Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music
Radio Tehran – Tamume chiza
Portishead – The Rip
Lalo Schifrin – The Cat

Il personaggio di Lalo Schifrin ispirò gli autori di Better Call Saul nello scegliere il nome del cattivo davvero molto cattivo della serie, Lalo Salamanca.
Io un cattivo così bravo l’ho visto poche volte, così pericoloso da trasmettere inquietudine ogni volta che è in scena. Poi, a pensarci, non ci vuole moltissimo: prendi un simpaticone e gli fai ammazzare un paio di persone a caso, senza ragione, solo per mostrare che è capace di crudeltà indicibili, ed eccoti il perfetto psicopatico da cinema. D’altronde nel minutaggio limitato che ti permette un film o una serie tv non è che puoi scavare più di tanto nel carattere di un personaggio, ti limiti a mostrarne i tratti essenziali e speri che l’attore li trasmetta in modo efficace.
Tony Dalton più o meno ci riesce, forse grazie ai suoi baffi. I baffi fanno simpatia, a meno che non siano a spazzolino, nel cui caso fanno solo cancelliere tedesco megalomane, e tanti saluti a Charlie Chaplin.
Trovami un personaggio antipatico coi baffi, se ci riesci. Certo, nel mucchio qualcuno c’è, anche perché se il baffo fa parte del set baffo sottile + barba appuntita è automatica l’associazione con l’immagine più classica del Diavolo, quindi ti parte subito il giudizio negativo: guarda Jafar in Aladdin o Capitan Uncino (senza barba, ma l’effetto è dato dal baffo sottile). Ci sarebbe anche Fu Manchu, ma lì entra in gioco lo stereotipo del cinese, e il baffo assume un valore positivo o negativo a seconda dei casi: il baffo cinese, lungo e curato, rappresenta più che altro l’intelligenza, che diventa virtù (saggezza) o difetto (scaltrezza) in relazione al ruolo del personaggio.

Dalla parte dei baffi simpatici la lista è lunghissima, si va da Ned Flanders a Lando Calrissian, il Grande Puffo, Ron Swanson, Luigi, e qualcuno si ricorda di un film in cui Tom Selleck recita senza baffi?

In & Out (1997)

1987, In and Out. Qualcuno non si ricorda che ci fosse Tom Selleck e qualcuno mente.

I baffi sono anche il segno distintivo del tizio rude con cui non hai voglia di andare a litigare. Per ottenere quel risultato è necessario lasciare crescere il pelo anche ai lati della bocca, come in un pizzetto da carabiniere (il pizzetto è solo da guardia, non è né buono né cattivo, è da guardia), ma senza la barba. Il baffone da motociclista, o da motociclista gay dei Village People, che comunque riprende quello stereotipo lì e ne ribalta il machismo.

Il logo del Pablog è un tizio col cappello a cilindro, gli occhiali da sole e quei baffoni lì. Sono io, ovviamente, ho adottato quell’aspetto una volta per esigenze teatrali, e per tutto il periodo in cui ho mantenuto il baffone burbero notavo che le persone mi mostravano una reverenza inedita, li intimidivo. Poi parlavo e rovinavo tutto, ma finché mi vedevano lì, zitto e minaccioso, stavano attenti a pesare le parole. Perfino il mio capo di allora, un coglione cresciuto a farsi le seghe sul culto dell’uomo forte, ci pensava un paio di volte prima di alzare la voce come era solito fare. Il baffo da biker trasmette autorità almeno quanto girare con una catena in mano.

Un personaggio che dovette lavorare sul suo baffo fu Freddie Mercury: quando se li fece crescere la casa discografica ricevette centinaia di lettere indignate, ma non passò molto tempo e il suo pubblico imparò a identificarlo più per il baffo che per la voce, e onestamente, se fosse tornato alle tutine aderenti scollate dopo averci fatto innamorare tutti col capello corto e i baffoni sarebbe sembrato ridicolo, ormai il mondo era andato avanti, gli anni ’80 richiedevano un aspetto più mascolino.

Vabbè

Tornando su Lalo Salamanca e sulla serie che l’ha lanciato nel magico mondo dei bastardi adorabili, e dovendo creare un collegamento coerente col brano della puntata scorsa, vorrei parlarvi di Todd Terje, un dj norvegese, e della canzone che compare nella terza stagione della serie.

Quando ho letto che veniva definito “un terzo della Santa Trinità della disco norvegese” mi è subito venuta la curiosità di sapere chi fossero gli altri due e soprattutto, da quando la disco norvegese è un fenomeno popolare?
Cioè, io la Norvegia la conoscevo per il black metal, com’è che hanno trovato spazio dei dj?

Ho letto un articolo in cui Lindstrøm, un altro membro (credo) della “Santa Trinità”, dice di essere sempre stato un rocchettaro e di essersi avvicinato alla disco solo per curiosità, e ho pensato che forse in Norvegia in quegli anni lì, dichiarare che ti piaceva una cosa diversa dai Mayhem era un po’ come chiamarsi Olaf e rivelare ai tuoi genitori che quel ragazzo biondo con cui passavi gran parte del tuo tempo non era solo un tuo compagno di studi.
Mi sono immaginato questi ragazzi che si radunavano di notte in qualche garage e mettevano su gli Unerwünscht e i Tangerine Dream e se li ballavano a volume basso, mentre fuori passavano furgoni carichi di ciccioni coi capelli lunghi e il cerone sulla faccia che urlavano il ritornello di Sign of an open eye dei Gorgoroth.

(Non lo so quale sia il ritornello di Sign of an open eye dei Gorgoroth, ho fatto un giro su Google senza approfondire perché il computer che sto usando non ha le casse, ma dato che sono pieno di pregiudizi buffi mi piace credere che sia una roba tipo “AAARGH!”)

Todd Terje non ha mai raccontato della sua infanzia in mezzo alle cartiere abbandonate di Mjøndalen, o perlomeno non l’ha fatto in posti dove sarei stato capace di leggerlo. Quello che so di lui è che ha collaborato con un sacco di persone famose e che ad un certo punto qualcuno l’ha definito “il re dei festival estivi”, compreso il Sonar Festival di Barcellona, che non è proprio come esibirsi alla festa della birra di Crebini Cazzuli.

Ecco, nel suo caso i baffi autorevoli fanno ridere, ma è perché ha la faccia da ragazzino

Andando a scavare nella vita di Todd Terje si scopre che i dj norvegesi sono più di tre, e sono una realtà consolidata. Da ragazzino ascoltava le cassette che sua sorella gli portava a casa, registrate da un suo amico che si stava facendo conoscere nella disco del Paese: si chiamava DJ Erot, e nella sua breve vita (morì a 23 anni per un problema al cuore) ebbe il tempo di ritagliarsi uno spazio importante nel settore, un po’ perché la sua ragazza era Anne Berge Strand, un’altra dj piuttosto famosa (lei è ancora viva e ha continuato, collaborando anche con Taylor Swift, per dire), e un po’ perché in tutta la Norvegia nei primi anni 2000 abitavano meno di 5 milioni di persone (nella sola Melbourne ne vivono di più), con tutti i metallari che giravano quanti potevano essere a fare musica elettronica? Però se non sei bravo non emergi, c’è poco da fare, e Todd è bravo, ha studiato il pianoforte, nei suoi pezzi si sente emergere il jazz e il dub, si sente il cinema, si sente tanta disco anni ’70. Comincia a sfornare pezzi che stanno benissimo nei baretti sulla spiaggia, viene invitato ai festival che si tengono vicino a quei baretti lì, e in poco tempo lo conoscono tutti.

La prossima volta potrei agganciarmi a uno di questi festival e andare a finire ovunque, oppure restare sulle sue collaborazioni e spostarmi di poco. Vediamo.

(continua)

Va detto che questo titolo per la rubrica sulle serie tv andrebbe cambiato, ma per adesso ce lo teniamo.

Mia madre si è abbonata a Netflix e ha scoperto le gioie del binge-watching, e io ho scoperto cosa provano gli orfani: non esce più di casa, quando vado a trovarla è sempre sul divano con gli occhi alla tele, e mi risponde sisì. La capisco, le prime stagioni di Lost hanno fatto lo stesso effetto anche a me.
Poi vai avanti e capisci che quella serie ha perso un treno di possibilità gigante, o forse non l’ha mai avuto, forse è nata con l’intento di intrattenere senza spiegare niente, e allora è perfetta così com’è. Per me comunque una storia che apre mille interrogativi e ne chiude dieci è una storia che non funziona, scusate. Invidio mia madre che si sta divertendo tantissimo, ma non vorrei essere nei suoi panni quando dovrà sorbirsi le ultime tre stagioni e i viaggi nel tempo e i personaggi che entrano ed escono dal niente e i flash-fucking-forward e quel finale che se ci penso mi viene ancora voglia di associare divinità cristiane e animali da fattoria.

Bioparco!!

Intanto che aspetto di ritrovare un genitore perduto cerco di convincerla a guardare un’altra perla presente nel catalogo, e non voglio neanche ripetere di cosa sto parlando, mi limito ad alzarmi in piedi e portarmi la mano sul cuore.

Sarà proprio quella serie lì a introdurre il primo argomento di questo post, di cui proprio stamattina ho visto l’episodio finale della terza stagione: Better Call Saul.

Lo stile narrativo, l’ho già detto, non è lo stesso di Breaking Bad, ma non è un difetto. A dire la verità anche la sua serie madre iniziava con un tono a tratti ironico, poi ha cambiato registro nelle ultime stagioni, e ci ha portati al finale con una tensione addosso che se ci penso mi metto lì e me lo riguardo un’altra volta.
Intanto a mia madre ho proposto una visione collettiva settimanale a casa sua, con la scusa che non l’ho mai visto in italiano.

Mentre nelle prime due stagioni la storia andava avanti per conto proprio, con l’introduzione di un personaggio fondamentale di quell’universo narrativo ci siamo agganciati di prepotenza alla storia principale, diventando a tutti gli effetti un prequel. Ci sono i personaggi che abbiamo conosciuto insieme a Walter e Jesse, i luoghi in cui si sono ambientate le loro vicende, assistiamo alla nascita dei loro rapporti e di alcune loro caratteristiche. Mancano solo Walter e Jesse, ma a questo punto non escludo di vederli nella prossima stagione. D’altronde, se abbiamo ritrovato perfino Huell Babineaux..
L’ultimo episodio andato in onda finora è di quelli che ti fanno alzare dal divano dicendo “Waaah!”.

black is the new orange which is the new black

E restando su serie di cui abbiamo già parlato, ma nel frattempo sono andate avanti e ci sarebbe da dire qualcosa, è uscita la seconda stagione di Preacher.

Sai quella serie che sì, carina, ma il fumetto è un’altra cosa e Tulip mi sta pure sulle palle? Quella che non avevo ancora capito se mi piaceva o l’avrei recensita come gli americani recensirono Dresda nel ’45? Ecco, è ricominciata quella serie lì, e da subito si è capito che qualcosa è cambiato.
Intanto i protagonisti non sono più confinati nel buco del culo del Texas, ma se ne vanno in giro e incontrano personaggi (poi vabbè, sono andati a New Orleans, si fermano lì per tutta la seconda stagione, ma è comunque un miglioramento, voglio dire, New Orleans, c’è ambientato un ciclo di storie fighissime in quella città), e i personaggi sono di quelli importanti, che quando sono in scena se la prendono tutta. E poi c’è molto più umorismo macabro, situazioni grottesche, violenza gratuita, insomma, è Preacher. Magari non è fedele alla storia, ma è coerente, e non so voi, ma a me non dispiace affatto vedere una storia nuova, se è coerente con quella che conosco. È come farsi raccontare una nuova avventura dei tuoi personaggi preferiti.
Anche Tulip, alla fine, non l’ammazzerei più, me la sono fatta piacere. Facciadiculo no, è ancora il cosplay ragazzino odioso di Facciadiculo.

per esempio Ganesh non c’è nei fumetti, ed è un peccato

Questo discorso della coerenza lo ritrovo nel’ultima serie di cui volevo parlare, American Gods.
Hai letto il romanzo, ti è piaciuto da morire anche il finale che invece a me no, ma insomma, hai saputo che ne avrebbero fatto una serie e hai cominciato a sperare fortissimo che fosse fedele alla storia che conosci. E invece qua e là cambia. Ci sono personaggi che vengono sviluppati di più, altri che non esistono affatto, succedono cose che non dovrebbero succedere. Tradimento!

Epperò i personaggi che non sono nel libro potrebbero starci bene, se ci fossero sarebbero così, come una canzone che viene esclusa da un disco e la ascolti dieci anni dopo nell’edizione anniversario e diventa la tua canzone preferita.
Ecco, American Gods non diventerà la mia serie di culto, e i personaggi che sono stati aggiunti non sono già adesso i miei preferiti, ma è una storia che funziona bene, non mi fa mai provare quella sensazione di estraneità in cui per esempio The Walking Dead abbonda. Vabbè, ma lì il problema è che la storia è uno sbriciolamento di coglioni e i personaggi vorrei vederli tutti morti, ma non morti che ritornano, morti e basta.
La serie di Amazon (sì, la passano su Amazon, finora l’unica ragione valida per mantenere un abbonamento a Prime), fra le altre belle cose, mi ha riportato in vita diversi attori di cui avevo perso le tracce, prima fra tutti Cloris Leachman (nitrito di cavalli), che a novantun’anni tira fuori una splendida Zorya Vechernyaya. Una chi? Niente, un personaggio di American Gods, stavamo ancora parlando di quello. E poi c’è Crispin Glover, che tutti ricordiamo come il papà sfigato di Michael J. Fox in Ritorno Al Futuro, “ehi tu porco levale le mani di dosso!”, e qui fa il capo dei cattivi; Gillian Anderson, non potevo immaginarla diversamente che così, e adesso me la vedo vestita da David Bowie coi capelli arancioni e chi se lo ricorda più di Scully?

beating up the wrong guy

Per me American Gods è un grosso pollicione alzato, e non ho neanche parlato della colonna sonora, o della bellezza di Emily Browning, o di Kristin Chenoweth, che se per voi è la voce di un personaggio di Bojack Horseman (perché non ho nessuna voglia di vederlo nonostante ne parlino tutti benissimo?) vuol dire che non avete mai visto Pushing Daisies, e mi dispiace tantissimo per le vostre vite incomplete.

Adesso magari mi rimetto a scrivere qualcosa di divertente, eh? Con calma.

La volta scorsa mi ero congedato accennando ad alcune serie di cui avrei voluto parlare, così sono tornato per scrivere altre due righe su questo passatempo che abbiamo noi proprietari di divani comodi e tempo da perdere.

Better Call Saul è una serie di cui senz’altro avrete sentito parlare, se non altro a causa della sua sorella maggiore [sospiro]. Per quei due o tre che sono usciti dalla giungla l’altroieri sto parlando di [mi alzo in piedi e mi porto una mano sul cuore] Breaking Bad. Questa serie ne è lo spin-off, e parla dell’avvocato Saul Goodman, uno dei personaggi migliori di quella meraviglia     quell’assoluto capolavoro     quella cosa che se non l’avete vista siete degli stolti   quella serie di cui condivide autori, produzione e parte del cast.

A che ti serve Bryan Cranston quando hai Jonathan Banks?

A che ti serve Bryan Cranston quando hai Jonathan Banks?

Al momento siamo arrivati alla fine della seconda stagione, e tutto si svolge prima della storia raccontata in [mi rialzo in piedi e mi riporto una mano sul cuore] Breaking Bad. Dall’inizio della serie siamo venuti a conoscenza di come Jimmy McGill abbia cominciato la sua carriera legale, del rapporto difficile che ha col fratello (un ottimo Michael McKean che non avrebbe bisogno di presentazioni), della sua tendenza a complicare la vita degli altri, e del suo genio.
È una storia dai toni più leggeri di quella raccontata da [mi alzo ancora una volta e mi riporto la mano sul cuore, ma credo che oramai ci siamo capiti] Breaking Bad, sebbene la presenza di Mike Ehramntraut e di diversi narcotrafficanti conosciuti e non garantisca una certa dose di tensione.

Va visto, anche se non è [resto seduto e agito la mano come a dire seeh andiamo avanti] Breaking Bad, ma del resto alla seconda stagione neanche Breaking Bad aveva mostrato tutto il suo potenziale. Gli elementi ci sono, diamogli fiducia e aspettiamo che Mike faccia il suo sporco lavoro.
Il grande mistero di quest’anno è Preacher. Mi è piaciuto? Mi ha fatto cagare?
È una serie tratta (ma sarebbe meglio dire “ispirata”) a un fumetto di (già??!?) sedici anni fa, scritto da Garth Ennis e disegnato da Steve Dillon.
Se non siete pratici di fumetti questi nomi non vi diranno niente, e vi compatisco perché la vostra vita è davvero triste.
Gli altri staranno scuotendo il capo con mestizia, perché il povero Dillon è morto in questi giorni, e quindi anche la loro vita è triste, ma almeno possono consolarsi rileggendo Preacher, e il Punitore, e Hellblazer, e The Boys, e fermatemi sennò vado avanti tutta la sera.

Machos & nachos

Machos & nachos

La storia raccontata nelle pagine di Ennis è volgare, blasfema e violenta. E a leggerla adesso per la prima volta potrebbe apparire datata. E forse il pregio della serie è quello di averla resa di nuovo attuale, se non altro come linguaggio cinematografico. Perché è un gran bel prodotto, se ne ignori le origini. Ha un sacco di trovate pop, didascalie alla Tarantino, un’ironia intelligente, una storia mai banale, e dei personaggi pazzeschi. Se non hai mai letto il fumetto sei un poveraccio, ma di sicuro ti godrai questa serie molto più di quello che ho fatto io.
Perché il fumetto è diverso, è proprio la storia ad essere stata pasticciata. Il rapporto fra i personaggi è cambiato, Tulip è odiosa e vorrei ucciderla.
Conto sul fatto che una serie si propone di andare avanti per diverse stagioni, e voglia allungare il brodo il più possibile, ma una vocina dentro di me punta il dito e rompe il cazzo.

Scendi da quella macchina e trovati un lavoro!

Scendi da quella macchina e trovati un lavoro!

Mi sono tenuto per ultimo la serie che negli ultimi tempi mi ha fatto innamorare e soffrire come una fidanzata mai abbastanza rimpianta: Narcos.
L’ho amata dalla prima stagione, dalla sigla meravigliosa e dalla voce fuori campo che mi ha portato in Colombia, sulle tracce di Pablo Escobar.

Ecco, non si dovrebbero produrre serie tv che trasformano un criminale sanguinario in un eroe, e questo è forse l’unico difetto di questa produzione Netflix: alla fine, ti piaccia o no, tifi per lui. Perché Wagner Moura, l’attore che interpreta Escobar, è proprio bravo. E con quelle felpe orrende e la panza fa simpatia anche quando ammazza qualcuno a revolverate in faccia. E poi dice plata o plomo, e coma mierda, e hijo de puta con quella pronuncia da ciccione che se l’avete guardato in italiano forse è andata persa, e un po’ ve lo meritate perché dovete essere gli stessi che non hanno mai letto i fumetti di Preacher.

È il 1986, sono in prima superiore e lui è il mio prof di tedesco

È il 1986, sono in prima superiore e lui è il mio prof di tedesco

Ochei, si prende anche delle libertà nel raccontare la storia, inventa personaggi che non sono mai esistiti, ma non è mica un documentario. Se hai voglia di approfondire, internet ti offre tutto il materiale che sei disposto a leggere.
Ma se hai tempo di guardare una serie sola guardati questa. E prova a non innamorarti di Tata.

Se ce l’avessi io il tempo vi racconterei di The Strain, di cui è iniziata la terza stagione, di Mr Robot, di cui non so se guardare la seconda nonostante la prima fosse ottima (o forse proprio per quello), e di Black Mirror, di cui sto guardando, in colpevole ritardo, la prima e la seconda tutta insieme, e nel frattempo stanno trasmettendo la terza.

Magari torno.