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Paradise Island, spiaggia di sabbia bianca, acqua così limpida che non la vedi, palme fin dove riesci a guardare. Stese ad asciugare al sole sui loro asciugamani, alcune donne in bikini dirigono a gesti una truppa di camerieri eleganti con vassoi carichi di bibite alla frutta.

In mezzo a questo paesaggio da cartolina, un uomo si aggira per la spiaggia: ha i capelli spettinati, indossa una camicia bianca e un paio di scarpe eleganti, che si toglie ogni tre o quattro passi per svuotarle dalla sabbia. Suda tantissimo.

Sono io, naturalmente.

Camminare per la spiaggia di Nassau mi ha fatto capire per l’ennesima volta come io e il mare non siamo davvero compatibili. Fa caldo, si suda, non so indossare le scarpe adatte, mi scotto subito e non so mai cosa fare. Ho fatto avanti e indietro tutta la superficie dei Bagni Miramare di Nassau, ma di tizi con la cicatrice sulla faccia non ce n’erano, solo una profusione di culi scolpiti che mi ha fatto sentire scomodo nelle mutande.

Sono andato al bar della spiaggia, e ho mostrato la foto del tizio con la cicatrice al barista. Non ha telefonato a nessuno né adottato comportamenti sospetti, si è limitato a scuotere la testa e mi ha allungato un bicchiere con dentro un ombrellino.

“Potevi almeno metterci dentro qualcosa di liquido”, gli ho detto, succhiando lo stecchino di legno, ma lui parlava solo Bahamense, che somiglia tantissimo all’inglese, se solo fossi in grado di capire almeno quella lingua.

Ochei, la mia ricerca del tizio sfregiato poteva dirsi terminata, non avevo altre tracce da seguire. Tanto valeva prendermi una vacanza. Ho chiesto al barista se aveva un telo da spiaggia da imprestarmi, e magari un paio di infradito e della crema solare, ma lui non ha capito e mi ha passato un altro bicchiere vuoto con dentro un ombrellino. “Potresti metterci almeno del ghiaccio?”

È arrivata una ragazza mora, coi capelli corti e gli occhi nerissimi. Era giovane, camminava col passo morbido ed elastico di un predatore nella savana. Il costume che portava addosso era piccolissimo, doveva averlo tolto a una delle sue Barbie, e le sue forme generose bramavano libertà. Tutti si sono voltati a guardarla, ma era così attraente che tutti si sarebbero girati a guardarla anche se avesse indossato un cappotto rosso, un paio di scarpe da clown, e un cappello a cilindro con un gatto aggrappato sopra.

Si è appoggiata al banco come se fosse stato il gesto per cui era venuta al mondo, e ha chiamato il barista Hubert. Lui le ha preparato un bicchiere pieno di ghiaccio, foglie di menta e un paio di liquori diversi, che ha infine guarnito con una fetta di arancia.

Non sapevo che il barista si chiamasse Hubert, forse era per quello che a me continuava a portare bicchieri vuoti. Ho provato a chiamarlo Hubert anch’io, e lui è arrivato a chiedermi cosa volessi.

“Ne vorrei uno uguale”, gli ho detto, indicando la ragazza.

Mi ha allungato un altro bicchiere vuoto con dentro un ombrellino. Ma cosa cazzo!

La ragazza ha riso, mi ha chiesto where I was from, le ho detto quello che stai bevendo tu, bellezza.

I don’t speak italian, mi ha detto lei, e io le ho risposto ah sei italiana pure tu? Hai un accento strano, di dove sei, di Foggia? E mi sono avvicinato, come farebbe qualunque uomo italiano che all’estero perde tutte le inibizioni e ci prova perfino con quelle a forma di deumidificatore Beghelli.

“Come faccio a ordinare un bicchiere come il tuo?”, le ho chiesto con la voce di Francesco Prando quando doppia Daniel Craig quando guarda una donna dritta negli occhi e sai che sta per cacciarle la lingua così profondamente in gola che speri che si sia fatta il bidè.

“Come ti chiami?”, mi ha faticosamente chiesto in una lingua a me comprensibile.

“Pablo”, le ha risposto il gabinetto di guerra riunitosi in fretta dentro le mie mutande. “E tu?”

“Baby”, mi ha risposto. “Baby Fuckmerightintheass”.

Per mostrare che avevo capito le ho detto “Nessuno mette Baby in un angolo”, ma forse era troppo giovane per avere visto Dirty Dancing. Ha fatto un cenno al barista, che mi ha finalmente allungato un bicchiere pieno. “Ci ho messo anche l’ombrellino”, mi ha detto mentre me lo porgeva.

Baby dal cognome impossibile da ricordare mi ha preso per mano e portato sotto il suo ombrellone, dove c’erano due sdraio libere.

Accanto al palo una borsa da spiaggia da cui spuntavano creme abbronzanti, spazzole, una pistola e tutto quell’armamentario che di solito una ragazza ama portarsi dietro in queste occasioni.

Ha fatto un cenno, e il barista Hubert si è palesato con un dizionario inglese-italiano. Lei ha iniziato a parlargli in inglese, e lui a tradurmelo.

“Cosa ci fa a Nassau un bell’uomo come te? Sei qui per affari?”, mi ha detto Hubert con la stessa voce languida della mia nuova amica.

“Sto cercando un uomo con una cicatrice sull’occhio”, gli ho risposto.

“Non avevo capito che ti interessavano gli uomini”, mi ha detto Hubert, e poi mi ha fatto l’occhiolino.

“Solo per lavoro. Sono un agente segreto, e lui è il mio obiettivo.”

Qui Hubert non deve aver tradotto proprio parola per parola, perchè Baby mi ha guardato schifata, poi si è alzata e se n’è andata via.

“Sei un coglione”, mi ha detto poi il barista, pescando con cura ogni parola dal vocabolario.

“No, tu sei un coglione! L’hai fatta andare via! Come barista fai schifo, con sta cazzo di ossessione per gli ombrellini, e non sei bravo neanche come interprete!”

“Gli ombrellini dovevi leggerli, non buttarli via: contenevano dei messaggi in codice. Sono un agente segreto anch’io, e quella ragazza lavora per Blofeld, ed è stata incaricata di ucciderti!”

Ancora questa parola, blofeld. Ho provato a cercarla su google, e mi è comparsa la faccia del tizio con la cicatrice sull’occhio. A quanto pareva blofeld non era una parola straniera, ma il suo nome: Hans Stavro Blofeld, capo di un’organizzazione malvagia chiamata Spectre snc che ha per obiettivo conquistare il mondo. Era iscritta al registro delle imprese di Dubai, dove godeva di importanti agevolazioni fiscali, quindi mi aspettava un altro viaggio dall’altra parte del mondo.

“Ti conviene andartene subito”, mi ha detto Hubert, “Per adesso sono riuscito ad allontanarla facendole credere che sei solo un innocuo idiota, ma se capisce che sei davvero un agente cercherà di eliminarti. Nessuno può avvicinarsi a Blof..” ed è stramazzato sulla sabbia, con la bocca piena di sangue.

La pistola nella mano dell’ombrellone fumava ancora. E adesso che si stava tirando fuori dalla sabbia potevo vedere chiaramente che aveva le gambe, e anche una faccia!

Non potevo essere così sfortunato! Chiunque si pizzica le dita col meccanismo dell’ombrellone, ma solo a me ne è capitato uno che cerca di uccidermi!

Sono corso via, ma devo avere preso la direzione sbagliata, perché la spiaggia è finita ed è cominciata l’acqua. Non potevo mica scappare a nuoto fino a Miami, non erano ancora passate tre ore da che avevo finito di mangiare.

Un gruppo di ragazzini stava spingendo in acqua un pedalò bianco e giallo, mi ci sono avventato contro e li ho spinti via, poi sono balzato sul potente mezzo di trasporto e ho pedalato verso la libertà, con una grinta che se non mi hanno fatto l’antidoping è solo perché a quell’ora faceva troppo caldo per mettersi ad assaggiare le urine di qualcuno. L’ombrellone assassino ha agguantato il pedalò accanto e si è gettato al mio inseguimento.

Il mio avversario non era un novellino, si vedeva da come prendeva le onde di punta e approfittava della fase discendente per garantirsi una maggiore propulsione, ma non mi aveva ancora preso. Anch’io conoscevo qualche trucchetto, ed era venuto il momento di tirarlo fuori.

“Aiutooo! Bagninooo!!”, mi sono messo a gridare.

Non ha funzionato, chiaramente gli ombrelloni assassini non rispondono alle stesse leggi degli esseri umani, e i bicipiti coperti di tatuaggi tribali degli omaccioni in maglietta non rappresentano alcun deterrente alla loro malvagità. Ha aumentato l’andatura e mi si è accostato, cercando di prendermi di mira con la sua pistola.

“Cos’è quello, uno squalo?”, gli ho gridato, indicando il mare alle sue spalle.

“Ma no, sarà un tonno”, mi ha risposto. “Ce ne sono un sacco da queste parti”.

Era scaltro, e stavo finendo i trucchi. Mi restava solo una cosa da fare, cercare di buttarlo fuoribordo con una manovra disperata. Ho puntato il pedalò verso una di quelle piattaforme dove gli adulti amano rilassarsi a prendere il sole, e i ragazzini fare i tuffi a bomba, ragione per cui sono quasi sempre piene di gente che litiga oppure vuote, e ho preso velocità. Il pedalò si è schiantato contro la piattaforma, e quello del mio inseguitore lo ha tamponato. Siamo stati catapultati entrambi fuori bordo, ma mentre io terminavo la mia corsa in mare, l’ombrellone è finito di testa sui sedili posteriori della mia barca. Ho nuotato agilmente verso la riva, mentre il proprietario dei pedalò sopraggiungeva a bordo di un motoscafo, pronto a consegnare alla giustizia il responsabile di quel macello.

Sono uscito dall’acqua asciutto, con l’abito stirato e i capelli pettinati, perché alla fine questa è pur sempre una storia di 007, e mi sono allontanato, alla ricerca di un barista meno stronzo e di un buon mojito.

Dieci minuti dopo ero di nuovo lo stesso uomo a pezzi dell’inizio di questa storia. Era ora di andarsene.

(continua)

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2.
Sei sette ore solo per trovare la porta del bagno in una stanza così grande che ti sembra di stare in terrazza, dico, l’appartamento dove vivo è più piccolo; poi un paio d’ore di doccia mi pare il minimo se ti mettono a disposizione l’idromassaggio, la sauna, le cremine purificanti a base di essenza di lacrime di panda, un foro nella parete ad altezza lombare che non ho capito bene a cosa servisse e la tazza autoriscaldante per rilassarti l’intestino con calma mentre giochi a Tetris (incluso in un tablet di ultima generazione lì accanto).

Quando sono sceso nella hall era praticamente ora di cena, le incombenze da agente segreto avrebbero dovuto aspettare.

La signorina alla reception non era la stessa di quando sono arrivato, questa era un po’ meno attraente, ma sempre nei termini della bellezza sfacciata che se mi prometti di venire a rimboccarmi le coperte dormo anche sul pavimento di fronte all’ascensore, e difatti quando, alla mia domanda su un ristorante nei paraggi, lei mi ha sorriso e ha indagato quali fossero le mie preferenze, invece di cucina locale ho risposto etero.

Senza smettere di sorridere, mi ha allungato un appunto, redatto a penna dalle sue dita eleganti. Non si capiva un cazzo. Senza smettere di sorridere mi ha spiegato che qualcuno aveva lasciato un messaggio per me, non riuscendo a raggiungermi al telefono in camera.

Ecco perché stava squillando il telefono! Credevo di avere di nuovo attivato l’allarme quando ho tirato la cordicella accanto al gabinetto.

Era un certo Leslie Chow, che mi invitava a raggiungerlo presso il casinò The Venetian, dove mi avrebbe passato certe informazioni interessanti.

Boh, vabbè, tanto non avevo nient’altro da fare. Ho chiesto a Ritz Carlton di chiamarmi un taxi e sono andato.

Il Venetian Casino è una pacchianata pazzesca di edifici che ricostruiscono un pezzo di Venezia, compreso il canale con le gondole, il ponte di Rialto e il campanile di San Marco. Enorme.

Un cameriere tiratissimo mi ha accompagnato al tavolo del poker, e mi ha indicato il mio ospite.

Era un asiatico bassetto, sulla quarantina, in pantaloni bianchi e giubbotto di pelle giallo, da cui spuntava una maglietta bianca. Nonostante fossimo al chiuso, sfoggiava un paio di grandi occhiali da sole. Ma chi sono io per giudicare una persona da come si veste, forse aveva appena smontato dal suo lavoro presso il Grissinificio Macao, e più tardi doveva raggiungere la cumpa a una festa a tema anni ’90. Di sicuro doveva farsi un sacco di lampade, perché aveva la stessa abbronzatura di mia sorella quando torna dalle vacanze.

“Mr.Delbruck, o forse dovrei chiamarla agente Pablon? La prego, si unisca a noi, sto giocando la mia partita fortunata, sarebbe un delitto interrompere, non crede?”

Con eleganza mi sono accomodato al tavolo e ho allungato i cinque euri al cameriere perché andasse a cambiarmeli in gettoni.

“Conosce già le regole?”, mi ha chiesto la croupiera. O si dice croupieressa? Croupier donna mi pare un po’ troppo rigido, poi qualcuno si offende ed è un attimo che finisco a fare compagnia a Harvey Weinstein nella lista dei cattivi di qualche organizzazione neofemminista, che di questi tempi il politicamente corretto ha preso il controllo dei centri di comunicazione e devi stare attento anche a dove metti le virgole. Siccome non avevo ancora cenato e mi stava venendo fame ho optato per croupiera, che mi ricorda il formaggio.

“Conosce già le regole?”, mi ha chiesto la croupiera.
“Certo, mi sono allenato per anni giocando a strip poker contro il computer, nella solitudine della mia cameretta”.

“Hahahaha!”, ha riso sonoramente un signore dalla pelle scura che aveva addosso più drappi colorati di un negozio di tendaggi.

“Hahahahahaha!”, ha riso ancora più sonoramente una signora magrissima e bellissima con degli occhi azzurro ghiaccio che l’hanno identificata immediatamente con lo stereotipo della miliardaria russa senz’anima con cui sarei dovuto finire a letto per poi rischiare di essere pugnalato col coltello da caviale durante l’amplesso ma che all’ultimo momento si innamora di me e mi rivela il nome del suo mandante per poi piantarsi il coltello nel cuore, sopraffatta dal dolore della propria gelida esistenza.

“Hahahahahahahaha!”, ha riso più sonoramente di tutti Mr.Chow, come si poteva capire dalla sequenza di haha. “Lei è un tipo simpatico, Mr.Pablon! Vediamo se è altrettanto bravo!”

La croupiera ci ha passato due carte ciascuno, e ne ha stese tre sul tavolo. “Principe T’Challa, è il suo turno”, ha detto al cosplayer di una tappezzeria. Lui ha allungato una manciata di gettoni davanti a sé, senza dire niente. Mr.Chow ha detto “call”, e ha allungato i suoi gettoni. La modella senza cuore ha detto “raise” e ha messo i suoi gettoni. Io visto che tutti mi guardavano ho ritenuto doveroso dire qualcosa, ma non sapevo bene cosa, così ho chiesto se si poteva avere qualcosa da sgranocchiare, e il cameriere che evidentemente stava in agguato alle mie spalle mi ha allungato una ciotola di arachidi. Vabbè, ma che barbonata, neanche due olive mi date? Forse avrei dovuto ordinare anche da mangiare, nei bar di Genova funziona così, se vuoi mangiare ordini da bere e dici “vorrei fare aperitivo”, e il cameriere torna sei sette volte al tavolo e ti porta qualunque cosa, da una cesta di focaccia a un piatto di pastasciutta. Tranne al Bar Fico Frontemare, dove la cameriera ti guarda e non capisce e poi ti porta lo stesso piattino di arachidi che mi sono trovato davanti quella sera. Solo che lei lo toglie dal tavolino di fianco, e devi scegliere solo le arachidi ancora asciutte, perché quelle umidine sono senza sale.

“Quindi?”, mi ha chiesto la croupiera.

“Si può avere un mojito?”, ho chiesto, e il cameriere appollaiato allo schienale della mia sedia mi ha detto che la menta era finita, spiacente. Ma se volevo poteva portarmi un vodka martini agitato e non mescolato, ne avevano appena ordinato uno al tavolo vicino, ma il cliente era appena stato freddato da un colpo di pistola col silenziatore.

“No vabbè, un succo di frutta all’ananas, per favore”.

Il resto del tavolo stava mostrando segni di impazienza, ho messo sul tavolo l’unico gettone che avevo e ho detto “all in”, come si dice in questi casi. Allora anche gli altri giocatori hanno messo i loro gettoni, e il centro del tavolo si è riempito con un gran mucchio di gettoni colorati che facevano allegria, ed erano così tanti che la croupiera ha dovuto spostare da una parte il centrino di pizzo della nonna e il vaso di fiori.

A turno abbiamo scoperto le carte, ed è venuto fuori che la combinazione migliore ce l’avevo io, anche se a me sembrava di no, perché che combinazione vuoi che ci esca con un re e una donna di cuori? Oltretutto nove, dieci e jack dello stesso seme le aveva la croupiera, avrebbe dovuto vincere lei, no?

Mi hanno dato un mucchio di pezzi di plastica, non ho detto niente per non metterli in imbarazzo, e me ne sono andato alla cassa a cambiarli.

“Solo un momento”, mi ha detto Mr.Chow, seguendomi.

Ah già, dovevo parlare con questo tizio. Se voleva offrirmi di comprare dei bitcoin gli avrei lasciato la mia email e gli avrei detto di parlare col mio filtro antispam, non avevo voglia di pipponi su investimenti sicuri prima di cena.

“Immagino che avrà fame”, mi ha detto, leggendomi nel pensiero. “Ho la macchina qui fuori, venga, l’accompagno nel migliore ristorante di Macao”.

Siamo entrati in una macchina sportiva così bassa che per raggiungere il sedile del passeggero ho sceso un paio di scalini, e siamo scappati via rombando.

“Carina, ne ho anch’io una simile”, ho mentito, per tirarmela.

Il ristorante doveva essere davvero esclusivo, perché siamo usciti dalla città e abbiamo preso uno sterrato.

“Ah è un agriturismo?”, ho chiesto.

“Hahahahahahahahahaha”, ha riso il signor Chow, poi ha fermato la macchina e mi ha puntato addosso una pistola.

“Perché la polizia inglese vuole Blofeld?”, mi ha chiesto.

“Scusa, non parlo cinese. Cos’è un blofeld? Dovrò cercarlo su google.”

“Muori, dannata spia!”, ha detto il signor Chow, ma l’ha detto in cinese e non l’ho capito, e poi proprio in quel momento mi sono ricordato di avere lasciato il cellulare in camera, e mi sono portato la mano alla fronte per far capire al mio ospite quanto sono distratto, nel linguaggio universale dei gesti che ha reso gli italiani così popolari nel mondo.

Gli ho urtato la mano che reggeva la pistola, e il parabrezza è esploso all’improvviso, entrambi gli airbag si sono gonfiati, il signor Chow ha perso la presa della pistola, e nel tentativo di riacchiapparla al volo se l’è fatta saltare fra le dita, finendo col premere il grilletto mentre la canna era rivolta verso la sua faccia.

Per fortuna l’airbag mi stava schiacciando contro il sedile, sennò mi sarei tutto impiastrato di sangue di signor Chow. C’era anche della roba nera che non voglio sapere cosa fosse perché mi viene già da vomitare così. Mi sono arrampicato fuori dalla macchina, ma dove vuoi andare, stavo in Cina in mezzo a una strada sterrata fuori dal centro abitato insieme a un morto seduto senza faccia dentro una macchina sportiva che prima di essere guidata di nuovo avrebbe avuto bisogno di una bella ripulita. E non avevo il cellulare.

Aspetta, lui magari ce l’aveva, mi sono detto. Ho girato intorno alla macchina e ho aperto la portiera del guidatore. Il corpo incastrato fra il sedile e l’airbag era così pieno di sangue e roba nera (non pensare al cervello sennò vomiti) che se anche avessi avuto il coraggio di tirarlo fuori (ma scherzi è tutto sporco di sangue cervello cervello oddio è cervello quello) mi sarebbe sgusciato dalle dita (cervello sulle maniii!!).

Mi sono appoggiato alla portiera aperta e mi sono vomitato le noccioline sulle scarpe. Per fortuna me ne avevano portate poche, magari sarebbe bastato sciacquarle.

Dopo mi sentivo meglio, ho tirato il giubbotto del signor Chow, che per fortuna era aperto, e ho infilato una mano nel taschino interno. C’era il suo cellulare, che per fortuna era dotato di sblocco tramite impronta, perché il riconoscimento facciale era da escludere.

Ho aperto il motore di ricerca Baidu e ho digitato “Salvatore Aranzulla come impostare lingua italiana su un telefono cinese”, poi ho chiamato un taxi e mi sono fatto recuperare un centinaio di metri più indietro dalla macchina.

Risolve davvero qualsiasi problema!

Già che mi trovavo in un Paese dove si paga tutto col cellulare ne ho approfittato e mi sono fatto portare al miglior ristorante della città, poi sono andato in un negozio di abbigliamento e mi sono rifatto il guardaroba, scegliendo solo gli abiti che costavano di più. Le scarpe le hanno buttate via, pare che non sarebbe bastato sciacquarle.

Più tardi sono tornato in hotel, e c’era ancora la signorina un po’ meno bellissima dell’altra, e stava ancora sorridendo. Ho cominciato a pensare che avesse una paresi.

Si è stupita di vedermi arrivare, ed è corsa al telefono, ma anch’io mi sarei stupito a vedere uno che qualche ora prima è uscito dal mio hotel vestito con la maglietta degli Snorky e adesso ritorna tirato come il più figo degli attori di Hollywood, sprizzando testosterone come la fontana di De Ferrari. Di certo si è precipitata a chiamare la sua migliore amica per dirle che nell’albergo dove lavora è appena entrato George Clooney, e quella le ha chiesto chi? E lei ha detto Qiáozhì Kèlǔní, e l’altra ha detto aah, George Clooney, che è il motivo per cui quando mia moglie mi nomina qualche attore americano io non ho mai idea di chi stia parlando.

In camera mi sono messo a studiare il telefono del fu signor Chow, per vedere se trovavo qualche giochino per passare la serata, dato che la tele trasmetteva solo canali cinesi e il mio telefono in Cina non aveva l’accesso a internet.

Non c’era niente, e nelle foto neanche qualche immagine di ragazze nude. Però ce n’era una del signor Chow insieme al tizio con la cicatrice sull’occhio. Erano su una spiaggia e si facevano un selfie davanti alle palme. Il signor Chow indossava una maglietta con scritto My super evil boss went to Nassau and all I got was this lousy t-shirt. Si vedeva sullo sfondo la prua di una barca che aveva scritto sulla chiglia Bagni Miramare – Salvataggio.

Ho telefonato alla signorina della reception e le ho chiesto di chiamarmi un taxi, dovevo prendere il primo volo per Nassau. Mi ha risposto sorridendo.

(continua)

Mentre il mondo si è fermato e ci sembra di stare vivendo tutti in una grossa bolla immobile in cui le giornate si susseguono identiche le une alle altre, le vite di ciascuno di noi, ognuna nel proprio piccolo spazio, vanno avanti lo stesso, ogni giorno, sempre alla stessa velocità, e magari proprio a causa di questa grossa bolla cambiano improvvisamente direzione e magari si schiantano, e bisogna essere fortunati per poter uscire vivi dai resti dell’incidente.

È successo a me, non più tardi di un mese fa: mentre il mondo si prendeva una lunga pausa di riflessione, la mia vita ha subito una svolta radicale, e sono stato licenziato.

Non entro nel merito della questione, troppo lunga e complicata, e se non fai parte di quel piccolo spazio che la mia vita occupa all’interno della grossa bolla, neanche interessante.

Non mi sono perso d’animo, quando dicono che per ogni porta che si chiude c’è un portone che si apre da qualche parte, devono avere ragione. Basta sapere dove trovare il portone.

Ci sono un sacco di opportunità da cogliere, se non hai l’obbligo di presentarti al lavoro tutte le mattine cinque giorni su sette, e mi è sembrato il momento giusto per coglierle.

Il mio primo gesto per approfittare di questo cambiamento e cadere in piedi, è stato di cercarmi un altro lavoro. Certo, mica sono stronzo: va bene gli obblighi, ma se voglio continuare a mangiare ho bisogno di uno stipendio.

Stavolta, per cambiare, mi sono dato delle regole: il nuovo lavoro avrebbe dovuto garantirmi molto tempo libero, mi avrebbe permesso di viaggiare e di sfruttare la mia buona conoscenza delle lingue.

E avrebbe dovuto essere eccitante, e farmi sentire un figo.

Ho elencato le mie richieste alla signorina dell’agenzia di collocamento, che le ha inserite in un computer, poi ha pigiato un tasto e sullo schermo è apparsa un’inserzione interessante: agente segreto presso il servizio segreto britannico.

Cioè, io non l’ho vista di persona che pigiava sui tasti e compariva la scritta, non so se vi ricordate che c’è il coronavirus e se ti vedono uscire di casa ti tirano le madonne dal terrazzo, ma sono sicuro che ha eseguito queste operazioni perché la sentivo battere sui tasti.

Doveva avere una tastiera meccanica come la mia, che quando pigi sui tasti viene su la vicina a chiederti di piantarla di fare casino, perché la sentivo da casa mia e lei stava pigiando a Genova. E la telefonata era già terminata da dieci minuti.

Dopo mezz’ora che ho spedito il curriculum, mi ha telefonato una donna con un forte accento britannico e la voce da anziana attrice di teatro. Mi ha detto di chiamarsi M, e che doveva farmi alcune domande. Ho risposto che ero disponibile ad andare a Londra non appena la pandemia mi avrebbe permesso di uscire di casa senza farmi insultare dai vicini, ma che se voleva potevamo guadagnare tempo con un colloquio telefonico.

Mi ha detto che non c’era tempo di aspettare che la pandemia mi lasciasse uscire di casa senza farmi insultare dai vicini, e che se volevo potevamo guadagnare tempo con un colloquio telefonico.

Ho capito che era meglio se di lì in poi avessimo smesso di parlare ognuno nella lingua dell’altro, perché va bene la cortesia, ma non stavamo capendo un cazzo.

Il mio colloquio per entrare nel MI5 si è svolto per telefono in due lingue, ed è stato difficilissimo: M mi faceva le domande in inglese e io rispondevo in italiano su quello che capivo, poi lei valutava le mie risposte in base alla sua scarsa conoscenza dell’italiano e mi assegnava un punteggio.

“Nell’ultimo film di James Bond chi interpretava il ruolo del cattivo?”
“Devo riferire nome, grado e numero di matricola.”

“Qual è il vero nome della Regina Elisabetta?”
“Il Nordamerica, l’Oceania più un terzo continente a scelta.”

“A che ora passa l’ultimo autobus per Earl’s Court e come si chiama l’autista?”

“Uovo, guanciale e pecorino romano. Sale e pepe.”

“Che busta vuole, la uno, la due o la tre?”

“Il colonnello Mustard, nella sala da biliardo, con un cacciavite nell’occhio.”

“Va bene, è assunto. Comincia domani.”
“Accidenti, mi spiace. Ma grazie lo stesso per la bellissima opportunità. E se doveste ripensarci vi prego di contattarmi in qualunque momento.”

L’indomani ho ricevuto un pacco via corriere Bartolini. Sulla confezione c’era scritto Provenienza: London UK, e sotto in piccolo “Mi piaci, vuoi essere la mia ragazza?”. Ho detto al corriere Bartolini di piantarla di scrivermi sconcerie sui pacchi, o lo avrei segnalato ai suoi superiori.

Il pacco conteneva una valigetta, dentro una valigetta una busta con scritto sopra un grosso 3, una pistola Walther PPK e un manuale di istruzioni col mio nome sopra. Siccome lo so già come funziono non mi sono preso la briga di leggerlo, ho preso la pistola e sono andato alla finestra a vedere se quel rompicazzo del cane della vicina era sul terrazzo.

Non c’era, sono rientrato e ho aperto la busta. C’era la foto di un tizio con una grossa cicatrice sull’occhio destro, un passaporto inglese intestato a Hans Delbruck e un biglietto aereo per Macao.

“Ammazza se mi somiglia, questo tizio!”, ho pensato. Poi ho portato il passaporto ai carabinieri, spiegando loro che il signor Hans Delbruck ne avrà certamente denunciato la scomparsa, e ho chiamato un taxi che mi portasse di corsa all’aeroporto.

L’aeroporto di partenza era Heathrow, e la corsa in taxi mi è costata così tanto che non mi sarebbero bastati i soldi che avevo sul conto.

Per fortuna mi sono ricordato di avere una pistola. L’ho data all’autista come pagamento, e lui ha indossato un passamontagna ed è corso dentro l’aeroporto a rapinare il duty free.

Ci siamo incrociati sulla porta, io portavo la mia valigetta, lui aveva le mani piene di tobleroni.

Fuori dall’aeroporto di Macao faceva un caldo maiale, in un attimo mi sono ritrovato fradicio di sudore. C’era un uomo molto grosso in divisa da autista, che reggeva un cartello con scritto Mr. Delbruck. Sono andato da lui e gli ho detto di stare tranquillo, che il suo passaporto era già stato consegnato alle forze dell’ordine italiane, e comunque di cambiare la foto, che non gli somigliava per niente. Questo ha fatto una faccia strana, ha detto “Police?”. Io gli ho detto “Certo che li conosco, li ho visti dal vivo a Londra, qualche anno fa! Piacciono anche a te?”. Lui ha detto “London?”, io ho detto sì sì. Ha chiamato qualcuno al telefono, ma non so cosa si sono detti perché a Macao parlano cinese e portoghese, e siccome non parlo il cinese, ma un po’ di portoghese lo capisco, ho notato subito che la lingua in cui il mio misterioso interlocutore si esprimeva non era quella che parlano a Fatima. Fatima è in Portogallo, no? Vabbè, non ho voglia di controllare, quella che parlano a Lisbona, così non ci sbagliamo.

Quando ha finito di telefonare ha rimesso il cellulare nella tasca interna della giacca, e già che c’era ha tirato fuori una pistola dalla fondina ascellare e me l’ha puntata contro.

Mi sono sempre fatto un mucchio di domande sulle fondine ascellari, tipo se uno suda un casino poi sulla pistola resta la puzza? Metti che uno fa il poliziotto e a fine turno deve restituirla, e tutti sanno che è la sua per via dell’odore, e gli affibbiano il nomignolo di Ispettore Neutro Roberts, e lui ci soffre un casino e per vendicarsi si mette a fare la talpa per la malavita e passa informazioni importanti a un capomafia che ammazza il capo della polizia, e a quel punto l’ispettore Neutro Roberts ma il cui vero nome è Al Itosi si pente e torna dalla parte dei buoni e affronta il capomafia e lo arresta e lo porta in caserma e tutti lo applaudono e gli dicono bravo sei un eroe ma non lo abbraccia nessuno e c’è anche uno che corre ad aprire le finestre.

“Oh, ti sto puntando la pistola da un’ora! Mi caghi o no?”
“Scusa, mi sono distratto, la possiamo rifare?”

Ha smesso di puntarmi la pistola addosso e l’ha messa nel taschino interno della giacca, ma c’era già il cellulare, che ha provato a infilare nella fondina ascellare, ma gli è scappato dall’apertura inferiore ed è finito per terra. L’ha raccolto ed è rimasto lì a guardarmi, col cellulare in una mano e la pistola nell’altra.

“Se vuoi te lo tengo”, gli ho detto, indicando il cellulare.

“Grazie!”, ha risposto, e finalmente ha potuto infilarsi la pistola nella fondina, poi mi ha minacciato puntandomi addosso il dito indice.

Ho pensato che mi stesse chiedendo chi ero, e per cercare di superare le difficoltà linguistiche gli sono andato incontro e gli ho stretto il dito indice come fosse una mano. “Molto piacere, mi chiamo Pablo Renzi. E tu sei?”

Col suo dito indice intrappolato nella mia mano destra, l’uomo grosso in divisa da autista ha perso tutta la sua aggressività e si è messo a piangere. Mi ha detto che i suoi capi l’avevano mandato a prendere un cliente importante che si chiamava Hans Delbruck, e che non si aspettava certo di venire arrestato dalla polizia di Londra. Ma se lo lasciavo andare era pronto a rivelarmi il nome del suo capo, e dove potevo trovarlo.

Come ho detto prima, io il cinese non lo parlo, quando ha attaccato a piagnucolare ho smesso di ascoltarlo, e ho continuato a scuotergli il dito per paura che si offendesse, però non è che a stare lì con quel caldo ad agitare il dito di un omone in lacrime mi facesse sentire a mio agio, poi la gente chissà cosa va a pensare. Intanto che quello mi diceva chissà cosa ho agitato la mano libera e ho fatto fermare un taxi.

“Per favore, puoi dire a questo tassista che voglio andare in hotel? Ho una camera prenotata a quest’indirizzo, aspetta.”

Ho tirato fuori dalla tasca la foto del tizio con la cicatrice, sul cui retro era stato scritto a penna l’indirizzo dell’hotel. Non è stato facile, la tasca stava sullo stesso lato della mano che stringeva il dito dell’omone, ho dovuto usare la sinistra e contorcermi come quando devo aprire il portone di casa e ho il sacchetto della spesa che non posso posare perché in fondo ci sono le uova e sopra i mattoni.

L’omone frignone ha visto la foto ed è sbiancato, o almeno credo sia sbiancato, non so bene gli asiatici che colore si dice che prendano quando impallidiscono. Ha sgranato gli occhi e spalancato la bocca, come fa uno quando si spaventa, e mi ha detto Blofeld, che dev’essere una parola cinese perché in portoghese non vuol dire niente.

Ha detto al tassista delle cose e quello gli ha risposto delle altre cose, e mi hanno di nuovo fatto sentire escluso, ma insomma, si fa mica così con delle persone che hai appena conosciuto. Per la stizza mi sono rimesso le mani in tasca.

L’autista mi ha aperto la portiera e mi ha fatto segno di salire, e siccome non capivo l’omone mi si è messo dietro e mi ha spinto in macchina, poi ha tirato fuori un fazzoletto e si è asciugato i lacrimoni.

L’ho guardato dal lunotto posteriore, fermo sul bordo della strada a massaggiarsi il dito. Mi ha fatto pena, poverino, chissà cosa mi voleva dire.

Il taxi mi ha scaricato davanti a un edificio che non ho capito se era un hotel, ma ho sperato di no, perché dall’aspetto non me lo potevo permettere. Era composto da due edifici parecchio alti a forma di calorifero, ma non un calorifero normale, uno che potresti trovare nel bagno di un miliardario con la fissa dell’oriente, bianco e dorato, sovrastato da tettoie a forma di campana. A unire i due palazzi un edificio basso, a forma di arco, che culminava in una gigantesca tettoia ondulata tenuta su da quattro colonne. Sotto la tettoia dei vasi di fiori così grossi che dentro ognuno poteva starci non dico il giardino di mia madre, ma mia madre di sicuro.

A impedire che mia madre si infilasse di soppiatto in uno dei vasi, stava un tizio vestito di rosso, con un buffo cappello. Mi è venuto subito incontro e mi ha detto “Benvenuto al Ritz Carlton, signore”.

Ah ecco.

Quindi non c’era solo Babbo Natale a vestirsi di rosso e indossare buffi cappelli.

Avrei dovuto capirlo dal fatto che non aveva la barba.

“Salve, Ritz Carlton, mi chiamo Renz Pablon”, gli ho detto, mentendo. Speravo che se l’avessi colpito con l’assonanza mi avrebbe fatto lo sconto sulla camera.

Il tassista è sceso dalla macchina e gli ha detto qualcosa nella loro lingua piena di mistero. E allora! Ma che razza di cafoni!

Ritz Carlton mi ha fatto un sorrisone e mi ha accompagnato alla reception, dove una signorina che io quando lavoravo in hotel se avessi avuto delle colleghe così belle mi sarei perlomeno stirato la divisa mi ha messo in mano una tessera di plastica e mi ha detto che ci potevo aprire la porta e anche usarla al casinò per ritirare le fiches.

Per fortuna me l’ha detto nella mia lingua e ho capito, perché se invece che dirmelo me l’avesse scritto avrei travisato completamente e mi sarei fiondato al casinò a pretendere quella parte dell’equipaggiamento da agente segreto che non sono le macchine sportive.

Invece così sono prima salito in camera, tenendomi la visita al casinò per il momento in cui avrei dovuto saldare il conto. Avevo in mente di giocarmi alle slot i cinque euri che avevo nel portafoglio, vincere una carrettata di gettoni e raddoppiarli al tavolo del poker, dove modestamente sono una potenza: su quello di Windows vinco almeno una partita su venti, non so se mi spiego.

(continua)

Due anni fa scrivevo quelli per il Quattordici appena incominciato, delle cose che mi riproponevo di fare non ne ho realizzata neanche una per sbaglio, e sono sicuro che quest’anno sarà lo stesso, perciò questo diventa un mero esercizio stilistico per farmi perdonare il post buttato là che lo precede. Che poi farmi perdonare da chi, questo blog lo leggono solo i miei quattro amici e quello che cerca foto delle gemelle Kessler nude, che continua a cercarle qui per una sua perversione francamente incomprensibile. Che poi questo verrà fuori buttato là tanto quanto, e non è che tutti i giorni posso scrivere un post di merda per farmi perdonare quello di merda scritto il giorno prima, devo anche vivere e fare cose di cui parlerò nei post di merda che seguiranno.

Due sere fa ho visto A Perfect Day, un film con Benicio Del Toro e Tim Robbins che fanno i volontari umanitari in Bosnia alla fine della guerra. Il regista è quello de I Lunedì Al Sole, che era una pellicola splendida, se riuscivi a non suicidarti appena uscito dalla sala, ma qui l’atmosfera è un po’ più allegra, soprattutto grazie a Tim Robbins che fa lo splendido con le vacche morte. I titoli di testa ti catturano e ti fanno dire sì a voce alta, e per il resto della pellicola non fai che ripetere che sì, questo film è senza dubbio il migliore che ho visto quest’anno, ha una colonna sonora punk rock e mi ha fatto tornare la voglia di balcanizzarmi al più presto.
Ecco, non fatelo. Io sono stato rimbrottato dalla signora seduta dietro, che già è entrata in ritardo per colpa del cassiere in acido vatti a drogare a casa tua che non riusciva a stamparle il biglietto, ci manco solo io che commento a voce alta, e oltretutto il film è stato girato tutto in Spagna, che Balcani?
Io però voglio balcanizzarmi lo stesso, quindi il mio primo buonoproposito per il il 2016 sarà partire per i Balcani. Al limite anche con la signora seduta dietro, però la sua parte se la paga lei.

io comunque tengo per l’interprete

Mi è andata bene che il film di Woody Allen l’ho visto alla fine dell’anno scorso, perché avrei dovuto inserire fra i buoni propositi quello di uccidere Emma Stone, diventare un nichilista con la panza e trombarmi una milfona in cerca di sè stessa.
Poi il film non mi è neanche piaciuto, gli attori che parlano come nelle istruzioni per pulire il filtro della lavatrice mi hanno impedito di immedesimarmi nella storia, e i doppiatori di merda hanno fatto il resto.
Da un punto di vista cinematografico il 2015 non mi ha dato granché, spero che il prossimo sia migliore, e il secondo buonoproposito sarà andare più spesso al cinema, che i film ben fatti ci sono, sono io che poi vado a vedere Spectre.

una locandina sprecata, e sì che ci avevo creduto tantissimo

Ecco, di Spectre mi sento di parlare male, anche se l’inizio è spettacolare e ti fa dire dei grossi sì e anche battere i pugni sul bracciolo, almeno finché la signora seduta dietro non ti chiede di smetterla.
Capiamoci, i film di James Bond seguono delle regole molto precise che funzionano solo per loro, non sono “d’azione”, o “di spionaggio”, se dovessimo inserirli in una categoria specifica sarebbe “film di James Bond”, perciò quando vai a vederne uno sai già praticamente tutta la storia: c’è lui impegnato in una missione breve e spettacolare che porta a termine con successo e trova un aggancio per quella che sarà la trama principale; poi parte la sigla, un pezzo lento con arrangiamenti orchestrali su silhouettes di donne nude e proiettili che vanno a frantumare cose; durante il film Bond guiderà macchine di lusso, si farà donne bellissime, visiterà luoghi esotici e prometterà a Q di trattare bene i suoi costosi giocattoli ultrasofisticati. Il cattivo è sempre uno psicopatico che vuole conquistare il mondo, ostenta una sicurezza di sé che lo porta a cincischiare per ore invece di darci una botta e terminare con successo il proprio piano diabolico, e parla-sempre-lentamente. E sorride un casino. Io non ho mai visto un cattivo di Bond incazzato col mondo, che voglia distruggere tutto solo perché lo hanno licenziato e ha litigato con la moglie. Non ricordo di avere mai visto un cattivo donna, ma probabilmente c’è stato.
Il cattivo di James Bond vive in una base segreta, spesso subacquea, dove l’agente arriva quasi sempre prigioniero o invitato direttamente. Ogni tanto ci si infiltra, ma in realtà lo aspettavano e lo beccano in due minuti. Poi lui si libera grazie a qualcosa che è sempre nascosto nell’orologio, ma levaglielo, no?? Non l’avete ancora capito? Macché, gli prendono la pistola e gli lasciano l’orologio. Ma tanto se lo vuoi ammazzare a che gli serve sapere che ore sono?
Poi Bond scappa con la figa e fa saltare tutto per aria, battuta spiritosa e sguardo charmante, titoli di coda.

Anche questo segue la medesima trafila, solo che è una merda. Perché gli ultimi Bond ci stavano abituando a un rinnovamento della serie, era tutto più moderno, al passo coi tempi. Niente più donnine sceme che appaiono cinque minuti e solo per togliersi i vestiti, comprimari più interessanti, una trama più solida, Daniel Craig che fa traballare la mia eterosessualità. Qui no, si torna a Roger Moore che fa le facce ammiccanti, si fa la Bellucci-santodiorinchiudetelanonfatelarecitaremaipiù, cazzeggia col cattivo più inutile dai tempi di 007 contro l’allevatore di pulci, ad un certo punto sbadiglia pure lui.

Proseguendo sulla scia dei film che sembravano interessanti e si sono rivelati peggio di Cristina D’Avena ieri sera in piazza Matteotti coi tuoi amici nerd vestiti da puffo e hai finito le benzo vorrei segnalare Dio Esiste E Vive A Bruxelles, ennesimo prodotto del genere “Ho studiato il cinema di Tarantino e mi imbottisco di videoclip, ma non chiedetemi di scrivere una storia originale perché alle lezioni di sceneggiatura avevo la varicella”. Sinceramente, la gag di quello che prova a camminare sull’acqua? Nel 2015? E il pubblico in sala rideva. Roba che ti fa rivalutare Checco Zalone.

E fu così che, partendo da un post sui buoni propositi per l’anno a venire, quella vecchia volpe di Pablo si mise in pari con le recensioni non richieste, tirò via un po’ di polvere dal blog e preparò il terreno per le nuove incredibili avventure di cui avrebbe parlato in seguito, tipo quella volta in cui si addormentò durante la proiezione di Francofonia, quell’altra in cui si addormentò a teatro davanti a Paravidino e quella pazzesca in cui si addormentò in piedi a Torino alla mostra di Monet.

Restate nei paraggi, si prospetta un 2016 sensazionale!