che quando se ne va canta La Montanara Uè.