Venerdì 10 agosto.

Stavolta ci riesco, mi alzo in tempo e vado diretto in piazza a vedere il morto. 

In realtà sono indeciso se visitare il mausoleo di Mao, la coda per l’accesso alla piazza sotto questo sole scoraggerebbe un cammello. In alternativa potrei infilarmi al Museo Nazionale: l’ho già visitato la volta scorsa, ma le esibizioni temporanee cambiano spesso, e al momento dovrebbe esserci qualcosa sull’arte primitiva australiana.
Una volta uscito dalla metropolitana realizzo che in ogni caso l’ingresso di entrambe le strutture è al di là della tonnara al posto di controllo, bisogna rassegnarsi.

Fa così caldo che dopo dieci minuti la mia camicia è passata dallo stato solido a quello liquido.
C’è una signora che si infila nella calca per vendere gelati, un’altra bottiglie d’acqua, la terza defibrillatori. Ma solo io sudo così tanto? I cinesi appaiono più rilassati, oppure smadonnano come me, ma nella loro lingua non li so capire.

Una volta superata l’estenuante trafila burocratica vado a vedere come si entra al mausoleo, che oramai sono qui e a dire la verità dell’arte aborigena mi frega pochino.

La coda è lunghissima, e si piega e ripiega su tutta la superficie della piazza. E stiamo parlando di una distesa ampia come la Città del Vaticano. Nonostante la lunghezza sembra scorrevole, le persone all’inizio della fila camminano abbastanza lentamente, ma camminano, e quelle all’estremità opposta vanno molto più veloci. Calcolo mezz’oretta al massimo di attesa. Dai, ce la faccio. Mi inserisco anch’io nel lungo serpentone di questo incredibile rito collettivo.
È pazzesco vedere persone arrivate da ogni angolo della Cina che si mettono in fila sotto il sole per rendere omaggio alla figura che incarna.. boh, il loro ideale? Il loro sogno di un Paese migliore? Lo stato sociale solido in cui vivono? Cos’è che rappresenta Mao per i cinesi, esattamente?

A leggere la sua biografia viene fuori una figura potente, capace di riforme che hanno aiutato la Cina a diventare quel colosso economico che è oggi. Ha combattuto e vinto le guerre interne contro i cospiratori che avrebbero infranto questo suo grande sogno, e per farlo ha compiuto imprese leggendarie, come attraversare a piedi 9600 km in testa alla sua armata, combattendo l’esercito del Kuomintang, per lanciare una controffensiva che si sarebbe rivelata vincente. Ha sconfitto l’analfabetismo, rilanciato l’economia, restituito la terra ai contadini.

Solo che la sua biografia l’ha scritta lo stesso partito che oggi governa il Paese senza elezioni né opposizione, e riduce a silenzio i dissidenti semplicemente facendoli sparire. Perseguendo la stessa politica cinica e violenta adottata dal Grande Timoniere Mao.

Il “Grande balzo in avanti”, la riforma epocale che avrebbe dovuto trasformare la Cina in una potenza economica, provocò la più grande carestia nella storia del Paese, lasciando sul terreno fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda di chi te lo racconta. E quando, in seguito a questo fallimento, il partito decise di estrometterlo dalla carica, Mao lanciò la Grande rivoluzione culturale, un’insurrezione popolare che gli permise di liberarsi di tutti i suoi oppositori politici, e che ebbe, fra gli altri effetti, quello di distruggere gran parte della memoria storica dello stato.

Se oggi visiti una città qualunque della Cina sono pochi gli edifici più vecchi degli anni ’70, considerati in quel periodo che va dal 1966 al 1969 (ma pare che in realtà sia continuato fino alla morte del dittatore, dieci anni più tardi) un “retaggio della borghesia”.

A dirla tutta anche i grandi risultati ottenuti prima di sbarellare vengono considerati modesti, se paragonati a quelli, per esempio, di Taiwan, che è riuscita a ottenere gli stessi risultati senza ammazzare nessuno, o dell’India.

La Cina di Mao, dal 1949 al 1979, ha perso un numero di abitanti che a seconda delle stime varia da 20 a 80 milioni, fra carestie, epurazioni e guerre. I suoi successori hanno portato avanti le stesse politiche repressive, e ad oggi la Cina non può considerarsi un Paese libero né democratico, nelle sue prigioni si pratica ampiamente la tortura e gli attivisti per i diritti umani sono fra le vittime preferite della polizia.

Un centocinquantesimo della coda

Alla luce di queste considerazioni viene da chiedersi che cazzo abbiano i cinesi da riconoscere a questo tizio. Poi mi viene in mente un’altra cosa.

Il tasso di alfabetizzazione totale è di oltre il 96%, le città sono enormi monumenti al progresso, ma se esci dai grossi centri urbani la situazione cambia drasticamente, e non so quanto sia facile per l’abitante di un villaggio dello Xinjiang avere accesso a un’informazione diversa da quella ufficiale. Intendo un abitante di etnia Han, la più diffusa, perché se sei un uiguro non hai accesso a un cazzo di niente tranne giusto un campo di rieducazione.

Quindi tu sei un cinese che vive in qualche città di secondo piano, hai una discreta occupazione che ti permette di tenerti al riparo da sfratti improvvisi e un reddito sufficiente da permetterti qualche viaggio nella capitale. Dal tuo punto di vista la Cina post imperiale era una terra di briganti finché non è arrivato Mao a salvarla, ha cacciato i giapponesi, ha cacciato il kuomintang, ha dato il via a un processo di crescita che ti ha portato oggi a essere la più grande potenza economica al mondo.

E cosa fai, non lo vai a ringraziare uno così?

In effetti i Pechinesi non ci vanno a rendere omaggio a Mao, te ne rendi conto all’imbocco dei sottopassi e agli attraversamenti pedonali, dove stanno i tizi in divisa che gestiscono la fiumana di persone: ci sono sempre gruppetti di turisti che chiedono informazioni, qualcuno che si infila nel sottopasso contromano e fa smadonnare qualche centinaio di locali (sull’incapacità dei cinesi di stare al mondo dovrei aprire un capitolo a parte, ma non lo farò per gentilezza. Ci tornerò spesso,comunque), famiglie di sei sette individui che ciondolano con aria smarrita in mezzo alla piazza. Sono i cinesi di provincia, gli stessi che mi si avvicinano nei luoghi turistici e mi chiedono di fare una foto con loro perché non hanno mai visto un occidentale, perlomeno uno così peloso.

appena prima di entrare

Gli occidentali in coda non li ho visti, giusto una ragazza bionda piuttosto sgamata, che alla seconda curva aveva già superato tutti e si allontanava fendendo la folla. In compenso ogni genere di umanità dagli occhi a mandorla e i vestiti assurdi: durante l’ora e mezza di coda (la mia stima iniziale si è rivelata fin troppo ottimistica) mi sono transitati davanti come su una passerella alla Settimana della Moda Scrausa tizi vestiti da cowboy, magliette in un inglese improbabile, marche italiane taroccatissime, mamme con prole al guinzaglio e una nonna d’assalto che trainava il passeggino col nipote dentro.

A mano a mano che ci si avvicinava all’ingresso il passo si faceva più lento, fino a fermarsi del tutto in prossimità del cancello. Qui siamo stati divisi in due file e invitati a entrare in un piccolo edificio, dove vengono controllati i documenti e ritirate le bottiglie d’acqua. Di lì in avanti sarebbe vietato fare foto, ma almeno fino all’ingresso del mausoleo vero e proprio il massimo che ricevi è un richiamo verbale.

Al di là del recinto sei ancora in coda, e ci resterai fino all’uscita: il pellegrinaggio alla tomba di Mao non prevede soste, stai intruppato nella tua versione ridotta della Lunga Marcia fino alla fine. Lungo l’ultimo tratto del percorso alcuni venditori ti offrono un giglio con cui omaggiare la salma.Costa 3 RMB, 37 centesimi di euro. Molti lo prendono e una volta all’ingresso lo vanno a depositare nella prima sala, su un tavolo che ne è già pieno.

Considerato che sono stati comprati venti metri prima e sono ancora tutti confezionati intatti non mi stupirei se ogni tanto gli inservienti li facessero su e tornassero a venderli a quelli ancora in coda fuori.

Il resto della sala è composto da una statua di Mao benedicente circondata da vasi (quelli no, non li portano i fedeli). Qui fare le foto ti costa molto più di un richiamo: un tizio davanti a me è stato fermato, gli hanno controllato il telefono e cancellato lo scatto incriminato.

appena fuori

Poi si entra nella seconda sala, quella del sarcofago. Due lunghe file scivolano silenziose ai lati della teca di vetro che conserva la salma. La luce è bassa, ma il cadavere è illuminato a sufficienza. Ha la pelle di un colore che non è più quello dei vivi e non è mai diventato quello dei defunti, lucida come quella delle statue di cera. In effetti nessuno ti garantisce che la figura nel sarcofago di vetro sia mai stata viva, né hai modo di capirlo di persona, dato che ci passi parecchio distante e senza poterti neanche fermare. Ma tanto, per quel che mi riguarda, l’unico metodo che conosco per scoprire se un cadavere è vero o di cera è quello di aspettare l’apocalisse zombi e vedere se si risveglia. A quel punto gli spari in testa: se diventa uno zombi lo uccidi di nuovo, sennò gli metti uno stoppino nel buco in fronte e ci fai la candela più invidiata dai vicini.

Cinque minuti dopo sono fuori, sul retro del mausoleo. Davanti a me la porta di Qianmen e diverse bancarelle di souvenirs, che vendono gli stessi prodotti di quelle all’ingresso del santuario di Lourdes, solo con un personaggio diverso.

Per un paio di euri mi faccio una scorta di spillette con la bandiera cinese, la faccia di Mao e tante altre comunistezze su sfondo rosso.

Stanco ma appagato torno a casa, che c’è da chiudere la valigia. Stasera si parte per la Cina più profonda!

Aeroporto di Orio Al Serio.

No, campo profughi di Orio Al Serio. Nella bolgia di persone in attesa del volo delle quattro per Kiev si trovano tutti gli espatriati dell’ex Unione Sovietica, famiglie scappate dal disastro di Chernobyl o dal disfacimento del sogno comunista, ex ragazzini in cerca di un futuro migliore, coppie mezze italiane e mezze ucraine, una massa di persone che ha deciso di tornare in patria per le feste di Natale, da quest’anno ufficializzato tra le feste nazionali anche lì. Insieme a loro parecchi turisti che vogliono sfruttare il cambio favorevole per andare a fare scorta di vodka e rimorchiare le belle ragazze dell’est. E io, che a Kiev mi fermerò solo un paio d’ore prima di imbarcarmi di nuovo, con destinazione l’altra metà del mondo: Pechino. Non sono il solo, a pochi metri dal quadrato di pavimento su cui mi sono accampato in mancanza di una sedia posso vedere due ragazze cinesi che probabilmente ritroverò all’imbarco successivo.

Robert De Niro is not amused

Ho più di un’ora prima che aprano i cancelli, e l’unico bar aperto è gestito da una signora annoiata e poco comunicativa. Non che i prodotti al banco ispirino un qualsivoglia dialogo al di là di “scusi, ma questo panino è vero?”.
Ci sono quattro tavolini al bar dell’aeroporto. Tre sono occupati da un nutrito gruppo di ultraquarantenni assonnati che mugugnano in una lingua dell’Est. La più anziana è una signora che tiene la testa infilata in un colbacco di pelliccia nera alto un palmo. Dev’essere la nonna di Davy Crockett o il nuovo proprietario di qualche squadra di calcio di serie B.

Due uomini fanno avanti e indietro lungo il corridoio strapieno, scavalcando gambe e bagagli. Anche loro indossano un copricapo simile, ma la borsa di pelle frangiata che portano a tracolla, e il grosso pugnale appeso alla cintura, li identificano come appartenenti a una diversa categoria: sono due trappers.
Gli acquitrini intorno alla pista di decollo sono ricchi di castori, e molti cacciatori si spingono fin qui per piazzare le loro trappole. Quando gli dice bene catturano vecchie ucraine proprietarie di squadre di calcio e si arricchiscono vendendone la pelliccia, oppure finiscono sposati a una hostess portoghese coi baffi.

Fuori, nel piazzale, è un viavai incessante di pulmini guidati da africani. Sono gli autisti che fanno il turno di notte ai parcheggi intorno all’aeroporto. Tutti i capannoni da queste parti sono adibiti a posteggio sorvegliato, per una cifra ragionevole hai qualcuno che si prende cura della tua macchina mentre sei a farti i selfie dall’altra parte del mondo, ti porta all’ingresso dell’aeroporto e ti viene a prendere quando torni. E se vuoi te la lava anche.

È il posto ideale dove cercare rifugio in caso di apocalisse zombi: densità di popolazione prossima allo zero tranne all’interno dell’aeroporto, che comunque è cintato, perciò i morti non possono uscire, e una scelta sconfinata di automobili con cui fuggire, tutte posteggiate bene, col pieno e la chiave appesa in guardiola.
Certo, se decidi di scappare non ti conviene recarti al terminal, l’autista che mi ci ha accompagnato mi ha detto che sono stato fortunato a trovare così poco traffico, durante tutto il giorno la corsia d’ingresso è rimasta intasata da chi portava i passeggeri alla partenza, chi li andava a riprendere e chi si fermava a salutarli. Dal parcheggio ci vogliono dieci minuti, ma potevi perderci anche un’ora, bloccato in coda. Me lo tengo a mente per la prossima volta, quando dovrò decidere a che ora mettermi in viaggio.

C’è un grosso centro commerciale di fronte all’aeroporto, comprende diversi negozi, ristoranti, c’è anche un cinema multisala. A partire prima uno potrebbe spendere il suo tempo lì dentro, penso, ma poi mi ricordo che di solito quando vai all’aeroporto ti trascini dietro delle valigie troppo grosse per poterle portare in un cinema, e mi passa la voglia.
Vedi? Un altro punto a favore dell’apocalisse zombi: in quei casi viaggi leggero, ma se anche ti portassi le valigie in sala non si lamenterebbe nessuno.

Smetto di pensare alle cose belle e torno ad affrontare la triste realtà in cui mi trovo: sono nell’atrio dell’aeroporto di Orio, seduto sul pavimento sotto il busto in bronzo di un signore coi baffoni a cui immagino l’intera struttura sia stata dedicata. C’è un gran mucchio di gente ovunque, sento due cani abbaiare e un bambino piangere. Penso che saprei trovare una soluzione a entrambi i problemi, e che ho sonno, odio le persone e voglio andarmene. E non lo so se il busto alle mie spalle è davvero di bronzo, se ha i baffoni, se è il fondatore dell’aeroporto o il sindaco di questo paese, se esiste poi un paese che si chiama Orio Al Serio o se ne sono andati tutti, infastiditi dal rumore degli aerei e dall’avanzare dei capannoni. Se ne saranno andati in aereo? E da dove saranno partiti?

Natali che avercene, al parcheggio

È in questo momento di vuoto mentale che scopro il wi-fi gratuito dell’aeroporto, e la mia percezione del tempo cambia di colpo. Perché ho Netflix sul tablet, e con la lista di roba che ho da vedere potrei fare il giro del mondo tre volte senza scalo.
Sono così preso che quando finalmente aprono l’accesso all’area check-in un po’ mi scazza.

Chi ha costruito l’aeroporto di Orio Al Serio deve aver cercato di imprimere nell’edificio qualche elemento decorativo, perché mentre correvo verso la signorina che avrebbe dovuto imbarcare la mia valigia ho notato delle piante, una colonna, qualche arredo meno anonimo del solito. Ho notato anche dei sarcofagi in cui puoi trascorrere l’attesa del volo dormendo, che non è affatto una cazzata, ma la mia attenzione in quel momento era tutta rivolta verso il nastro dei bagagli, i pensieri tutti al momento in cui avrei superato il controllo dei documenti e sarei stato libero di trotterellare nell’immensa area duty free, così ricca di attrazioni a buon mercato.

Cinque minuti più tardi mi aggiro come un tossico in astinenza lungo una distesa, invero piuttosto limitata, di serrande abbassate. È tutto chiuso, anche il negozio che vende i profumi e il Toblerone.

Che poi perché il Toblerone e non, che ne so, gli ovetti Kinder? Perché questo grosso prisma di cioccolata lo trovi in tutti gli aeroporti del mondo da Orio a New York? Voi conoscete qualcuno che lo mangia, il Toblerone? Lo avete mai comprato, magari al supermercato vicino a casa? Io neanche lo vedo mai, nei supermercati. Lo trovo sempre e solo al duty free dell’aeroporto. Si vede che ne sono ghiotti gli assistenti di volo.

L’unico bar è assaltato dai passeggeri, tenuti a bada da una piccola ragazza dall’aspetto fin troppo rilassato per affrontare il marasma che ha di fronte. Non si affretta neanche, ti fa lo scontrino dell’acqua, mette un panino nella piastra, va a preparare un cappuccino, batte un’altra ricevuta, toglie il panino, mette su un caffè. Non sorride, ma non ha neanche la faccia scazzata che avrebbe un qualunque essere umano nella medesima situazione. È cordiale e asettica. Forse si droga. Provo a guardarle le pupille mentre pago la bottiglietta d’acqua, ma non riesco a trovarle.

Scavalco due nonne ucraine intabarrate in un intero branco di ermellini e torno a sedermi.
Mentre aspetto che il personale di terra inizi le operazioni di imbarco mi godo la tradizionale processione degli ansiosi, un rito di cui si sono perse le origini, ma che è comune in ogni area d’imbarco di ogni aeroporto mondiale, un po’ come i tobleroni.
Si tratta di un’aggregazione spontanea di persone che rifiutano di aspettare sedute il momento dell’imbarco, e preferiscono mettersi in fila anche mezz’ora prima, quando non è neanche arrivato il personale di terra, con la borsa davanti ai piedi e il passaporto in mano.
Forse sperano di velocizzare le operazioni e anticipare la partenza, oppure temono che qualcuno più lesto di loro si freghi il posto nella cappelliera e li obblighi a imbarcare l’enorme bagaglio a mano nella stiva.

Gli ansiosi dell’imbarco sono inizialmente pochi, quattro o cinque, ma la loro presenza in mezzo all’area è come un richiamo per gli altri passeggeri ad agire, ad abbandonare la loro dissolutezza e alzarsi in piedi, sentinelle silenziose di una vita più virtuosa, ma senza le menate sui valori cattolici.
In breve qualcuno si lascia contagiare dal loro magnetismo e si unisce alla causa, e più la fila si allunga più il suo richiamo si rafforza, e l’ansia si diffonde più densa; diventa difficile ignorarla, è come la puzza delle ascelle. Se rimani seduto vedi la fila lambirti i piedi, ti senti addosso lo sguardo accusatore di chi ha già sacrificato il proprio posto per una causa più alta, e il tuo sedile diventa duro, spigoloso, comincia a pruderti dappertutto.
Pochi minuti, e dove prima c’era una folla di persone sedute ad aspettare ora un lungo biscione si snoda fra i sedili deserti. Solo alcuni impavidi resistono, chiaramente dei provocatori, schifati dalla massa compatta delle fiere sentinelle. Nessuno viola il tacito accordo che è stato sancito unendosi al gruppo: non ci si siede se non a bordo, quei sedili vuoti che sfioriamo con la valigia non devono indurre in tentazione; se ti arrendi e ti siedi perdi il posto e dovrai ricominciare dal fondo.

Io sto seduto per un po’ a farmi gli affari miei, poi quando finisce l’episodio che stavo guardando mi caccio un po’ di musica nelle orecchie e mi alzo, entro nella coda da dove mi trovo in quel momento, passando davanti ad almeno una ventina di persone. Non ci penso neanche ad andarmi a mettere in fondo, non ho stipulato nessun tacito accordo, quando gli altri passeggeri si scambiavano lo sguardo d’intesa segreto stavo guardando Mindhunter. Forse quello dietro di me s’incazza e mugugna, non lo so, sto ascoltando un pezzo divertente, ballo anche un po’. Perché sto andando dall’altra parte del mondo e sono felice.

(continua)

Scrivo queste poche righe per ricordare a me stesso, negli anni che verranno, che oggi ha cominciato a nevicare. Perché non ho voglia di trovarmi l’anno prossimo a discutere su quando sia stata la prima nevicata l’anno scorso, che uno dice a natale, l’altro dice di ottobre e non ci si trova mai d’accordo. La prima nevicata del duemiladieci è caduta il ventotto novembre, punto.
Che poi in realtà ha cominciato ieri, ma era proprio una spruzzata, e comunque ormai ho detto il ventotto e basta.
La mia fidanzata non si capacita di come si possa perdere tempo ad appuntarsi cose inutili come la prima nevicata, sostiene che l’anno prossimo potremmo anche non esserci più, magari il mondo è..

 

 

..Magari il mondo è stato colpito da un meteorite grosso come un’anguria, che non ha causato alcun danno, come succede tutti i giorni, che sassi spaziali anche più grossi ne cadono di continuo e finiscono per disintegrarsi nell’atmosfera, ma stavolta questo portava dentro di sé una novità, ed è per questa ragione che lo si ricorda.
Un virus sconosciuto, proveniente da chissà dove, si annidava nel cuore del meteorite, e quando questo si è incendiato a contatto con l’atmosfera non è stato consumato del tutto, ma ha raggiunto la superficie terrestre e si è disintegrato, liberando il suo ospite alieno.
Doveva essere un virus molto socievole, perché ha subito trovato con chi legare, mutando in una specie nuova contro la quale non esisteva alcun anticorpo in natura. Una febbre, un raffreddore, niente di mortale, ci mancherebbe, sennò magari ci si sarebbe mobilitati subito per isolarlo; una cosa talmente innocua che neanche si è notata, confusa in mezzo ai malanni di stagione.

Il nostro piccolo extraterrestre aveva però una gran personalità, e l’ha tirata fuori nel momento in cui è andato a colpire un vecchietto, che un momento prima era in giardino a potare la siepe e quello dopo stava a letto con la febbre alta, la tosse e il naso che colava. Anche una semplice influenza può uccidere un anziano senza più difese, e così è successo, il povero giardiniere ha smesso di respirare, la famiglia si è stretta nel cordoglio, gli amici sono venuti a vedere la salma e si è organizzata una sepoltura dignitosa. Senonché.

Senonché, nel bel mezzo della veglia funebre il cadavere ha emesso un rantolo. Qualcuno ha gridato di terrore, qualcuno di stupore e qualcuno anche di gioia, che il nonno non è morto, quella vecchia pellaccia è ancora fra noi, maledetti i medici incapaci, pensa cosa sarebbe successo se l’avessimo seppellito, ah ma io li denuncio, presto presto aiutatemi a tirarlo su, chiamate un dottore!
Il nonno ha emesso un altro rantolo, ha aperto gli occhi e si è messo seduto. È sceso dal lettino, e subito la figlia è accorsa ad aiutarlo, lo ha preso sottobraccio, gli ha detto “eccomi papà!”.
Il nonno l’ha azzannata alla gola.

Cercare di capire cosa stesse succedendo dentro la cappella funeraria non era facile, per chi si fosse trovato a passare lì davanti. Sedie trascinate, scalpiccio di piedi, urla di terrore, lamenti, si sarebbe detta quella volta in cui al Cineclub Truffaut si sono sbagliati e hanno proiettato il cinepanettone dei Vanzina, ma questo è un funerale, santo cielo, cosa ci può essere di terrificante in un funerale?

La risposta arriva quando dalla porta scappa fuori una donna insanguinata che si tiene un braccio, e dietro di lei, arrancando giù per i gradini, il resto dei partecipanti al funerale, nonno in testa, tutti imbrattati di viscere e sangue, privi di qualche arto, a volte mozzati della parte di sotto, ma ancora in grado di trascinarsi.

È stato il nostro piccolo virus, è mutato in una maniera che nessuno si aspettava, e adesso è in grado di risvegliare i morti, che possono tornare dalla tomba per mangiarsi i parenti e trasmettere l’infezione.
Neanche un mese più tardi il mondo è al collasso, i morti viventi sono ovunque, i governi non sono stati capaci di affrontare il problema, e come potevano, e si sono disintegrati. Caos, anarchia, sciacallaggio, violenza spietata, come in uno di quei film che mi piacciono tanto c’è chi si arrangia e chi soccombe, e il mondo non sarà più come lo ricordavamo.

E io?
Beh, per cominciare la cosa ha preso campo lentamente, ma il mio capo ha detto che la nostra ditta era sicura e ci ha imposto di continuare ad andare a lavorare. “Siamo isolati da un fiume, c’è un unico ponte che ci collega con la strada, e un grosso cancello a chiudere fuori quegli zombi. Qui siamo al sicuro, non avete scuse per starvene a casa. Su, al lavoro!”

Con quella scusa è riuscito a tenerci chiusi dentro per due settimane, lavorando tredici ore al giorno come schiavi, mentre i morti si accalcavano davanti al cancello e allungavano le braccia fra le sbarre come le scimmie allo zoo.
Un giorno abbiamo chiesto quando sarebbe arrivato lo stipendio, e il capo ha scrollato le spalle: “Ho provato a chiamare la banca, ma devono essere morti tutti.”
Niente stipendio, quindi. Non l’abbiamo presa bene, lo abbiamo tirato su due davanti e due di dietro e lo abbiamo buttato di là, in pasto agli zombi, poi siamo saliti in macchina, abbiamo attivato l’apertura automatica del cancello e ce ne siamo tornati ognuno alle proprie abitazioni.

Non so se i miei colleghi ce l’abbiano fatta, ma per me è stata dura. La strada era invasa da macchine bruciate, cadaveri mezzi putrefatti che ciondolavano qua e là, nessuno che sembrasse più in grado di pensare. Lo so che raccontata così sembra la descrizione di un reality show, ma per un momento ho creduto di impazzire: la civiltà era scomparsa, il mio paese era invaso da mostri, dovevo lottare per sopravvivere e non potevo sperare che qualcuno arrivasse a salvarmi perché non c’era più nessuno in grado di farlo. Sembrava di essere in un comune amministrato dalla lega.

Sono arrivato a casa in preda ai pensieri più foschi, ma la situazione era migliore di quanto osassi sperare, il cancello e le scale avevano impedito ai morti di invadere il giardino, la mia fidanzata era seduta in cucina a giocare col computer e appena mi ha visto mi ha spedito a fare la spesa all’iper.

“Ma ci sono gli zombi all’iper, non l’hai visto il film di Romero? I centri commerciali sono il primo posto da evitare, seguiti dai bunker militari e dalla Camera Dei Deputati!”
“Oddio, sono entrati anche alla Camera?”
“No, gliel’hanno impedito i deputati di vecchia nomina, si sono battuti come leoni per non dover abbandonare le poltrone. Ilgoverno è ancora in piedi, guarda!”

Le ho mostrato una busta che ho trovato nella cassetta della posta. Era una bolletta della spazzatura, ci chiedevano di pagare un’enormità perché lo smaltimento dei morti viventi aveva richiesto delle spese impreviste che neanche a Napoli.

“Ma com’è possibile che ci siano delle spese così alte?”
“Dice Calderoli che i morti del sud non devono essere seppelliti a nord, che lui gli zombi terroni non li vuole, così hanno stanziato dei miliardi per costruire zombinceneritori da Roma in giù ed eliminare i morti sul posto, solo che i soldi sono stati dirottati chissà dove e ci troviamo tutta la penisola piena di spazzatura affamata di carne.”

Come succede sempre quando parliamo di politica la mia fidanzata si è inalberata e ha cominciato a inveire contro il governobastardo, lasciandomi libero di sedermi al computer e giocare ai videogiochi.
Lentamente la situazione si è normalizzata, gli zombi non sono scomparsi, ma le persone si sono abituate alla loro presenza e hanno ripreso a vivere più o meno normalmente. Li incontri per la strada, ti vengono incontro a braccia tese come dei parenti che non vedi da anni, ma non ti fai fregare e ti volti dall’altra parte, anni di allenamento a evitare i mendicanti non sono andati perduti. Stessa cosa ai semafori, chiudi il finestrino, alzi il volume dell’autoradio e pianti lo sguardo sulla luce rossa, e neanche li senti più i colpi contro il vetro.
Ogni tanto qualcuno si fa sbranare e una parte della politica attacca a strepitare di “emergenza zombi”, quelli col fazzoletto verde dicono che bisogna rimandarli a casa loro, dimenticando che a casa loro ci sono già, la parte avversa sostiene che anche gli zombi sono cittadini come noi e chiede di estendere il diritto di voto ai morti da non più di un anno. La chiesa li difende a parole, li chiama figli di dio, ma proibisce i rapporti sessuali fra vivi e morti (si è depenalizzata la necrofilia dopo che il presidente del consiglio è stato beccato a un festino in una scuola media infestata di zombi) e non vede bene neanche chi ci va a convivere (le cosiddette “coppie di sfatto”).
Chiusi nelle proprie case, individui comuni che sognano un’Italia migliore, lanciano messaggi nel cosmo, sperando che almeno un’invasione aliena li liberi da quest’apocalisse.