Parto sotto i peggiori auspici. La prima volta che sono stato in Portogallo sono andato in macchina, ma ho avuto problemi e mi si è piantata in autostrada. Chiama mio padre, fregagli la macchina mentre guarda se arriva il carro attrezzi, raggiungi la Malpensa in ritardissimo, posteggia di corsa nel posteggio sbagliato che ti costerà alla fine più del biglietto e via.
Il giorno prima della partenza mi si accende la spia dell’olio, ma non posso andare in treno, ho degli impegni inderogabili lunedì, devo tornare presto per andare a lezione, è il giorno in cui si decideranno i ruoli dell’Amleto, e se non vado si pigliano tutti i migliori e mi tocca fare Ofelia.

Nonostante la nube nera di morte che aleggia su di me per tutto il viaggio arrivo sano e salvo, posteggio nel posto giusto e mi imbarco con comodo.
L’aeroporto della Malpensa ha un casino di bagni, e intanto che aspetto li uso tutti. Sarà l’acquapanna dell’autogrill, che ne so.
Per ingannare l’attesa faccio un giro nei negozi del duty free e rischio di comprarmi tre maglioncini eleganti per sessanta euri. Eh ma tre sono troppi, quanto costa uno solo? Sessanta. Ah ecco. Sono un affare! Per voi di sicuro. Due quanto costano? Sessanta. Uno e mezzo? Sessanta anche le frazioni. Grazie arrivederla. Sto andando in un posto dove i prezzi me li ricordo molto bassi, magari il maglioncino me lo compro lì, eppure mi fermo più di quanto sarebbe accettabile a fissare un cappotto fighissimo per cui non sborso trecento sacchi solo perché non saprei come farlo stare in valigia. Eppure diventerò grande prima o poi e queste cazzate impulsive non le farò più, lo so.

All’imbarco c’è coda. Noto due tizie vestite da suore color tortora, forse sono missionarie, oppure sono suore da poco tempo e non hanno ancora cambiato il piumaggio. Però hanno un rosario che spunta dalla tonaca che dovrebbe essere classificato come arma, ha dei grani di legno grossi come chicchi d’uva, e un crocifisso che da solo peserà mezzo chilo. E se fossero due terroriste? Il fanatismo religioso c’è sicuro, a me questi favoritismi non piacciono, mi viene una gran voglia di mettere una bomba sull’aereo e dare la colpa a loro.

Alla fine non erano terroriste, atterriamo a Porto vivi e posso andare a prendere la metro. Perché rispetto a cinque anni fa c’è una metro che ti porta diretta in centro!
E ci mette ore!
E non arriva più!
E sedute con me ci sono due studentesse erasmus di Torino che non fanno altro che parlare delle loro avventure sentimentali in città, tipo che Marina aveva quest’amico che si chiamava Pippo ed è venuto a trovarla e la sua coinquilina ficona se lo voleva fare e gli si è presentata mezza nuda in camera, ma Pippo aveva paura e ha chiesto a Marina di dormire con lui per tutta la durata della sua permanenza, e alla fine in quella casa non ha scopato nessuno. Nomen omen.

..

La camera del Rivoli Cinema Hostel è piccola, ha due letti a castello e quattro armadietti incassati fra questi e il muro che per aprirli devi infilarti in uno spazio minuscolo. Ed è mista. La divido con un tizio costaricense che somiglia al protagonista di Atlanta, un musone che in tutta la permanenza avrà detto sì e no quattro parole. C’è anche una biondina ceca parecchio carina che vive a Barcellona. Con lei invece ci parla un casino, il marpione.

La mia branda è sopra, la presa della corrente sotto, non ci sono mensole dove appoggiare il tablet o il telefono, o un libro: a letto si dorme e basta.
Meglio, così mi alzo presto, penso.

Faccio subito un giro di ricognizione, ho appuntamento con Marzia alle otto davanti alla chiesa di Trindade, quindi mi resta un’ora per andare a vedere una parte nuova della città. Nuova per me, intendo.

Mi infilo in quella parte di città che non conosco, il quadrato sopra Clerigos e Aliados, e trovo un sacco di locali appetitosi dove cenare e dopocenare. Ho la fame di quello abituato a scofanarsi il frigo alle sei e mezza che si trova alle otto passate con lo stomaco ancora vuoto, se non inglobo subito qualcosa di solido aggredisco un passante.

Alle otto meno otto minuti capisco di essermi perso da qualche parte vicino al confine con la Spagna. Chiedo a una ragazza come arrivare a Trindade e quella mi chiede “in macchina?”. Indica un punto in cima a una salita che potrebbe essere lo Stelvio, dice che se ci arrivo vivo poi devo girare a destra.

Alle otto meno tre minuti sono a Trindade, e ho imparato che quando stai per morire di infarto la fame non la senti più. Mi scrive Marzia, dice che non sta bene e resterà in albergo. Le auguro di non sentire più la fame e scendo verso il Douro a cercare qualcosa da mangiare.

Mi infilo da Picota, un buco in Rua das Flores, dove si vantano di essere specialisti della francesinha. Non vedo cosa ci sia da specializzarsi nel prendere un toast e coprirlo con qualsiasi cosa hai in frigo. È la terza volta che vengo a Porto e non l’avevo mai assaggiata, la specialità cittadina.
Ecco, non lo rifarò.

Scendo al fiume, volevo aspettare domani, ma non ce la faccio.

E l’emozione, cristo, che mi prende.
Sto lì mezz’ora a guardare il fiume buio, le luci di Gaia, il ponte. Sono tornato solo per questo momento, potrei tornare a casa appagato.
Invece cammino indietro, faccio qualche foto e vado a dormire, con la francesinha nella pancia che mi ammonisce di fidarmi più dell’istinto e lasciare perdere i consigli del cazzo.

2.
Colazione al Forno dos Clerigos. Un pastel e una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Buono, eh? Ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.

Dopo un po’ mi alzo e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato. Mi incammino verso una direzione sconosciuta, ma vengo fermato da un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

Due saluti due, ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno e me ne vado a vedere la Sé.

L’inverno, lo sappiamo tutti, sta arrivando da sei stagioni, e pare che questa sia la volta buona e dobbiamo prepararci ad affrontarlo come si deve, perciò ho caricato la stufa, messo su una tisana e mi sono procurato un bel po’ di cose per affrontare le lunghe serate di qui al disgelo.

Ho visto un bel po’ di cose, non tutte recenti e non tutte interessanti, ma qualcosa di buono nel mucchio si trova.

Per esempio The Night Of. Otto episodi ispirati a una cosa britannica chiamata Criminal Justice. L’originale è scritto da Peter Moffat, che uno subito pensa “Beh, ma allora siamo sicuri che è bello, l’ha scritto lo sceneggiatore di Sherlock, di Dr.Who, di..”
No. Quello è Steven. Questo è Peter. Però la serie è davvero interessante.
Parla di un ragazzo pakistano giudizioso e bravo a scuola, il classico studente modello che qualsiasi madre si fiderebbe a lasciare a casa da solo con la figlia a ripassare algebra, se solo non fosse un pakistano e quindi potenziale delinquente drogato stupratore di figlie adescate con la scusa dell’algebra, che poi a cosa serve quest’algebra, nelle offerte di lavoro non la richiedono mai, tuttalpiù la patente, fuori da casa mia semi-arabo di merda. Nasir “Naz” Khan, così si chiama il protagonista, ha una gran voglia di conoscere ragazze, frega il taxi di suo padre per andare a una festa e finisce a passare la notte più pazzesca della sua vita, seguita da un risveglio che a confronto la notte più pazzesca della sua vita era un documentario sulla vita del macaone.  È un po’ statico, ma stiamo parlando di una storia ambientata per metà del tempo in un’aula di tribunale, non è che puoi aspettarti i mortaretti. Però l’altra metà si svolge in un carcere, e il lento degrado di un detenuto in attesa di giudizio è un argomento su cui andrebbero spese un bel po’ di riflessioni. I momenti di tensione, comunque, non mancano: il finale del primo episodio ti tiene inchiodato su una scena dove in fondo non sta succedendo granché. E poi c’è John Turturro che interpreta un avvocato con un problema ai piedi, e la sua interpretazione da sola varrebbe la visione.

Riz Ahmed, poi, è Nightcrawler negli ultimi film sugli X Men. E allora teletrasportati fuori, no?

Riz Ahmed, poi, è Nightcrawler negli ultimi film sugli X Men. E allora teletrasportati fuori, no?

Per una serie che merita decisamente la visione ce n’è una di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno, ed è un peccato, perché le sue serie cugine sono ottimi prodotti. Sto parlando di Luke Cage, ultima uscita di mamma Marvel, incentrata sul negrone invulnerabile già visto in Jessica Jones. Se non avete visto Jessica Jones non fa niente, i riferimenti a quella serie si contano su un dito, questa cammina da sola. Epperò zoppica. E ad un certo punto si ferma a guardare le vetrine e sembra non voler più ripartire. Poi riparte, ma pesta una merda di cane e si ferma di nuovo. Poi trova un semaforo rosso. Poi si è dimenticata di chiudere a chiave e torna indietro.
Oh, non c’è verso che si muova! Anche quando il gigante invincibile fa a botte con qualcuno riesce ad annoiarti. Sarà perché è privo di reali motivazioni. Sarà che i cattivi sono cattivi perché qualcuno ha detto loro di esserlo. Sarà che ci sono dei buchi di sceneggiatura che ci fa capolinea l’1. Sarà che metà dei personaggi non si capisce cosa ci stiano a fare. E poi parla sempre con questo tono di “aspetta un attimo che sono seduto sul gabinetto”. Ma soprattutto se sei un negrone invulnerabile e qualcuno ti fa un torto non ci puoi mettere tredici episodi per andare lì e menarlo. Ad Harlem, fra l’altro, dove intanto c’è gente che si spara ovunque per qualunque ragione.
Harlem è l’unica cosa da salvare della serie: la sua atmosfera, i personaggi, la musica, sono riprodotti alla grande. Dopo aver visto Luke Cage sono diventato un drogato di musica nera, dal soul al gangsta rap.

quello a destra è la serie tv, quello a sinistra sono io, come si può intuire dall’espressione

A proposito di rap, ho iniziato a vedere Atlanta, di cui ho letto un bell’articolo sul Post. E dopo due episodi devo dire che promette bene, nonostante le commedie mi attirino poco. I protagonisti sono surreali, finora la musica è solo suggerita, sebbene sia l’argomento principale: è la storia di un rapper in ascesa e di suo cugino che vuole fargli da manager. È ironico senza ammazzarti, tipo Woody Allen per neri.
Il personaggio di Darius è il migliore di tutti, mi sa che seguirei la serie anche solo per lui.

Hanno sempre quello sguardo lì, un po' assente. Fanno tenerezza

Hanno sempre quello sguardo lì, un po’ assente. Fanno tenerezza

Poi ho visto Stranger Things, che mi ha preso, mi ha sbattuto sul divano e non mi ha più fatto alzare finché non è finito, e sia lodata Netflix e il binge-watching.
D’altronde cosa potevo aspettarmi da una serie ambientata negli anni in cui avevo l’età dei protagonisti e abitavo in un posto simile, dove tutto era come viene descritto compreso il mostro che fa versi orrendi, e che noi chiamavamo Riccardo Del Curlo?
Adesso che è passato un po’ di tempo e l’eccitazione da macchina del tempo è calata non mi sento più così entusiasta, credo che altre serie mi abbiano lasciato molto di più. È normale, Stranger Things è un bel prodotto, ma siamo sempre nel campo dell’intrattenimento senza pretese.

Se vi sembra di rivedere i Goonies è perché li state proprio rivedendo, ripuliti e aggiornati. Non che sia un difetto, comunque.

Se vi sembra di rivedere i Goonies è perché li state proprio rivedendo, ripuliti e aggiornati. Non che sia un difetto, comunque.

Dovrei raccontarvi di Better Call Saul, Narcos e Preacher, ma il tempo è tiranno e ho una vita anche fuori da questa pagina, quindi dico un’ultima cosa sul remake di MacGyver e me ne vado.
Ho visto il primo episodio. Ho resistito venti minuti. È una roba da ragazzini, con un insopportabile ragazzino perfettino vanaglorioso saccente di merda per protagonista. E se permettete di insopportabili perfettini vanagloriosi saccenti di merda ci sono già io.