Fino a Venezia non te ne rendi conto: è un viaggio che hai fatto mille volte su un treno stipato di coscritti, quasi sempre da solo, che i tuoi coetanei li sopporti poco anche fuori dalla convivenza forzata. Scendi a Santa Lucia che è mattina piena, e non hai ancora fatto colazione. Il treno per Zagabria partirà fra quaranta minuti, hai tutto il tempo per un cappuccino, ma il bar della stazione fa tristezza, e poi è o non è un viaggio di scoperta? Lasci lo zaino al deposito bagagli e ti incammini deciso verso il ghetto ebraico, dove ricordi una pasticceria interessante. Dieci minuti più tardi sei seduto al tavolino ad ammirare i ricciolini di tre personaggi dal caratteristico copricapo a tesa larga, e ti domandi se la mancanza di coraggio ad indossarlo in pubblico sia abbastanza come deterrente all’acquisto, che tu e i cappelli avete una relazione complicata.
Magari al ritorno, se ti resterà tempo e denaro e spazio nello zaino.

La prima scoperta è che per arrivare in Slovenia si passa dall’Austria, e due ore a Villach sono un’esperienza che avresti evitato volentieri. Non c’è un cazzo a Villach, è la tipica cittadina austriaca che giri in venti minuti, poi scegli il ristorante dall’aspetto meno lupesco e ti fai un piatto pesante a base di weißwurst e patate, seduto dentro, che fa freddo da quelle parti, e oggi non c’è neanche il sole, perciò niente escursione sulla Villacher Alpenstraße. Per fortuna ti sei portato da leggere più di un libro, che questo tizio che scrive come Saramago non è per niente Saramago, e dopo un po’ meh.

Poi si entra nel Paese della J, Jesenice, Spodnje Gorje, Radovljica, paesi dagli angoli acuti di cui non sai pronunciare il nome, e meno male, che la cazzo di macchia mediterranea ci ha tolto la sensazione del viaggio, questa valle boscosa è identica a quella dietro casa tua. Le auto che corrono sulla strada accanto ai binari non hanno conservato niente dell’austerità socialista, sono le stesse Peugeot e Volkswagen che trovi nel piazzale del supermercato la domenica mattina. Giusto i vagoni merci, con le pareti spesse e tozze, da carro armato, ma sei deluso. Dov’è l’ombra di Tito? Ci sono ancora tracce del suo passaggio su queste terre, dopo trent’anni dalla sua scomparsa? È la ragione del viaggio, la ricerca di un passato che ti ha sempre sfiorato, senza mai toccarti. Nei tetri anni ’90 la guerra dei Balcani si portò via il benessere ostentato, gli scaldamuscoli fucsia e quelle cazzo di pettinature cotonate. Era difficile ascoltare Tarzan Boy quando ci si ammazzava appena fuori casa tua, ma tu vivevi nella tua bolla di irrealtà, avevi appena scoperto Mtv, e anche il servizio militare te lo sei fatto scivolare addosso sulla sponda sicura dell’Adriatico.

Poi un giorno ti svegli e decidi di andare a vedere se è rimasto qualcosa di quegli anni, come a volerti riappropriare di una fetta della tua vita di cui non ti sei curato. Forse è un modo per recuperare a strascico anche questi ultimi mesi balordi, forse entrare in contatto con qualcuno che è stato peggio di te ti aiuterà a ridimensionare i tuoi problemi alle cazzate che sono, e a lasciarteli alle spalle.

Ljubljana è un pezzetto di quel passato di cui sopra: una possibile meta delle tue vacanze di allora, quando passavi tutte le sere a casa della fidanzata e lei ti raccontava della città di sua nonna, guardavate le foto e progettavate un viaggio insieme. Poi siete finiti in Andalusia, e casomai a trovare sua nonna ci sarà andata da sola, dopo. Quattro minuti di sosta e una carrellata di palazzi grigi e spessi come i carri merci di prima sono un’impressione sufficiente con cui pagare il transito al tuo passato, la parte bella e antica che vedevi in fotografia la ritroverai un’altra volta se sarà il caso.

Glavni Kolodvor, dice la scritta alle mie spalle, sulla facciata di questo grande edificio rosa, con le statue ad affollare il timpano come un tempio greco. E proprio come se fosse scritto in greco non ho idea di che cazzo significhi Glavni Kolodvor, sarò sceso alla stazione giusta? Sul binario c’era scritto Zagreb, l’aspetto è quello del centro città, ma mi sento un po’ sperso. Tutto ad un tratto l’idea di viaggiare da solo in un posto di cui non so niente di niente non mi appare più così affascinante.

La piazza della stazione somiglia un sacco ad Avenida dos Aliados, a Porto, tranne che questa è orizzontale, e ti toglie tutta la scenicità, se mi passate il termine, ma cercate di capire, sto in una città che non conosco, non parlo la lingua, sono le nove di sera e devo comunicare con gli autoctoni per raggiungere un albergo che non so neanche se mi aspetta, visto che tutta la corrispondenza con la reception è stata effettuata grazie alla mediazione di google traduttore.

La mappa dice che posso arrivarci a piedi e scamparmi il trauma della comunicazione, così mi incammino lungo la piazza, davanti a questi palazzi che se non fosse per la bandiera croata potrei essere a Vienna. Mi infilo in una strada da vecchia Europa, e sbuco in una piazza vivace, ariosa, con palazzi del settecento pieni di insegne moderne, che è come prendere un quadro neoclassicista e colorarlo a pennarelli. Josip Jelačić indossa un buffo copricapo che vorrei assolutamente e punta la spada verso un negozio che si chiama Pan-Pek, e ha tutta l’aria di essere un panificio. Sento il riflesso pavloviano agitarmi lo stomaco, ma no, prima l’albergo, ormai dovrebbe essere qui intorno.
Mi infilo in una strada nuova, piena di boutiques, e sopra il negozio di Givenchy campeggia una bella insegna spartana che dice Dubrovnik. Eccululà.. Caasa. Vado a fare il check in e mi sbatto in camera, ma che delusione, l’austerità dell’insegna non viene affatto mantenuta all’interno, sembra una nave da crociera, con le camere che si affacciano sul salone e tutti i piani arredati con vasi di fiori. Dalla finestra che si affaccia sulla piazza vedo di nuovo il mio amico Josip, sempre intento a minacciare il panificio col suo sciabolone. Adesso sì, è ora di cercare da mangiare. Domani mattina si riparte, e sarà la parte difficile.

“Sbalorditivo! Assolutamente sbalorditivo!”, esclamò Wolfgang Amadeus Mozart la prima volta che udì una composizione di Coso, forse il più grande compositore che la storia ricordi.
E non fu l’unico a restare impressionato dal suo talento, ricordiamo, tanto per citarne uno, Vivaldi, che anni dopo espresse così la sua ammirazione per l’artista “Madonna, questo qui cià due palle come cocomeri!”, o Beethoven, che disse “Chi?? Il Kaiser?”.

Ma chi era in realtà Coso?

Tommaso Coso nacque a Caracas nel 1754, e trascorse tutta la sua infanzia su una bananiera, nel tentativo di raggiungere l’Europa per iscriversi ad una scuola di solfeggio. Ci mise venticinque anni, prima dovettero tornare indietro perché si erano dimenticati le provviste, poi per prendere l’apriscatole, visto che avevano caricato solo fagioli e pelati, poi dovettero caricare il nostromo che alla seconda volta che tornavano indietro si era rotto le balle ed era andato in trattoria.
Giunto in Europa Coso frequentò con successo la Scuola per Giovani Dotati di Orecchio Musicale “Albino Franzone”, di Como, dove ebbe per compagno di banco uno dei tanti Strauss, quello che non compose mai niente.

Nel 1781 compose la sua prima opera, “La Sua Prima Opera”, che parlava di un uomo mortificato dalla pleurite. Fu un successo straordinario, tutti per la strada canticchiavano il tema principale “Ho Un Motivetto Nella Testa Che Fa Zanzan Zunzun Frinfrin Patasgnaus Vidocqdipitof, Sarà Mica Il Caso Che Mi Faccia Vedere Da Un Cerusico?”.

Nel 1784 compose “Quell’Opera Là”, “Un’Altra Famosa” e “Quell’Opera Là 2, Il Ritorno”, tutti trionfi. Mozart, indispettito da tanto successo, si ritirò a fare il ciabattino.

Nel 1787 l’imperatore di Santa Teresa Di Gallura (che allora era stato indipendente), Ciro Peppino, cercava un famoso compositore, e gli suggerirono Coso (si dice che la frase esatta fu “Mah, ci sarebbe coso..”). Gli commissionò un brano di prova, e Coso scrisse “Ciro Peppino B.Goode”, che faceva più o meno così “Go go, Ciro Peppino Go, Go, Ciro Peppino Be Good Tonight”. L’imperatore apprezzò e gli chiese di scrivere un’opera che potesse far ascoltare ai suoi amici quando venivano a mangiare la pizza a casa sua. Coso snocciolò in soli due giorni quella che divenne la sua opera più celebre, “Una”, copiata e ripresa nel corso degli anni da tutti i musicisti fino alla recente interpretazione degli U2, “One”.

Trascorse gli anni successivi a scrivere balletti, opere liriche e pezzi per orchestra, e ogni volta il pubblico andava in visibilio. Come dimenticare titoli come “Concerto per strumenti musicali a muzzo”, “Il previsto spettacolo non andrà in scena per un malore del cantante”, e “Quella dove c’è quella canzone famosa”?
Nel 1791 conobbe quella che sarebbe in seguito divenuta sua moglie, Luana la Contorsionista, stella di prima grandezza del circo Mandrillo. Quando metteva in scena il suo spettacolo “Luana e la sua banana” la gente accorreva da ogni dove, anche da lì. Tommaso Coso vi si recò per discutere con l’impresario, Beppe Frettazzo, i termini di un contratto che prevedeva una serie di brani musicali soft, per accompagnare le graziose movenze di Luana.
Coso suggerì un paio di titoli, “Milonga Per Trapano E Arcata Dentaria” e il sottovalutato “Due Accordi In Croce Tanto Per Far Vedere Che Ho Composto Qualcosa”. Non venne ingaggiato, ma assistette allo “spettacolo di contorsionismo e sparizione di frutti esotici senza neanche usare le mani” con vivo interesse, e alla fine, folgorato da tanta poesia, si presentò al camerino di Luana.
Si dice che all’inizio lei fosse restia a concedersi al musicista, nonostante la sua fama fosse universalmente nota, ma quando lui le fece ascoltare il pezzo che aveva composto in suo onore “Il Tuo Bacio E’ Come Il Requiem Di Faurè Suonato Veloce”, ella cedette, e dopo un breve fidanzamento, il 27 Aprile 1792, davanti a Padre Ignazio Frugola, parroco del Santuario Della Madonna Con Le Mani Sudate, i due divennero marito e moglie e figlio, perché Coso non aveva perso tempo.
Gli anni del matrimonio donarono a Tommaso Coso nuovi spunti per le sue opere, che si arricchirono di una maliziosa vena comica, come nel “Così Fan Tutte Ma Senza Banana”, o di toni drammatici, di cui fu un esempio lampante “Quella Stronza Di Mia Suocera”. Ricordiamo il brano più famoso, “Si Ma Tua Moglie” in cui il protagonista Tiburzio si lamenta con un amico del carattere vessatorio della madre di sua moglie, e l’amico Nestore gli contrappone i pregi della sposa.

TIBURZIO – Quella stronza di sua madre la mi grida tutto il dì
NESTORE – Si ma tua moglie l’ha una voce da usignolo
TIBURZIO – Quella stronza di sua madre la mi chiama mentecatto
NESTORE – Si ma tua moglie la ti stira le mutande
TIBURZIO – Quella stronza di sua madre la mi svuota sempre il frigo
NESTORE – Si ma tua moglie la ti frulla il barbagallo

E lo frulla assai ben!
Ah se ‘l frulla così ben!

TIBURZIO – Quella stronza di sua madre la mi tira addosso i ciocchi
NESTORE – Si ma tua moglie la ti va a far la spesa
TIBURZIO – Quella stronza di sua madre mi nasconde i lanciostory
NESTORE – Si ma tua moglie la ti tien pulito il cesso
TIBURZIO – Quella stronza di sua madre dice al bar che son cornuto
NESTORE – Si ma tua moglie cià due puppe come angurie

E le mostra assai ben!
Ah se ‘l mostra così ben!

TIBURZIO – Ma senti un po’, Nestore. Com’è che tu sai tutte ‘ste cose su mia moglie?

Quando la sua fama si estendeva in tutto il mondo e le richieste di comporre brani fioccavano numerose da tutte le più importanti case reali, Tommaso Coso si scocciò di fare il compositore e decise che il mestiere della sua vita era l’idraulico. Sparì nel nulla nel 1823, e di lui non si seppe più niente.

Com’è che quando mi organizzo per vedere una ragazza va sempre a finire tutto così? Dovevamo andare al cinema, poi l’avrei riaccompagnata a casa, come al solito, con la sola differenza che la casa sarebbe stata la mia. Avevo organizzato tutto nei minimi particolari, lavato la macchina, comprato un enorme mazzo di rose, ripulito tutto l’appartamento, sotterrato i calzini. Avevo preparato anche per l’indomani mattina, avrei telefonato al lavoro per dire che stavo male e saremmo rimasti a letto fino a tardi, poi avrei preparato il pranzo, avevo già tutto il menù compreso il vino, vino buono, mica il cancarone da supermercato. Nel pomeriggio avremmo guardato un film accoccolati sul divano, e la sera cena fuori e magari un salto in quel locale che ci piace tanto. Era perfetto, me lo pregustavo già, e invece..

“Domani sera non posso, devo vedere Guglielma Macachi”.
“No, ma io intendo che a casa mia ci vieni dopo il film, non prima”
“Ma io Guglielma Macachi devo vederla domani sera, non ci vengo al cinema!”

Allora avevo proprio capito giusto..
Mi si sbriciolano tutti i progetti, le rose appassiscono di colpo nel vaso, il vino diventa aceto e tutta la roba nel frigo scade. La casa di produzione del film fallisce, il regista muore, il locale che ci piace tanto va in fiamme, e dalle ceneri emerge, solida e tetra come una sfinge con la faccia di Zio Fester, la figura di Guglielma Macachi.

Non era la prima volta che sentivo questo nome, me la nominava spesso, “questo film me l’ha consigliato Guglielma Macachi”, oppure “vado a giocare a tennis con Guglielma Macachi”. La prima volta credevo che mi pigliasse per il culo, come può esistere una con un nome così? Le avevo risposto “si, e io mi vedo con Greipèip”. Naturalmente avevo dovuto spiegargliela, pur avendo la stessa età eravamo stati tirati su in ambienti diversi, quando io guardavo i cartoni del Gorilla Lilla lei si beveva i cicchetti insieme alla nonna, e adesso il risultato era che io scrivevo racconti cretini e sognavo di conquistarla con modi gentili, lei mi portava a bere aperitivi e si sfondava di negroni.

Era stato durante uno di quei consessi alcolici che era saltata fuori Guglielma Macachi, una donna bassa e larga con grosse lenti scure e folta peluria sul mento, nonché la presidentessa del Club Amici Del Libro, un’associazione che sbandierava il nobile intento di “promuovere la cultura disimpegnata e il dolce profumo della carta stampata”. In realtà sugli scaffali del club era più facile trovare delle bottiglie di gin che Oliver Twist, la divulgazione di opere letterarie era solo un paravento per delle riunioni di beoni, che a confronto i raduni degli alpini sono assemblee di salutisti. Per mantenere quel minimo di decoro che le permettesse di continuare le proprie libagioni la Guglielma si dava da fare ad organizzare incontri con scrittori, reading poetici, e ogni settimana proponeva un’uscita a teatro dove regolarmente saltava fuori un biglietto omaggio per la mia ragazza. Non due, che magari avrei potuto anche partecipare, no, figuriamoci! Così, ciclicamente come quel periodo in cui ci si vede e si sta bene insieme ma non si può andare oltre, il fantasma della donna dal nome scimmiesco e dalle fattezze sfattezze aleggiava sul nostro rapporto.

“Senti, non è che per una volta potresti dire alla tua amica Guglielma che non puoi? Avrete tutta la prossima settimana per farvi venire la cirrosi, proprio stasera?”
“Dobbiamo preparare il regolamento del club, è una cosa importante”

Cercai di immaginare di quali regole potesse avere bisogno un’associazione dedita all’alcool come quella, ma non andai oltre le tre o quattro fondamentali:

Non vomitare sui divani
Conservare i vuoti da restituire all’esercente
Servirsi del bagno per le necessarie funzioni corporali
Non abbandonarsi ad atteggiamenti indecorosi

L’ultima in realtà potevo anche toglierla, faceva ridere solo a pensarla, e infatti Claudia, la mia ragazza, mi squadrò con diffidenza.

“Ma sei in aria? Che ti ridi!”
“Niente, pensavo ad una cosa.. Insomma, tu stasera hai da fare e non puoi proprio rimandare. Io avevo organizzato una cena, ho anche spedito il mio compagno di stanza a dormire fuori.. potevi almeno dirmelo prima!”
“Hai ragione, scusa, ma è capitato all’ultimo momento, dobbiamo prepararlo assolutamente entro domani, così poi lo mandiamo in stampa.”

Sapevo che era tutta una scusa, Claudia non riusciva stare troppo a lungo senza bere, e Guglielma Macachi rappresentava la soluzione ideale per riempirsi come un’anatra e mantenere una certa dignità.
Mi rassegnai a guardarmi il film da solo, steso sul divano abbracciato ad un cuscino, popcorn e cocacola invece del filetto, un rancore che mi spingeva a prendere il telefono e coprire di insulti Claudia e Guglielma. Non sarebbe servito, a quell’ora dovevano già essere sotto il tavolo, se l’avessi chiamata dubitavo che mi avrebbe riconosciuto. L’ultima volta che ci avevo provato mi aveva risposto “Ciao amore! Che sorpresa!” e solo dopo un paio di minuti aveva capito chi ero e smesso di chiedermi quando sarei tornato da Saint Tropez.
Pensavo alla faccia del mio compagno di stanza Matteo, l’indomani, quando gli avrei raccontato della mia straordinaria serata.

“Fidanzarsi è sbagliato, smetti di ragionare come una persona normale”, mi ripeteva ogni volta che litigavo con Claudia, sempre in concomitanza con le sue serate culturali.
“I fidanzati seguono dei processi mentali tutti loro, solo i magistrati ragionano alla stessa maniera. Ricorda, Cogito Ergo Singulus Sum! E poi sai come la penso, voi due non state bene insieme.”
“Si, ma cosa dovrei fare? Io ci sto bene con lei.”
“Ci sono soltanto due modi per avere un buon rapporto stabile con lei, o la lasci e non vi vedete più o cominci a bere come un cammello e vi incontrate solo quando siete tutti e due ribaltati. Quella è una squilibrata, dai! Ci stai bene insieme solo perché hai paura della solitudine, e lei con te fa lo stesso.”
“Se ti sentisse dire una cosa del genere ti metterebbe sotto con la macchina!”
“Per quello basterebbe attraversarle davanti quando torna dal circolo. Dai, seriamente, credi che sia innamorata di te? Si vede subito quando due persone stanno bene insieme, e qui è evidente che vi state trascinando. Tu dietro a lei, lei sui gomiti.”
“Stai esagerando, la dipingi come un’ottenebrata insensibile, ma non è così. Abbiamo avuto anche dei momenti felici insieme.”
“Si, quando era talmente ubriaca che ti scambiava per un altro. Vuoi una prova? Dille che vuoi stare un po’ da solo, non cercarla per un po’, e vedi come reagisce.”

Macché, Matteo non capiva, Claudia mi amava davvero, l’unico ostacolo fra noi era quella stronza di Guglielma Macachi. Era lei che proiettava un’influenza negativa sulla mia ragazza, enfatizzava quella naturale predisposizione all’autolesionismo che è insita in ognuno di noi. Come si dice, “quella ragazza lì la stavano rovinando le cattive compagnie”. Se le avessi tolto di mezzo Guglielma Macachi e il suo Club Amici Del Libro i miei problemi sarebbero svaniti, il fegato di Claudia si sarebbe rigenerato, il nostro futuro sarebbe tornato radioso.

Fu nei giorni successivi che il mio disegno criminale prese forma. Pensando alle implicazioni morali non sentivo alcuna remora, uccidere una vecchia bruttona come Guglielma Macachi non mi sembrava contrario ad alcuna morale, mi avrebbe consentito di salvare la vita di una ragazza giovane e bella. Dal mio punto di vista non era omicidio, era ottimizzazione delle risorse umane.
L’idea me l’aveva data un farmaco, la Prototeina. Era un semplice antibiotico contro l’influenza, ma sul foglietto all’interno della confezione portava scritto a lettere cubitali: “ATTENZIONE!! Non somministrare a persone con problemi di alcolismo, può provocare morte fra atroci dolori e spasmi e perdita di sangue a fiotti dal naso e dalle orecchie, oppure un leggero calo del timbro vocale”.
Il piano mi si era scritto da solo, presi un paio di giorni di mutua per influenza mi sarei procurato quantità industriali di Prototeina, e una volta introdottomi in casa della mia vittima l’avrei disciolta nella sua scorta di alcolici.
Oltretutto, in caso di autopsia, nessuno avrebbe pensato a un omicidio, ero in una botte di ferro.

Il mattino seguente mi procurai in fretta la cartolina della mutua e il medicinale, e alle nove meno dieci mi appostai sotto casa di Guglielma Macachi, pronto ad agire.
Dopo un’ora non era cambiato niente, la mia vittima era ancora in casa. Ma non ce l’aveva un lavoro, la spesa da comprare, qualche commissione che la tenesse impegnata mezz’ora fuori di casa?

Mi telefonò Claudia, aveva saputo che non ero andato a lavorare e voleva vedermi.

“Scusa tesoro, ma sono impegnato, voglio approfittare di questi due giorni per rimettermi a scrivere il mio romanzo giallo. Ci sentiamo dopodomani”.

Altro che dopodomani, se quella lì non si decideva a uscire rischiavo di dover restare lì sotto tutta la settimana. Oltretutto si approssimava la brutta stagione, se mi fossi preso un’influenza che scusa avrei potuto trovare per non andare a lavorare? Che dovevo ammazzare qualcuno?

Claudia mi transitò davanti con una bottiglia di gin in mano, diretta verso il campanello di Guglielma Macachi. Doveva essere già ubriaca, perché non mi vide, nonostante fossi a meno di due metri da lei.
“Guglielma, sono Claudia!”, la sentii biascicare nel citofono.
“Mi spiace, ha sbagliato campanello”, rispose qualcuno. “La signora Macachi ha quello di sinistra”.
“Guglielma, sono Claudia!”, ripeté.
“Chiccazzo è Claudia?”. Questa volta era proprio Guglielma, già piena come il tacchino a Natale. “Non ne ho idea”, rispose Claudia, “Io mi chiamo Francesca”.
Una volta chiarite le rispettive identità la padrona di casa uscì e si allontanarono insieme, ciondolando vistosamente.

La mia abilità di scassinatore era leggendaria, al baretto mi chiamavano il Lupin del distributore automatico. Avevo un trucco per rubare le lattine senza pagarle, inclinavo il distributore e lo scrollavo, facendone uscire cinque o sei.
Si, ma come avrei potuto applicarlo a un palazzo di cinque piani?
Per fortuna mi chiamavano anche il Dillinger dei distributori di ciupaciupa, per la mia abilità a forzare le serrature con una forcina, e fu grazie a questa mia dote che cinque minuti più tardi mi trovai nell’appartamento della donna, a travasare antibiotico nella sua scorta di whisky invecchiato.

Si era fatto buio quando tornai al mio appartamento. Matteo non c’era, ma qualcuno aveva lasciato un biglietto sulla porta.
Era di Claudia, diceva solo: “Ho conosciuto un altro, ti lascio, ciao”.

Ma come? Ma chi? Come sarebbe ho conosciuto un altro, solo perché ti ho detto che non ci sono per due giorni?? Non avevo tempo per soffermarmi a pensare su quanto Matteo si fosse rivelato profetico, dovevo trovarla, parlarle! Non poteva lasciarmi proprio adesso che le cose fra noi stavano per cambiare in meglio!
Corsi a casa sua..

“Stai facendo un errore! Capisco che la tragica scomparsa della tua amica ti abbia sconvolta, e il timore di incorrere nello stesso infausto destino ti abbia gettato fra le braccia di uno sconosciuto, male interpretando i tuoi reali sentimenti, ma ti prego di non prendere decisioni affrettate, tu sei ancora innamorata di me, non di questo tizio sbucato da chissà dove!”
“Non so di cosa stai parlando, Guglielma è viva, mi ha telefonato poco fa. E io non sono più innamorata di te, ora vivo per Marco, o Mirco, non mi ricordo.”

Mi girava la testa, tutti i miei sforzi inutili, Claudia mi aveva abbandonato lo stesso, e come ulteriore beffa Guglielma Macachi non era neanche morta. Ma com’era possibile?
Andai al Club Amici Del Libro, e mi aprì la porta la donna che avevo cercato di intossicare. Stava benissimo.. oddio, per quanto potesse stare benissimo una beona come lei..

Mi sedetti al banco con la testa fra le mani. “Ho avuto una giornata pesante”, le dissi. “Non è che avrebbe qualche buon autore da consigliarmi, per tirarmi su?”.
La donna mi strizzò l’occhio, e tirando fuori da sotto il banco una bottiglia di vodka, rispose: “In casi come questi non c’è niente di meglio di qualche pagina di Dostojevskij”.
Strabuzzai gli occhi, ma non per la bottiglia, le si era abbassata la voce, sembrava che la stesse doppiando Giancarlo Giannini.

Trangugiando d’un fiato il bicchierino di liquore mi tornarono in mente ancora le parole del mio coinquilino, “o la lasci o diventi come lei”. Avevo saputo fare di meglio, avevo realizzato entrambe le possibilità in una botta sola.
Mi attaccai alla bottiglia come se fosse stato un capezzolo di Scarlett Johansson, e mandai al mio fegato un silenzioso bacio d’addio.

Sandro non lo conosco, ma a guardarlo nella sua maglietta dei Sepultura non deve avere molti anni più di me. Chili invece si, tanti, che sotto la maglietta ha una panza che i Sepultura potrebbe benissimo esserseli mangiati.
Sta tenendo una lezione sui mostui sacui del uochenuoll, unico allievo un suo amico che ha avuto la sfiga di incontrarlo e soffre come una partoriente, e me, seduto sotto una palma ad aspettare una persona con cui finire questo bel sabato di sole, a cena, magari col mare davanti.
Sandro si mette ad elencare le date di nascita di tutte le uockstau più celebri, da Eddie Vedde a Kuut Cobain, mostrando con logica ferrea e spietata come i compleanni dimostrino più di quel che sembra, e tira fuori la storia del Club 27, aggiungendo per buon peso che dev’esseuci sicuamente una cospiuazione.
L’idea era di alzarmi e andarmene, che non mi va di fare incrociare melomani deprimenti e giovani sconosciute, ma decido di restare ad aspettare le scie chimiche, sono sicuro che arriveranno, quando si tira fuori la teoria del complotto sono sempre le prime insieme al signoraggio. E poi avrò un aneddoto ridicolo da raccontare alla mia ospite.

Lei si chiama Marta, l’ho incontrata un paio di settimane fa in libreria, mi sono detto che non posso essere sempre terrorizzato dalle donne, non c’è niente di male ad attaccare bottone per strada, e poi una libreria è un bel posto per conoscere una ragazza, così le sono andato incontro deciso e a un passo da lei mi sono voltato a prendere un libro che cercavo da anni e non vedevo l’ora di leggere ma guarda che fortuna, l’ho agguantato e mi sono fiondato alla cassa.

Solo fuori, davanti al ciaoamico che cerca di darti un cinque e venderti l’ultimo libro di suo cugino, mi sono preso a schiaffi in due direzioni, una per essermela conigliata con la ragazza, l’altra per aver buttato via dei soldi nella raccolta di barzellette di Totti, e quelli sono schiaffi fortissimi, che devo fare tanta penitenza, e se mi vede qualcuno altri schiaffi, per vendicare la dignità. Però non c’è nessuno, solo il ciaoamico che mi sta davanti con la mano aperta e non capisco se vuole ancora un cinque o cerca di mollarmi due pattoni anche lui, che ha bisogno di sfogarsi, tutto il giorno sul marciapiede a farsi ignorare da mezza Genova renderebbe violento anche Gandhi.

Gli metto in mano il libro di Totti e rientro, che chiedere il numero di telefono alla ragazza di prima è diventata la missione del giorno, solo che la ragazza di prima non è dove l’avevo lasciata. Provo a salire ai piani superiori, ma non la vedo. Supero i dvd, i fumetti, e un po’ mi piange il cuore, che trovarcela davanti l’avrei letto come un segno divino e l’avrei dichiarata la donna della mia vita e le avrei chiesto di darmi dei figli, non importa di chi.

Insomma, la ragazza che poi scoprirò essere Marta non c’è, né in veste di Marta né in quella di giovane carina coi riccioli neri e camicetta bianca e borsa di stoffa, come l’ho temporaneamente identificata.
Torno giù, mi è rimasto da visitare solo il reparto strumenti musicali e non ce la vedo a suonare la chitarra elettrica. Ho ancora un forte senso di colpa per aver fatto guadagnare qualche centesimo in diritti d’autore a Francesco Totti, e per mondarmi la coscienza vado a cercare un libro vero, possibilmente impegnativo, che mi permetta di fustigarmi ancora durante la sudata lettura.

Sono a picco su un tavolo, indeciso fra una biografia di Tamerlano e un giallo scandinavo, e il mio campo visivo è attraversato da una mano di donna che plana sulla distesa di libri davanti a me e si fa strada decisa verso il mio pisello, rintanato nei pantaloni, appoggiato placidamente su una pila di volumi di Stefano Benni. Sollevo un’espressione fra il violato e il lubrico, e mi trovo di fronte la ragazza di prima, chiaramente imbarazzata, che mi indica lo scrittore bolognese su cui ho fatto il nido.

Si scusa, mi scuso, le passo il libro. Seguono momenti di imbarazzo, che interrompo dicendole che è un libro bellissimo, perché Saltatempo lo è davvero, e mi risponde che ha letto una recensione del libro su un sito di recensioni di libri, e sono un po’ stupito di questo fatto, perché a Genova se parli con una ragazza in libreria questa di solito si limita al sorrisetto convenzionale e si trasferisce in Asia.
Questa non solo non va in Asia, ma mi indica il giallo scandinavo ignorando bellamente il condottiero mongolo e dice “Quello l’ho letto, non è male. Però preferisco Simenon.”
Mi sento autorizzato a offrirle il caffè, e ci spostiamo al bar del negozio dove si compiono le formalità di rito, presentazioni e scambi di contatti. E arriviamo a sabato, a Sandro e alla sua maglietta dei Sepultura.

Sta raccontando al suo amico che Jimi Henduix che non è mouto davveuo pe un’oveudose di tuanquillanti, c’è di mezzo la CIA, e sto per intervenire ricordandogli che Hendrix è morto a Londra, di fronte a dove abitavo io, ma in quel momento arriva Marta, e le vado incontro.

Anche Sandro.

Ma che cazzo.

“Mauta!”
“Sandro! Cosa ci fai qui?”
“Mi puendo un po’ di sole e paulo con questo mio amico che.. oh, se n’è andato.”

Insomma che sono amici da tanti anni, suonano insieme in un gruppo, e quel giorno in libreria avrei dovuto salire fino in cima e l’avrei trovata a provare un basso, ma sono stato affrettato e adesso mi tocca Sandro. Perché si invita a cena, ovviamente.

“Pensavo di andare in una trattoria qui dietro, il gestore è molto simpatico e ti tratta bene”
“E peuché non ci mangiamo un bel sushi?”
“Uh si! Che bella idea!”, risponde Marta.

Non so come funzioni nel resto del mondo, ma a Genova un ristorante di sushi è un posto gestito da cinesi dove mangi variazioni sul tema della cucina cinese, in porzioni minori e con prezzi da usura. Non so se si capisce con che faccia accolgo la scelta.
Però mi adeguo, via, Marta sembra interessante anche se ha amici discutibili.

Sandro ci conduce al piccolo trotto su per via San Lorenzo, che il ristorante che conosce è in centro, e in una decina di minuti ci troviamo davanti a un negozio di abbigliamento.

“Eccoci auuivati! Entuiamo!”
“Ma qui?”, chiedo.
“Ceuto! È un uistouante molto quotato!”
“Ma i vestiti?”
“Vendono anche vestiti, che c’è di stuano?”, sibila il fan dei Sepultura, poi scocca un’occhiata perplessa a Marta, che accusa imbarazzata.

Il cameriere che ci accoglie è italiano, così la barista e tutti gli altri personaggi che vedo passare mentre ci accomodiamo al tavolo. È il ristorante orientale meno orientale che abbia mai visto, in compenso ci sono vetrine piene di abiti firmati e bacheche piene di accessori costosissimi. Ho un terribile presentimento.

“È curioso, siamo gli unici clienti”, dico.
“Meglio, così pauliamo senza esseue distuubati! Peuesempio, tu che musica ascolti?”
“Ehm.. Tom Waits?”, rispondo, nella speranza che la sua maniacalità sia limitata al rock duro e puro.

“Ehi, che figo! L’hai visto dal vivo quand’è venuto a Milano?”
“No, costava troppo”
“Eeh peuò è stato un conceuto impeudibile! Valeva il puezzo!”
“L’hai visto?”
“No, ma c’è stata una mia amica. Io ho visto i Sepultuua puima che si sciogliesseuo”
“Ah si sono sciolti?”
“Dopo che è mouto il figlio della louo manageu in un incidente, ma paue che la stouia sia molto più complicata”

Ahia. Ci siamo. A quanto pare non basta evitare gli argomenti pericolosi, è lui che ti ci trascina dentro, ti inchioda in un angolo e ti sfinisce di cazzate. Dopo i Sepultura passa a raccontarmi di Amy Winehouse uccisa da una multinazionale, Jim Morrison che è ancora vivo e abita a Seattle e naturalmente l’immancabile pippone sul sosia di Paul McCartney.

“E John Lennon?”, chiedo, abortendo uno sbadiglio.
“Gli ha spauato Mauk Chapman”, risponde come se gli avessi chiesto la cosa più ovvia del mondo.
“Beh dai, non può essere una cosa così semplice. Lennon abitava al Dakota, dove Polanski aveva girato Rosemary’s Baby cinque anni prima, proprio mentre sua moglie veniva ammazzata nella loro villa di Los Angeles.”

Sandro mi guarda come se fossi cretino. “Non ci vedo puopuio nessun collegamento!”
“Ma come no? Sulla scena dell’omicidio trovarono la scritta Helter Skelter, come il titolo di una canzone dei Beatles!”
“Ma che c’entua!”
“C’entra eccome! Ma come fai a non vederlo! Sulle ringhiere del Dakota ci sono i draghi rettiliani! Cazzo, mancano solo i riferimenti alla massoneria!”

Marta e Sandro si guardano spaventati, mi dicono di calmarmi, si riguardano. Calmarmi, certo! Io mi dovrei calmare! È tutta la sera che sopporto gli sproloqui di questo squilibrato, che poi chi cazzo lo avrà invitato, e mi hanno portato a cena in gioielleria, e sono io quello che si deve calmare! E i rettiliani ci sono davvero! Li ho visti!

“Scusi, ci porta il conto?”, chiede Marta al cameriere. Non abbiamo ordinato ancora niente, ma non importa, perché solo per esserci seduti ci chiedono ventiquattro euri ciascuno.

Appena fuori i due amici si congedano, Marta non prova neanche a inventare una scusa, si lascia prendere sottobraccio da Sandro e spariscono giù per la via.

Poi dice come mai non attacco mai bottone con le ragazze che incontro per strada.

 

Ieri cadeva il centenario di quello che viene considerato l’evento scatenante della Prima Guerra Mondiale, l’attentato a Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, e questo mi ha portato a ripensare a una persona che non vedo più da un sacco di tempo: fu proprio a un ricevimento dell’arciduca d’Austria che conobbi Jordan Baker.

Non mi fece granché impressione, ero troppo impegnato a chiedermi cosa ci facessi lì per concederle più di un’occhiata superficiale.
Era fasciata in un abito di seta nera pieno di lustrini, e indossava un cappellino che le dava l’aspetto di una cantante blues degli anni ’20. Aveva lo sguardo altero della pupa del gangster, ma non quella frivola che ride sempre per ogni cazzata e alla fine la ritrovano sparata dentro una Morgan, quell’altra, quella con una coscienza che alla fine si redime e lo fa arrestare e si mette col poliziotto buono.
Per la verità i lunghi capelli biondi tradivano quell’immagine retrò nella mia testa, le cantanti blues e le pupe del gangster si pettinavano diversamente, ma non ci feci caso, ero distratto da altre cose, come ho detto; la etichettai come antipatica e passai oltre, lasciandola ad aggirarsi per il salone con un flute di vino fra le dita sottili. Ogni tanto la sua risata squillante echeggiava qua e là, sovrastando il moscio repertorio di valzerini che un quartetto di violinisti pescati in chissà quale festa di quale paesello balcanico si trascinava da ore.

Alcune settimane più tardi mi trovavo sulla Cinquantaquattresima, in pieno centro di Manhattan: ero andato a vedere un appartamento e stavo aspettando l’agente immobiliare davanti a un chiosco ambulante che cucinava piatti messicani, all’angolo con la First Avenue.
Non la riconobbi subito, questa volta indossava un paio di jeans e una camicetta bianca, e nel venirmi incontro sfoderava un sorriso talmente forzato che mi fece venire voglia di andarmene. Non me ne diede il tempo, mi raggiunse con ampie falcate e fece scattare la mano verso di me come la lama di un coltello a serramanico:

“Il signor Renzi? Jordan Baker, molto piacere.”
“Come il campione di pallacanestro?”, domandai, dando subito sfoggio di grande cultura.
“Come un personaggio del Grande Gatsby”, mi gelò lei. I suoi occhi azzurri mi inchiodarono un aguzzo senso di inferiorità appena sotto l’attaccatura dei capelli, e non osai aggiungere altro.

Salimmo a visitare la casa, e mentre mi decantava i vantaggi dei tripli servizi e mi mostrava il letto placido dell’East River dalla grande vetrata dell’ambiente principale, la osservavo di sottecchi.
Era carina, se non avesse avuto quei modi affettati da venditrice mi sarebbe piaciuto passarci un po’ di tempo insieme, a cercare di capire se era più forte il fastidio per i suoi modi esageratamente cordiali o l’attrazione che mi provocavano i suoi occhi, di un azzurro slavato, come il ghiaccio che si forma in certe grotte artiche.

Alla fine non comprai l’appartamento, era troppo grande per viverci da solo, e poi i vicini erano una famiglia di italiani veramente molesta, lei friggeva tutto il giorno, lui suonava la chitarra e i due bambini strillavano senza sosta. Jordan Baker invece meritava una seconda impressione, e la invitai a fermarsi per un caffè.

Accettò, aveva ancora un paio d’ore prima dell’appuntamento successivo e il cielo minacciava pioggia. Solo che non c’erano bar nei dintorni, e quelli che c’erano erano chiusi, e quelli che non erano chiusi erano frequentati da bande di mafiosi motociclisti drogati, che seduti sulle loro harley pretendevano dai clienti il pizzo, ma in spiccioli, e nel frattempo sgasavano davanti al bancone.

Ci restava solo il messicano ambulante, così facemmo conoscenza davanti ai peggiori burritos della mia vita, quelli serviti da Wang Chang Gonzales: cucina messicana cantonese.

“Che lavoro fai?”, mi chiese.
“Nessuno. Sono il protagonista bidimensionale di un racconto, vivo episodi slegati da un contesto per venire incontro alle esigenze di un autore privo di fantasia. Pensa che qualche settimana fa ero a Vienna, al ricevimento di un personaggio morto da un secolo. Fra l’altro sono quasi sicuro di avertici incontrata, è possibile?”
“Si, ero io: i grandi sconvolgimenti internazionali sono una manna per noi agenti immobiliari, si liberano di colpo un sacco di proprietà, a muoversi in tempo c’è da concludere ottimi affari.”

Non mi tornava, l’Arciduca d’Austria era ancora vivo la sera del ricevimento, come faceva questa qui a sapere che il suo assassinio avrebbe scatenato la più sanguinosa guerra di tutti i tempi?

“Beh, vedi”, mi rispose, “la concorrenza è agguerrita, e certe volte siamo costretti a prendere contatti con il venditore prima ancora che sappia di esserlo.”
“Va bene, ma come si fa a sapere chi venderà casa sua se neanche lui ha ancora deciso di venderla, scusa?”
“Certi equilibri sono così precari che se sai dove toccare basta una spintarella per far venire giù tutto. Diciamo che io mi occupo di spintarelle.”
“Ma.. mi stai dicendo che quell’anarchico serbo..”
“Mio cugino Riccardo.”
“Tu sei una donna pericolosa”, dichiarai ammirato. “E bella.”
“E anche un po’ stronza, lo ammetto.”
“Le donne belle e stronze esercitano su di me un fascino irresistibile. Mi lasci il tuo numero di telefono?”

Dopo il secondo caffè eravamo ancora lì a raccontarci cose, ma Wang Chang Gonzales ci chiese di liberare il banco, che la polizia era già passata diverse volte e lui non aveva il permesso per occupare il suolo pubblico, doveva telare.
Io però non avevo il numero di Jordan, e mi seccava di apparire troppo insistente.

“Senti, dove hai l’appuntamento? Magari ti accompagno, ho la macchina qui dietro.”
“La macchina in centro a Manhattan deve costarti una fortuna, come fai?”
“Ma no, è solo una diceria, in realtà è molto vantaggioso!”, risposi, spaccando il vetro di una Ford parcheggiata lì accanto.

Ovviamente fu un viaggio lunghissimo, girare per Manhattan non è neanche troppo difficile per chi è allenato ai sensi unici impossibili di Genova, ma io mi trovavo lì da non più di una pagina, e di certo non ci avevo mai guidato. Senza contare che il cambio automatico mi dà in culo da morire.
Dopo due ore ci trovavamo ancora all’angolo fra la Broadway e la Ventiduesima, in direzione ovest.

“Non sono sicura che questa sia la strada giusta, però”, mi disse la passeggera.
“Dove hai l’appuntamento?”
“Parigi. Davanti alla metro di Abbesses.”
“Mi sa che farai tardi”, mi rammaricai.
“Non fa niente, è stato un bellissimo viaggio. Magari prendo un taxi.”

Abbandonai la macchina in mezzo alla strada e mi avvicinai al primo taxi che si fermò a strombazzare arrabbiato. Aprii la portiera e feci accomodare Jordan Baker, poi restai lì a guardarla, con lo sportello in mano, incapace di chiudere l’incanto.

“Posso rivederti?”, le chiesi.
“Certo!”, disse, e sorrise, e i clacson furibondi intorno tacquero di colpo.

Come non dipingerei mai uno svincolo autostradale su un paesaggio di Monet, così non mi sentii capace di rovinare la poesia di quel momento con una domanda prosaica come il suo numero di telefono: restai lì a guardarla andare via su un taxi guidato da un sikh col turbante. Una ragazza dai capelli biondi, con una camicetta bianca, su un taxi giallo. Il turbante era rosso. E io non lo saprei disegnare, uno svincolo autostradale, Monet o meno.

2.
Per un po’ cercai di rivederla contattando tutte le agenzie immobiliari della città; credo di avere visitato ogni appartamento dal Bronx a Staten Island, se avete intenzione di comprare casa da quelle parti chiedete pure a me. Tutto inutile, Jordan Baker era scomparsa, e la cosa peggiore era che nessun agente sembrava conoscerla, era come se fosse uscita da una scatola per regalarmi quel bellissimo pomeriggio e e poi sgattaiolare via con la mia anima sottobraccio.
Alla fine rinunciai e tornai alla mia solita vita, che però non avevo, essendo un personaggio creato apposta per questo racconto. Trascorrevo le giornate ciondolando per la città, dentro e fuori dalle librerie dove compravo vecchi tascabili dalle pagine stropicciate, mi fermavo a mangiare in certe trattorie giapponesi sconsigliate dalle guide turistiche, per vedere se è vero che ti danno da mangiare il pesce palla velenoso. A pensarci adesso era un’idea del cazzo, meno male che non ne ho mai trovato nessuno. Una sera ero in una stazione della metropolitana nell’Upper West Side, ad ascoltare un nero con la tromba che sapeva fare tutto Kind Of Blue di Miles Davis, uguale preciso a lui.

Eravamo una decina ad assistere a quella meraviglia, ogni tanto si fermava, qualcuno gli buttava un paio di dollari e lui riattaccava, come un juke box con un disco solo. C’era una ragazza bassina, un vestito piuttosto corto che le lasciava le gambe scoperte, e un paio di scarpe col tacco. Portava un panama sui capelli neri e teneva le spalle in avanti, come se Miles Davis le avesse riportato in mente qualcosa di doloroso. Ogni tanto un tic nervoso le chiudeva un occhio, non dava l’impressione di una persona serena che si stava godendo il concerto.

Mi avvicinai, sono sempre stato attratto dal subbuglio interiore, e poi era carina, e io non avevo niente da fare. Si, indossava degli occhiali dalla montatura pesante, come voleva la stupida moda di quel periodo, ma più la guardavo più la trovavo piacevole, semmai ci fossimo sposati le avrei chiesto di mettere delle lenti a contatto. Ad un certo punto si mosse per buttare una manciata di spiccioli nell’astuccio del musicista, e inciampò franando addosso a un tizio pelato in camicia celeste, probabilmente un impiegato di ritorno dall’ufficio.
La ragazza con gli occhiali da hipster si scusò con impeto, ma il tizio non sembrava essersela presa, tutt’altro: le restituiva occhiate generose alla scollatura del vestito e l’aiutava a ricomporsi con manate troppo amichevoli. Lei cercò di divincolarsi, ma quello aveva mani dappertutto e non voleva proprio saperne di smettere. Ad un certo punto perfino il nero con la tromba gli aveva detto di piantarla, ma il tizio gli aveva risposto secco di farsi i cazzi suoi Duke Ellington, dimostrando grosse carenze di cultura musicale. Il nero con la tromba era diventato un nero incazzato senza tromba e gli si era buttato addosso. Per il pubblico non faceva alcuna differenza se assistere a un concerto jazz o a un incontro di lotta libera, ma la ragazza si era messa a urlare come un’indemoniata: “pervertito di merda!” al tizio che la palpava, “negro di merda!” al musicista e “americani di merda!” al pubblico indifferente.

La situazione era critica, presi la ragazza per un braccio e la tirai via, prima che qualcuno potesse offendersi e allargare la rissa oltre i due che ancora si dimenavano sul marciapiede.

“Si può sapere che problemi hai?”, le chiesi mentre la tiravo. Lei assumeva pose da contorsionista e cercava di colpirmi con una borsa di tela che recava il marchio di una libreria del centro. Conoscevo quel negozio, ci si comprava bene.

“Lasciami!”, strillava, e avrebbe attirato l’attenzione di qualche altro musicista di animo nobile, perciò la lasciai. Ne approfittò per colpirmi con la borsa: vendevano anche libri belli pesanti, in quel negozio.

“Ma che cazzo fai?”, ci chiedemmo all’unisono.
“Io? Tu, piuttosto!”, rispondemmo. Poi l’assurdità del dialogo ci apparve chiara, e finimmo a ridere in un bar.

Si chiamava Luna, che in quanto a nomi di merda è secondo solo a Zuleika, era messicana e si, era nervosa e triste e quel disco lo aveva regalato al suo ex fidanzato per il loro anniversario, e da tre settimane si erano lasciati, e lei navigava a vista in quelle acque insidiose che separano il momento in cui esci da una relazione e quello in cui smetti di credere che possa ricominciare, quando cerchi di dimenticare quel che è stato e ti ripeti ogni due minuti che è finita, ma senza provarci davvero, come se anche la sofferenza fosse un modo di prolungare la vostra storia.

“Lo sapevo che me ne dovevo andare, che mi stavo facendo male, ma volevo stare lì e prendermele tutte in faccia quelle note, volevo darmi una scusa per tornare a casa e piangere ancora.”, mi raccontò, e la sua risata di prima chissà dov’era sparita, ed era un peccato, che aveva una bella risata, anche se i denti erano tutti accavallati uno sull’altro, quando ci batteva il sole sopra sembrava una foto di Santorini. E gli occhiali da hipster, non dimentichiamolo. Pensai che non ne avrei fatto la donna della mia vita, soprattutto dopo avere conosciuto uno splendore come Jordan Baker, ma farla ridere si, potevo riuscirci, e le raccontai una serie di cazzate una peggio dell’altra che avevano costellato la mia vita sentimentale.

Le parlai di quando un tizio geloso mi aveva telefonato per minacciarmi, ma la linea era disturbata, e non c’è che ammazzi la tensione come uno che ti chiede continuamente di ripetere e si scusa perché non riesce a capire cosa vorresti spaccargli.
Le dissi che una volta avevo scritto una lettera bellissima a una ragazza e gliel’avevo infilata di notte nella cassetta della posta, ma avevo sbagliato cassetta, e il giorno dopo mi telefona uno che vuole conoscermi, che lui parole così dolci non non le aveva mai ricevute, e neanche quella volta lì, gli dico io, e la cosa non era proseguita, ma mi ero fatto delle domande.
Raccontai di una ragazza che mi aveva invitato a dormire a casa sua una sera, e mentre dormiva mi ero alzato e le avevo riempito la libreria di bigliettini carini, e altri ne avevo nascosti in bagno, e nell’armadietto delle pentole, e fra i tovaglioli, e sotto la cassetta dei gatti, dietro i quadri in corridoio, sotto i cuscini del divano, pensando che sarebbe stato bello che nel corso dei suoi giorni futuri ci fosse inciampata dentro: me l’ero immaginata felice di quel regalo inaspettato, e pensavo che sarebbe stata una bella scusa per telefonarmi ancora e piano piano innamorarsi di me. Solo che una settimana dopo si era rimessa col suo fidanzato, e alla fine mi aveva si, telefonato, ma per insultarmi, che i bigliettini carini li stava trovando tutti lui e ogni volta scoppiava la guerra.

Luna rideva e a vederci da fuori sembravamo proprio due persone felici, solo che quello che vedi da fuori non corrisponde mai alla verità, e quante coppie conosci che si portano sotto il sorriso una distesa di fango e ci affondano sempre di più, ma non smettono di sorridere neanche per un minuto, che poi la gente chissà che pensa. Lei il fango sotto le scarpe ce l’aveva davvero, te ne accorgevi subito, si accendeva una sigaretta dietro l’altra, le spuntava questo tic all’occhio, e quando le sembrava che fossi distratto abbassava lo sguardo e incassava le spalle e sospirava.

Io con le scarpe sporche ci sono nato, mi sento sempre fuori posto e mi dibatto fra la voglia di osare e la sicurezza del mio orticello. Per essere un personaggio bidimensionale sono fin troppo complicato.

“Ti piace il mare?”, le domandai.

“Mmm”, rispose, e mi lanciò un’occhiata sospettosa. Credo si aspettasse un invito, e mi stava già pesando come quello che dopo dieci minuti è già lì che ci prova.
“A me il mare piace, ma sono di quelli che al mare stanno sempre dove si tocca.”, le dissi.
“So nuotare, non è quello, ma tutto quell’ignoto che mi si apre sotto i piedi è troppo spaventoso da affrontare, mi mette ansia pensare a quante cose possono nascondersi dove non si vede più il fondo. Sarebbe bello essere un palombaro e camminarci in mezzo a quell’ignoto, non sarebbe più ignoto, e avrei un bello scafandro pesante a proteggermi, ma non sono un esploratore degli abissi e me ne sto nell’acqua bassa, nuoto avanti e indietro sognando di trovarmi in mezzo all’oceano, nessuna traccia della riva in nessuna direzione, solo io e il mare.”

Adesso Luna mi guardava con la faccia di quella che non ha capito dove stai andando a parare.

“Quando il sogno si fa troppo reale”, continuai, “e mi prende l’angoscia non devo fare altro che allungare le gambe, e la sabbia sotto le dita mi restituisce subito la tranquillità. Però questa cosa non va bene.”
“È tutta una metafora elaborata per dirmi che bisognerebbe osare di più? Mi sembri uno da metafore complicate tu.”
“Sto dicendo che non puoi chiuderti in un guscio di noce e sentirti il re di uno spazio infinito, perché alla fine sei solo il re del tuo cazzo di guscio di noce. Che non ci sarebbe niente di male ad accontentarsi, ma non ce la faccio, continuo a sognare di andarmene, sono felice solo ogni tanto, e come fai ad essere felice a singhiozzo, nessuno la merita una miseria così.”

“Non te la passi bene nemmeno tu, eh?”

“Finisci per chiuderti in una gabbia per tenere fuori le cose brutte, te ne scegli una grande, gironzoli un po’ e piano piano ti crei l’illusione di essere libero, ma non ci si può vivere bene in una gabbia, anche se è bella grande: prima o poi arrivi a toccare le sbarre, e l’illusione crolla, e cosa fai?

Puoi voltarti e rimetterti a camminare nella direzione opposta, o sederti dove non si vedono le sbarre e decidere di rimanere lì, ma in quel modo ti crei solo un’altra gabbia più piccola.”

Non so da dove mi fosse uscito tutto quel malessere, un attimo prima stavo ridendo delle mie sfighe, quello dopo ero in pieno trip psicanalitico e facevo a cazzotti con la mia infelicità cronica.
Ci guardammo per un po’ in silenzio, era chiaro a tutti e due che in quel bar non si stavano mettendo le basi per una storia interessante, quello era il funerale della serenità. Ci salutammo fuori dalla porta e quando mi guardai intorno vidi solo una distesa di palazzi senza significato, e macchine che non andavano in nessun posto, e capii che era venuto il momento di tornare a casa.

Santostefano è quel giorno che non sa di niente fra la colossale mangiata di natale e la monumentale ciucca di capodanno. Tutti i negozi sono chiusi, tutti gli amici sono chiusi (nei negozi?), non si esce perché non si sa dove andare, in casa non si sa cosa fare e più di uno il giorno di santostefano ha cominciato a drogarsi per vedere cosa succedeva e poi non è stato più capace di smettere. Sono sicuro che quelli che si ammazzano prima di natale lo fanno perché consapevoli di non poter reggere l’infinito nulla di un santostefano. Io per fortuna ho un gatto che attira l’attenzione su di sé mostrandomi che le pisciate sul letto non sono la cosa peggiore che riesce a combinarmi. In effetti il Punitore di Garth Ennis con le pagine zuppe è una tragedia a cui non ero preparato. Grazie, João, per questa nuova consapevolezza, se un giorno sarò un uomo migliore sarà merito tuo. Peccato che non potrai godertelo, perché per allora sarai diventato un paio di guanti.
Non è giusto soffrire soli, mal comune mezzo gaudio dicono, perciò adesso vado a prendere il sassofono e mi esercito un paio d’ore sulle note lunghe, così anche i vicini potranno condividere con me questo giorno infelice.

la desolazione di santostefano

Una volta non era così. Mi ricordo di un anno in cui mi svegliai la mattina dopo i bagordi del 25 con un barattolo aperto di funghetti sott’olio in grembo, una grossa macchia di unto che si allargava sul maglione nuovo e i passi minacciosi di mia moglie nella stanza accanto. Naturalmente il maglione me l’aveva regalato lei, e altrettanto naturalmente la macchia non sarebbe andata via mai più. Saltai giù dal divano facendo volare il gatto che mi dormiva ignaro sulle ginocchia, e mandandolo a rovinare su un presepe in cristallo veramente brutto, ma anche veramente caro, che ci aveva regalato sua madre l’anno prima, e avevamo dovuto esporre per pagare il fio della sua visita di lì a pochissimo. Sapete quel luogo comune per cui raddoppiare le colpe dimezza la punizione? È falso. Federica, mia moglie, sapeva riconoscere il suono di una madonnina di cristallo che si sfascia su una piastrella in gres porcellanato, anche attraverso una porta e diversi metri di corridoio, e i suoi passi acceleravano improvvisamente nella direzione del salotto, la sua voce rauca da tabagista incallita mi presentava un trailer del film che stava per andare in onda:
“Checcazzo hai rotto adesso?”

una roba così, per capirci

Adesso. Lascia intendere che non era la prima cosa che rompevo, e che la sua pazienza era già stata messa alla prova, come sottolineato da quell’esclamazione così scurrile. Se fossimo in una serie televisiva sarebbe il momento del flashback, e se la serie televisiva fosse prodotta dal canale HBO il flashback comincerebbe con una scena di sesso molto esplicita. Purtroppo il mio blog non è finanziato da reti via cavo americane specializzate in softporno, quindi niente scena di sesso, ma in fondo è una fortuna, perché il flashback serve ad introdurre il personaggio di mia suocera.

Alla signora Violetta Francioso non ero mai stato simpatico, neanche prima che mi beccasse a letto con sua figlia. Questione di pelle, non si può essere simpatici a tutti, e quella volta che ci eravamo insultati per un parcheggio sotto casa sua non aveva aiutato, ma che fosse la madre della mia ragazza lo avevo scoperto solo un minuto più tardi quando avevamo fatto la stessa strada fino allo stesso portone, perciò per me non conta. Per lei evidentemente si, perché è una donna rancorosa, e questo suo astio nei miei confronti non mi aveva reso le cose più facili quando il mio rapporto con Federica era peggiorato. Ultimamente il nostro matrimonio sembrava finito in un vicolo cieco, ci si parlava poco, e spesso per rinfacciarsi stupidaggini, e si passava un mucchio di tempo separati: se io ero in cucina a leggere lei stava in salotto davanti alla televisione, appena spuntavo di là lei si ricordava di avere l’armadio da riordinare in camera da letto. Le distanze sono un concetto relativo anche in un appartamento condominiale lontano dal centro, quando non vai d’accordo col tuo coinquilino.
Non lo so perché ci eravamo allontanati fino a quel punto, forse non c’erano più argomenti di cui parlare, forse non c’erano mai stati e avevamo sempre fatto finta di non saperlo perché stare da soli ci sembrava un destino peggiore. Non lo so, e neanche m’interessa, le storie finiscono e cambiare è giusto e necessario, e anche in quei giorni aspettavo che il nostro malato terminale tirasse finalmente le cuoia per raccogliere i miei stracci e andarmene verso una nuova vita più soddisfacente. “Non potevi prendere tu la decisione?”, mi chiederà qualcuno. No, sono un vigliacco, e poi farsi lasciare ti mette in una posizione di vantaggio nella spartizione dei beni comuni, e quell’appartamento era davvero confortevole.

La signora Violetta Francioso per come la ricordo.

Insomma, l’unica persona convinta che le cose fra me e Federica potessero continuare era proprio l’ultima che avrei visto a difendere la santità della nostra unione: la signora Violetta, mia suocera. Si era invitata a pranzo da noi quel giorno per cercare di salvare un matrimonio in crisi, o impedire a quella cretina della figlia di rompere per prima, rinunciando così ai vantaggi di cui sopra.
E fu così che mi ritrovai in piedi in mezzo al salotto con una macchia indelebile sul cuore, le schegge pericolose di una donna che mi detestava e la tempesta perfetta appena dietro la porta. C’è gente che si è sparata in faccia per molto meno.

La prima cosa che mia moglie vide fu il gatto: le si fiondò in mezzo alle gambe soffiando come un cobra e mandandola a sbattere contro lo stipite della porta. Lasciava una scia di zampette rosse sul pavimento, doveva essersi tagliato con una scheggia; per come la vedevo io se il gatto era ferito la colpa era di quella cicciona malvestita e dei suoi soprammobili letali. Uno a zero per me.

La vista del sangue fece dimenticare a Federica la ragione per cui mi aveva raggiunto in salotto, si precipitò dietro alle impronte rosse come Pollicino, lasciandomi il tempo di pensare a una via di fuga.

Mi levai il maglione e lo usai per raccogliere i cocci in un unico mucchietto. Ce n’erano ovunque, sul divano, sul tappeto, pezzi di Sacra Famiglia erano volati fin sotto la finestra, non proprio ciò che il Papa intende quando parla di “diffondere il verbo”, ma ognuno fa quel che può, no?
Usando l’ex-regalo della mia quasi ex-moglie come un guanto raccolsi il mucchio di vetri e mi affacciai in corridoio con circospezione: nessuno. La porta di casa era aperta, forse stava correndo dal veterinario col gatto sanguinante in braccio. Meglio, potevo sbarazzarmi del corpo del reato senza testimoni.
Feci quattro passi verso la cucina, ma ne uscì Federica, e quasi ci sbattemmo contro. Aveva il gatto in braccio, gli aveva fasciato una zampa. Lo sguardo di lei cadde su ciò che io tenevo in grembo, e a vederci da fuori, uno davanti all’altra, io che guardo un involto nelle mani di mia moglie, lei che guarda il mio, tutti e due agitati e scompigliati, dovevamo essere proprio ridicoli. Però la signora Violetta non stava ridendo. Era apparsa come dal nulla nella cornice della porta aperta, e ci fissava come un arbitro di boxe pochi attimi prima di dare il via al match.

Ecco, quello fu un santostefano felice. Cioè, no, nella classifica dei miei momenti più imbarazzanti sta subito sotto quell’altra volta in cui la signora Violetta scelse il momento sbagliato per entrare in una stanza. Ripensandoci è incredibile come quella donna riuscisse sempre ad entrare in scena nel momento peggiore, doveva avere una specie di sesto senso: “Il mio senso di suocera sta pizzicando! Spalanchiamo questa porta e vediamo cosa succede qui dietro!”
Però a distanza di anni non posso dire che quello fu un brutto giorno di santostefano, perché una volta rassicurati i vicini e i carabinieri che avevano chiamato, convinti che ci stessimo ammazzando, finì tutto per il meglio: Federica se ne andò in lacrime, sua madre se ne andò in lacrime, il gatto non so, credo che se sia andato alla chetichella e da allora non ho più visto nemmeno lui.

Adesso ho un altro gatto, vivo in un altro appartamento e sono tornato a trascorrere degli orrendi santistefani piovosi in cui non succede niente, talmente niente che arrivo a rimpiangere quei bei momenti carichi di tensione. Quasi quasi mi risposo.

M: “E’ ora di mettersi in cammino, avete trovato niente?”
G: “Sarà anche il suq più fornito della Mesopotamia, ma per i bambini c’è davvero poco.”
B: “Io ho preso un braccialetto d’oro.”
M: “Un classico. E tu, Gaspare?”
G: “Gli ho comprato dell’incenso.”
B: “Incenso? E ti sembra un regalo adatto a un bambino?”
G: “Ma hai sentito dove vivono? In una stalla! Hai idea della puzza che ci dev’essere? Vedrai se apprezzeranno di più il tuo oro o il mio incenso!”
B: “E tu, Melchiorre, cos’hai comprato?”
M: “Ho trovato un banchetto là dietro che vende prodotti biologici, gli ho preso della mirra.”
G: “E ti pareva che non faceva il pazzesco! L’avrai pagata una fortuna!”
M: “E’ tutta roba naturale, senza pesticidi. Beh, si, è un po’ cara, ma la qualità si paga.”
B: “Melchiorre se lo può permettere, viene da una famiglia di nobili.”
M: “Cosa vuol dire? Veniamo tutti da famiglie nobili, non ci chiamiamo mica Magi Metalmeccanici!”
B: “Si, ma la tua famiglia è sempre stata quella più ricca, dai. Lo sanno tutti.”
M: “Scusa, non ho capito. Cosa c’entra la mia famiglia adesso?”
B: “Ma si, siete sempre stati quelli eccentrici, gli anticonformisti.. Mica per niente ti hanno chiamato Melchiorre, voglio dire.”
M: “Embè? Tu ti chiami Baldassarre!”
B: “Ma Baldassarre è un nome normale! Che razza di genitori chiamerebbero il loro figlio Melchiorre? Poi per forza che viene su strano!”
M: “Io non sono strano! Come ti permetti?”
G: “Ragazzi basta! Piuttosto, la sapete la strada?”
M: “Mio cugino mi ha spiegato che bisogna attraversare il deserto fino ad Aqaba, poi svoltare a destra.”
B: “Tuo cugino Garmin, dici? Stiamo freschi allora! Una volta si è perso al mercato!”
M: “Oh! Prima i miei genitori, adesso mio cugino, si può sapere cosa vuoi da me?”
B: “Cosa voglio io? Cosa vuoi tu piuttosto! Mi hai convinto a prendere ferie per venire con voi a fare le vacanze in Giudea, sole e figa in quantità, e adesso salta fuori che si va ad adorare un bambino! Chi è questo bambino, cosa c’entriamo noi con questo bambino?”
M: “Come sarebbe chi è? È il Messia! L’hai letto il tuo contratto quando sei stato assunto? In caso di nascita di Messia i Re Magi sono tenuti a fargli visita e omaggiarlo con doni, è scritto nelle clausole! O credevi di cavartela scrivendo un paio di oroscopi alla settimana?”
B: “E chi l’ha detto che è il Messia? Cos’ha, un cartello appeso fuori dalla stalla?”
G: “Una stella.”
B :“Che stella?”
G: “La sua stella, ma come ci sei diventato remagio?”
M: “E glielo chiedi ancora? Non lo conosci Hussein di Baghdad?”
G: “Il re? E cosa c’entra con lui?”
M: “Diglielo, Baldassarre.”
B: “Basta con questa storia! Mio zio non c’entra niente, sono entrato alla scuola zoroastriana lavorando sodo e senza raccomandazioni!”
M: “Si, certo. E il posto da astrologo di corte l’hai ottenuto attraverso un concorso.”
G: “Non si fanno i concorsi per diventare astrologo di corte, lo sanno tutti. È un posto che si tramanda da padre a..”
M: “Eccallah!”
B: “Basta con queste fandonie! Ditemi piuttosto da che parte dobbiamo andare, prima adoriamo il bambino e prima possiamo andare in spiaggia!”
M: “Mio cugino dice che è tutta dritta fino al mare, bisogna seguire le indicazioni per Sharm El Sheikh.”
B: “Bel posto, ci sono stato l’anno scorso con la tipa.”
G: “La fenicia? Com’è che si chiama?”
B: “Ariene.”
G: “Ah si, bella topa, se mi permetti. State ancora insieme?”
B: “No, ci siamo lasciati il mese scorso.”
M: “Uh che peccato! E come mai?”
B: “Guarda, non mi va di parlarne, ti spiace?”
M: “No no, ci mancherebbe, scusami.”
B: “…”
M: “…”
G: “…”
M: “..Certo, adesso è tutto più chiaro..”
B: “Cosa?”
M: “La faccenda delle vacanze in Giudea, dico. Se stessi ancora con lei non avresti accettato.”
G: “In effetti mi stavo proprio chiedendo come mai ti lasciasse partire.”
B: “La volete smettere? Ho detto che non mi va di parlarne!”
M: “Vedrai che te la faremo dimenticare in fretta!”
G: “Si, ho sentito che le giudee fanno certi lavoretti..”
M: “Chiodo schiaccia chiodo!”
B: “Basta!”
M: “Scusa.”
G: “Scusa.”
B: “…”
M: “…”
G: “…”
B: “Che lavoretti?”
G: “Eh?”
B: “Le giudee.”
G: “Ma niente, roba che ho sentito da un amico, stupidaggini.”
B: “Eh.”
G: “No, è che dicono che siano brave, tutto lì.”
B: “Brave a fare cosa?”
G: “Ma lo sai, quelle robe che si raccontano.. lo sai, no?”
B: “E no che non lo so, sennò non te lo chiedevo. Che robe?”
M: “Hai mai sentito parlare di Sodoma e Gomorra?”
B: “Minchia! Quelle Sodoma e Gomorra?”
G: “Sono poco distanti da dove andiamo noi.”
B: “Ma sapevo che le avevano chiuse.”
M: “Si, ma lo sai come vanno queste cose, una volta che si crea il giro..”
G: “Diciamo che tutta la regione ha mantenuto un certo.. gusto per la trasgressione.”
M: “Insomma, se uno sa dove cercare..”
B: “E noi lo sappiamo?”
G: “Abbiamo un paio di indirizzi”
B: “Ma grandi! Allora è deciso, eh? Si va a salutare il ragazzino e via! Non è che ci dilunghiamo, eh?”
M: “Tranquillo, facciamo una visita di cortesia, molliamo i doni e ce ne andiamo.”
B: “Un paio di preghiere, due inchini.. Mezz’ora e siamo fuori?”
G: “Capirai, in una stalla. Mezz’ora sarà tanto, venti minuti e chi s’è visto s’è visto!”
M: “E poi quindici giorni di lussuria sfrenata!”
B: “Sole, mare e figa!”
G: “Che gran lavoro fare i re magi!”
B: “Oh, raga! Che ne dite se l’anno prossimo prevediamo l’arrivo di un altro Messia?”
M: “Mmm, dici che si può fare?”
B: “E che ci vuole? L’astrologo di corte può fare tutte le previsioni che gli pare.”
G: “Ma sai che non è una cazzata? Arriviamo in questo posto.. com’è che si chiama?”
M: “Betlemme.”
G: “Betlemme. Facciamo l’adorazione come va fatta..”
B: “Breve.”
G: “Certo, brevissima. Poi quando torniamo indietro, fra due settimane, diciamo che le stelle si sono sbagliate.”
M: “Le stelle?”
G: “Eccerto! Vuoi mica dire che ci siamo sbagliati noi? Che razza di astrologi saremmo? Si sono sbagliate le stelle, quello non era il Messia vero, e l’anno prossimo prevediamo un’altra nascita in un altro posto. Come la vedete Ibiza?”
M: “Ma le stelle non si possono sbagliare, dai!”
G: “Una congiunzione astrale negativa ha occultato la visione, checcazzo ne so! Diamo la colpa ad Angra Mainyu, tanto gira che ti rigira c’è sempre lui di mezzo. Semmai ce lo facciamo confermare dall’astrologo di corte.”
B: “Io?”
G: “No, tua madre. Certo che parlo di te, sei l’astrologo più importante del regno, la tua parola varrà qualcosa o no?”
B: “Si, beh.. certo.. è che non so se è il caso di tirare troppo la corda.”
M: “Baldassarre, stiamo parlando di Ibiza, la perla del Mediterraneo!”
G: “Viaggio e soggiorno a spese del regno!”
M: “Se le giudee ti attizzano pensa a cosa devono essere le spagnole!”
B: “Ragazzi, siete due diavoli!”
M: “Tre diavoli, collega!”
G: “Ma che diavoli! Siamo i re magi!”
M: “Andiam, andiam, andiamo ad adorar!”

(si allontanano fischiettando)

Esco dal cinema, porto a casa i miei amici e mentre sto facendo retromarcia per rimettermi in strada arriva un Golf nero tutto assettato, che sta per superare la Velocità Smodata, ma prima di finire in Zona Plaid mi si infila nel bagagliaio.
L’urto è tremendo, la macchina gira su sè stessa come priva di peso, cerco di sganciarmi per non essere trascinato via, ma è impossibile, chi ha costruito quelle cinture di sicurezza sapeva il fatto suo.

Dopo un po’ il veicolo si stabilizza in mezzo alla strada, ancora sulle sue ruote. Dallo specchietto riesco a vedere il mondo con le sue luci accese, senza l’ingombro del lunotto posteriore e dei piantoni e della carrozzeria che una volta componeva il retro della mia auto, perché dove una volta c’era il bagagliaio di una Toyota Yaris adesso c’è lo spazio.
Sul sedile accanto al mio George Clooney, vestito da astronauta, sorseggia con la cannuccia una bottiglia di vodka saltata fuori da sotto un sedile, e mi sorride placido: “È bello qui, vero? Sei al sicuro qui dentro, nessuno può farti del male, puoi spegnere la luce e dimenticarti di tutto.. Ma non è il momento di lasciarsi andare, devi scendere e scassargli la faccia a quello stronzo, hai visto come veniva giù? E parlava al cellulare, pure!”.
Scrollo la testa e la visione se ne va, anche se poteva almeno lasciarmi la vodka, che credo di averne bisogno, ma prima è meglio scendere e valutare l’entità dei danni per poter fare rapporto al mio carrozziere.

L’asfalto intorno al relitto della Yaris è disseminato di frammenti, che riflettono la luce dei lampioni ognuno a suo modo: i miei occhi si spostano da un pezzo di paraurti elastico e poroso a una scheggia di luce di posizione, trasparente e appuntita, fino a un rettangolo di alluminio che chissà per cos’era stato disegnato dagli ingegneri che lavorano laggiù, poi il vetro del lunotto posteriore, un altro pezzo di paraurti di cui si indovina la forma, poi un paio di nike rosse, dei jeans di marca ignota stretti sulle caviglie, un giubbotto Paul & Shark nero e la faccia di un tizio con la bocca spalancata e le sopracciglia all’insù che mi sta urlando qualcosa, ma è come se fossi nello spazio, le mie orecchie non percepiscono alcun suono.
Concentrati, Pablo! Concentrati!

“…osacazzofaih! Manommaivistoh! Coglioneh! Lamiamacchinah!!”

Mi volto e c’è George Clooney che mi guarda dal sedile del passeggero del mio catorcio, sereno e pacioccone come se stesse guardando uno dei suoi film in televisione, ma non Syriana, sennò ti saluto la serenità. Alza le spalle come a dire che me l’aveva detto.

“..damiinfacciaquandotiparloh! Coglioneh! Lamiamacchinah!”

Il mio pugno saetta nell’aria come un proiettile e il suo naso esplode senza alcun rumore. Un fiore di sangue e muco sboccia nello spazio fra noi per un istante, poi si disperde in mille direzioni. Il cretino perde la perpetua lotta contro la gravità e va giù senza aggiungere altri improperi.

Buzz Lightyear da Comando Stellare

“E adesso?”, chiedo a George Clooney che continua a sorridere soddisfatto.
“Ah non guardare me”, risponde, “io servo solo ad attirare pubblico al cinema, sennò un film con Sandra Bullock non se lo sarebbe cagato nessuno! Ma se proprio vuoi un consiglio ti direi che adesso devi cercare di tornare a casa sano e salvo.”
“E come? È notte e qui non c’è nessuno! È una zona talmente desolata che avrei più possibilità di incontrare degli esseri umani se fossi in orbita intorno alla Terra!”
“Tut tut, come direbbe Zio Paperone. La vedi quella pensilina laggiù? È la fermata dell’autobus, e se ti sbrighi potresti riuscire a prendere l’ultimo prima di domani mattina.”
“E come ci vado fin laggiù? La macchina è distrutta!”
“A piedi, come sennò?”
“A piedi? Ma quanta vodka hai bevuto? È lontanissimo! Saranno duecento metri! Non ho sufficiente autonomia per arrivare fin là!”
“Ma devi camminare, di che autonomia parli?”
“Del cellulare, testadicazzo! È quasi scarico, non ci arrivo fin laggiù senza cellulare! E se mi perdo? Senza il navigatore del telefono potrei girare a vuoto per l’eternità!”

George Clooney non riesce a capire e mi guarda con gli occhi sgranati, seppure ostenti ancora il suo sorriso beota. Mi indica col braccio teso la pensilina sul marciapiede, mi dice che è impossibile sbagliare traiettoria, basta camminare nella stessa direzione fin là, ma non ne voglio sapere, è troppo pericoloso! So di cosa parlo, una volta una mia amica non ha voluto affidarsi alla tecnologia ed è finita con la macchina in un quartiere malfamato. La mattina dopo c’era rimasto di lei soltanto l’accendisigari.

“Senti Ryan, quell’autobus è la tua unica possibilità di tornare a casa sano e salvo, fai come ti dico e domani mattina sarai a casa tua a Villavecchia e potrai raccontare la storia più pazzesca della tua vita. A proposito, che razza di nome è Ryan?”
“Che ne so, mi chiamo Pablo.”

Le parole di George Clooney mi infondono quel coraggio che mi occorre per abbandonare il relitto al quale sono appeso e tentare la traversata impossibile fino alla fermata dell’autobus. Mi stacco con un sospiro dallo specchietto retrovisore, che cade a terra con un tonfo, e comincio a camminare, dapprima molto lentamente, poi sempre più veloce. Alle mie spalle la voce dell’ex dottor Ross mi grida di sbrigarmi, che l’autobus sta arrivando, poi di rallentare, che sono arrivato, poi mi volto per vedere cos’ha da sbraitare, che non capisco una parola, e di colpo sbatto contro il palo della fermata. Sono arrivato! Ce l’ho fatta! Sono salvo!

Commander Chris Hadfield is not amused.

Allo stremo delle forze sollevo un braccio, e il mezzo arancione si ferma. Mi butto contro la porta, che si apre di colpo facendomi perdere l’equilibrio, ma riesco a rimanere agganciato e metto un piede sul gradino, poi l’altro, poi qualcosa mi trattiene per la giacca, ma cosa cazzo??
È il tizio della golf, la faccia rossa, non vuole lasciarmi partire senza avergli prima compilato il foglio di constatazione amichevole.

Mi stacco dalla maniglia dell’autobus e gli crollo addosso con tutto il mio peso, facendolo finire per terra, poi gli salto sopra e lo uso per darmi una spinta verso la salvezza. Le porte si chiudono un centimetro dietro la mia scarpa. Sono salvo!

Disteso sul pavimento del notturno Borgoratti/Stazione Brignole sento tutta la fatica della mia impresa eroica salirmi per le gambe. I muscoli tremano, non so più trattenere le lacrime, e mi lascio andare in un pianto disperato, ma felice. Ringrazio George Clooney, ovunque sia, gli prometto che guarderò anche Ocean Twelve, nonostante il primo mi abbia fatto veramente cagare.

Poi mi arriva una voce dall’alto, immagino sia Dio, non ho la forza di aprire gli occhi, solo che questa voce mi chiede se sto bene e poi se ho il biglietto, e non ricordo molto del catechismo, ma Dio non ti chiede se hai il biglietto, perciò mi sa che la mia avventura non è ancora terminata, e allora è meglio se tengo gli occhi chiusi e faccio finta di essere morto.

Dalla finestra del mio ufficio in Bernabeu Straβe potevo vedere le luci dell’Empire State Building cambiare colore, le finestre riflettere gli ultimi raggi rossi prima del tramonto. Sai quell’ora blu che piace tanto ai fotografi, e che corrisponde più o meno al crepuscolo, e che ammanta di una luce magica le strade e gli edifici? A Villavecchia non ce l’abbiamo. Qui la luce è grigia, in questa stagione, poi si spegne e resta il buio umido, l’odore di nebbia e il suono dei rospi. Anche d’autunno, qui i rospi ci sono tutto l’anno, siamo la principale meta del turismo rospese, ci vengono a fare perfino la settimana bianca, mi è già capitato, a metà gennaio, di sentire sotto lo scarpone il suono viscido e croccante (una cosa tipo sguish crik) caratteristico di quando stritoli un capofamiglia, guardare giù e vedere i suoi guantini sepolti nella neve pressata dalla mia suola.

Non mi sentivo in vena di romanticherie, perciò cambiai sfondo del desktop con un abile tocco di mouse, e il più famoso simbolo di New York lasciò il posto a un’anonima modella tettona. Dalla finestra arrivava il suono di organetto di un luna park, quella melodia sfiatata che mi riportava con la memoria a Coney Island, quando passeggiavo mano nella mano col mio grande amore e ci fermavamo a comprare lo zucchero filato alla bancarella davanti alle montagne russe, e poi guardavamo l’oceano e sognavamo di attraversarlo e lasciare quel paese così povero di speranze e rifarci una vita in Europa, magari in Italia.

Scacciai quel ricordo doloroso e guardai giù: il furgoncino del torrone apriva la fiera di quartiere, e alle sue spalle si estendevano banchi carichi di ogni mercanzia, dai formaggi di alpeggio alle collane fatte di pasta, e la strada era ingombra di famiglie allegre che allungavano il collo di qua e di là.
Il Mercatino Di Villavecchia, una delle mille attività che facevano di questa strada il centro della mondanità valligiana. Non capisco proprio perché la mia ex moglie si opponesse tanto a trasferirsi proprio qui, quando in quei giorni guardavamo l’oceano e io sospiravo e le chiedevo “amore, perché non molliamo questo paese così povero di speranze e non ci rifacciamo una vita in Europa? Magari in Italia! Ho letto su una rivista che c’è questo piccolo borgo nell’entroterra genovese..”. Di solito lei mi interrompeva con astio, mi chiedeva se avevo di nuovo bevuto la candeggina, e per farmi smettere di delirare mi comprava altro zucchero filato.

Misi la giacca e feci un fischio al mio assistente, Jack Oneyed, che pisolava sul divano.

Superato il banco del torrone ci imbattemmo in quello dell’antiquariato, dove un attempato signore con un grosso sigaro fra i denti mostrava il relitto di una macchina da scrivere a un tizio con un buffo maglione a righe colorate che lo faceva somigliare a un’ape lisergica. O Grosso Sigaro era un buon venditore o l’Hippymaia non aveva mai visto una macchina da scrivere prima di allora, perché quel pezzo di metallo contorto che giaceva su un tavolino a tre gambe arabescate dai tarli non aveva neanche più tutti i tasti, e somigliava alla bocca di un tossicomane.

Lasciai il signor Barnum e la sua prole e continuai l’esplorazione del mercatino. Accanto a me Jack Oneyed annusava in egual misura le ceste appoggiate ai muri e le gambe dei visitatori, non sapendo da quale delle due aspettarsi una sorpresa.
Nè da una nè dall’altra, risultò poi. L’inaspettato ci giunse alle spalle nella figura rotonda e baffuta del maresciallo dei carabinieri, che mi chiamò da lontano e poi trotterellò fino a venirmi ad ansimare davanti. Dieci metri di corsa sono un’attività più che impegnativa per chi fa da anni una vita di scrivania.

“Renzi, lo fai ancora l’investigatore privato?”
“Marescià, vi abito di fronte, non faccia finta di non sapere come mi guadagno da vivere, eh?”
“Oh, scusa se ho cercato di non essere troppo diretto!”
“Va bene, dai. Che le serve?”
“Hanno ammazzato uno nei vicoli ieri sera, e cercando in archivio è venuto fuori che si era rivolto a te in passato. Si chiamava Franco Ratti, lo conosci?”
“Cazzo! E lo conosco si! È stato mio cliente per un anno e mezzo!”
“Di cosa si trattava?”
“Mi spiace, non posso dirglielo. Sa, etica professionale, sono certo che mi capisce.”
“Allora dovrò chiederti di farmi vedere la licenza di investigatore privato. Sono certo che anche tu mi capisci.”
“Si trattava di stalking.”

Il maresciallo strabuzzò gli occhi. “Ratti subiva stalking? E da chi?”
“No, non lo subiva, voleva praticarlo su una tizia che gli piaceva, ma siccome è illegale è venuto da me a chiedermi di farlo al posto suo. Una cosa innocente, sa, indagare su questa donna, scoprire dove abita, cosa fa nella vita, se vede qualcuno..”
“È illegale anche per un investigatore privato, che cazzo combini?”
“Infatti ho i miei metodi. Non l’ho pedinata, ho organizzato un incontro casuale, mi sono presentato e l’ho invitata a cena.”
“E hai scoperto qualcosa?”
“Un sacco di cose, ma non potevo raccontarle a Ratti.”
“E perché?”
“Era una faccenda delicata. In effetti la ragazza si vedeva con uno che aveva conosciuto al supermercato, avevano cominciato a frequentarsi e poi la cosa aveva ingranato ed era cominciata una relazione vera e propria.”
“Questa roba potrebbe essere utile alle indagini, magari Ratti è andato dal fidanzato della ragazza in un attacco di gelosia folle e questo l’ha fatto fuori!”
“Ma figuriamoci!”
“E tu che ne sai?”
“Sono io il fidanzato. Ho cercato di non farmi scoprire da Ratti, ma ho paura che se la sia data: una mattina l’ha vista uscire dal mio portone.”

La nostra conversazione venne interrotta bruscamente da un sibilo fortissimo e tutti alzammo gli occhi al cielo per cercare di capire da dove provenisse.

Non potevamo credere ai nostri occhi: un’enorme sagoma circolare avanzava lentamente nel cielo, a coprire con la sua ombra i tetti delle case.

“Minchia!”, esclamò il maresciallo.
“Minchia!”, esclamò il tizio con la pipa.
“Minchia!”, esclamai io.

Minchia arrivò dal fondo della via con un pacco di fogli in mano, tutti i permessi per organizzare il mercatino, le richieste al comune e ai vigili e le carte bollate, ma disse che quella cosa lì non l’avevano organizzata loro, si scusò coi presenti e svenne a faccia avanti.

Il mio intuito di detective mi suggerì che quell’anno il mercatino di ottobre sarebbe stato parecchio più interessante del solito.

…………………

Io però non ci sono andato lo stesso, sono stato a casa a guardare Hot Fuzz e a preparare l’insalata di polpo con le patate, che è venuta perfetta, e capisco che non sarà un piatto difficile, ma ero sicuro che il polpo sarebbe rimasto coriaceo e di pessimo umore (e vorrei vedere voi se vi infilassero in pentola e poi vi facessero a pezzetti), e invece sembrava burro, e quindi adesso me la tiro un po’.

Hot Fuzz è un film bellissimo, e a proposito di film, voglio andare a vedere Gravity al cinema. Chi viene?

Negli anni ’80 la percentuale di giovani che abbandonavano gli studi era altissima, eppure Doppio Slalom riuscivamo a girarlo lo stesso”.

Corrado Tedeschi

“Io la Valsecchi la voglio morta. Ce l’ha con me, capisci? Mi ha preso di mira! Sono sicuro che domani mi interroga, sicuro!”, esclamava Stefano mentre attraversava la stanza del suo amico con larghe falcate, agitando le braccia.

Simone non lo ascoltava, sfogliava la rivista Paninaro con occhi sognanti e sospirava.

“Oh, ma mi ascolti?”

“Secondo te se mi presentassi in classe con un piumino Moncler la Cerelli mi noterebbe?”, chiese Simone uscendo dalla trance ipnotica che il giornaletto gli procurava.

Stefano si fermò in mezzo alla stanza e lo fissò severamente.

“A parte che mi stavo lamentando di problemi di importanza vitale, che se domani prendo un brutto voto in storia mi va a puttane la pagella del primo quadrimestre e i miei non mi lasciano andare in settimana bianca, ma ti pare che la Cerelli si interessa a uno come te? Quella c’ha il grano, mi ha detto mia sorella che suo padre è un allevatore.”

“Suo padre è quello che somiglia a Kabir Bedi? Credo di averlo incontrato una volta qui fuori.”

“Ma va, stanno in una fattoria fuori città, vedessi che posto.”

“..”

“..”

“Ma se avessi un piumino Moncler mi noterebbe per forza.”

“Se potessi permetterti un piumino Moncler non vivresti in un condominio alla Ghisolfa.”

“..”

“..”

“Uno piccolo?”

Ad un tratto Simone venne attraversato da un’illuminazione, come un gatto che ti finisce fra i fari della macchina.

“Aspetta! Chi l’ha detto che il piumino dev’essere originale?”

“Simo, quelli tarocchi fanno schifo, e quelli che non fanno schifo costano tanto che alla fine ti conviene comprarti l’originale!”

“Non se te lo fai fare da Angelo Cutrona, il mago del ricamo!”

“Chi?”

“Cutrona, il sarto calabrese che sta al sesto piano. È bravo, dice mia mamma che saprebbe fare qualsiasi cosa. Lavorava per una sartoria famosa, sai? Sono sicuro che potrebbe farci un Moncler identico all’originale con due lire.”

Coi corpi invasi dall’adrenalina i due amici si precipitarono dal sarto e gli spiegarono il piano.

Cutrona era un omino dai capelli ricci legati in una coda di cavallo che gridava vendetta, i baffetti spavaldi e lo sguardo da playboy, che viveva da solo in mezzo a rotoli di stoffa buttati ovunque, manichini sdruciti e scampoli di ogni colore possibile a ricoprire il pavimento come macerie dopo un bombardamento. Sarebbe stato un ambiente perfino allegro con tutti quei colori, ma i cumuli di spazzatura che emergevano dal casino e quel giallo malato diffuso da una lampadina da 30 watt davano al quadro un aspetto deprimente, come prendere la Notte Stellata di Van Gogh e virarla seppia.

Non fece domande, non era certo la prima volta che falsificava un marchio, e per la stoffa non c’era problema, ma la difficoltà sarebbe stata reperire l’imbottitura.

“Il piumino d’oca è caro, mi ci vorranno un’ottantina di mila..”

“Ce ne occupiamo noi!”, lo interruppe Simone.

“Ah si?”, chiese Stefano.

Il sarto non fece una piega. “Questo abbasserà parecchio i costi”, disse.

Cinque minuti dopo i due ragazzi erano per strada, e con passo da bersagliere puntavano l’edicola in fondo alla via.

“Perché questa dell’inserzione su Secondamano mi sembra una cazzata?”, sbuffava Stefano.

“E’ geniale invece!”, ribattè l’amico, “Ci facciamo regalare un’oca, la spenniamo e portiamo le piume a Cutrona, e in un paio di giorni abbiamo un Moncler originale a ventimila lire!”

“E credi che siano tante le persone a Milano che regalano oche?”

Simone si arrestò di colpo e puntò un indice carico di minacce sul petto dell’amico:

“Allora chiederemo di farci regalare un’anatra!”.

Stefano non insistette oltre.

2.

La signora al telefono aveva una voce profonda da cantante, ma il difetto di pronuncia che le faceva dire le effe al posto delle esse le avrebbe precluso un’eventuale carriera artistica. E poi piagnucolava, ma quello doveva essere legato allo scopo della telefonata.

L’anatra gliel’avrebbe regalata, ma era una separazione dolorosa, e non l’avrebbe mai fatto se non ci fosse stata costretta: da qualche giorno una faina aveva preso di mira la sua fattoria e ogni mattina doveva sopportare lo strazio di trovare un cadavere mutilato nel pollaio. Era bastato un consulto breve coi suoi familiari per decidere che gli animali superstiti andavano portati via, compresa Anna, l’anatra preferita di sua figlia. Ma dovevano prometterle che l’avrebbero trattata con tutte le attenzioni, e che mai e poi mai l’avrebbero ficcata in una pentola.

I ragazzi promisero ridacchiando, e si organizzò il ritiro presso una stazione della metro dalle parti di Bovisa.

“Secondo me è una cicciona”, azzardò Stefano.

“Ricordati la promessa, niente pentola”, rise Simone.

“Allora spero che mia mamma abbia una padella abbastanza grande!”

Poche ore dopo nella camera da letto di Simone sembrava stessero girando un remake in economia de I Predatori Dell’Arca Perduta, con loro due nei panni dei nazisti e una scatola di cartone in quelli dell’Arca dell’Alleanza: Stefano sollevò il coperchio con la stessa sacralità di Paul Freeman, mentre Simone assisteva a poca distanza brandendo due coltelli da cucina così grossi che parevano appartenere a un altro film, un horror ambientato in un campeggio.

Ciò che accadde a quel punto rispecchiò fedelmente la sceneggiatura originale, l’anatra saltò fuori dalla scatola con la stessa furia degli spiriti nel film di Spielberg, e come quelli si mise a imperversare per tutta la stanza, spargendo piume ovunque; i due ragazzi cercarono invano di acchiapparla, l’anatra era veloce, scartava a destra e sinistra come un calciatore brasiliano, dribblava gli inseguitori e li beccava alle caviglie, si liberava da una presa come un cane dall’acqua sul pelo e li sbeffeggiava da sotto il letto, tornava pancia a terra sul tappeto e dichiarava la sua assoluta superiorità liberandoci proprio nel mezzo una cagata da pellicano.

Da pellicano con problemi intestinali, peraltro.

“Nooh! Il tappetoooh! Mia madre mi ucciderà!”, gemette Simone.

Stefano decise che l’inseguimento era durato anche troppo e col braccio a spazzaneve rovesciò sul pennuto tutta la collezione di oggetti che stavano sul comodino.

“Nooh! I soprammobili di cristalloooh! Mia madre mi ucciderà!”

“E quante volte hai intenzione di morire?”, lo canzonò Stefano, mentre estraeva libri da uno scaffale e li tirava contro l’anatra.

Quella non si faceva intimorire, l’aver assistito al crudele assassinio delle sue compagne di pollaio doveva averla resa dura e fredda come un iceberg, schivava i proiettili con facilità e intanto continuava a disseminare il suo percorso da un mobile all’altro di chiazze grigiastre.

Alla fine saltò sull’armadio.

“Dobbiamo tirarla giù prima che torni mia madre! Guarda che casino!”, gemette Simone osservando il campo di battaglia che fino a cinque minuti prima chiamava camera da letto.

“Spostati!”, gli intimò Stefano. Era invasato, catturare quell’anatra era diventata la sua missione, sembrava aver raccolto in quell’azione lo scopo di tutta un’esistenza; trascinò la scrivania dell’amico contro l’armadio senza curarsi di quel che cascava a terra. Per fortuna l’era dei personal computer era lontana, o l’entità dei danni avrebbe superato il prezzo di un intero guardaroba da paninaro.

Simone osservava l’assalto al suo armadio con l’attenzione di un catatonico. Ormai non si trattava più di dare una scopata al pavimento, per far tornare la stanza alle condizioni originarie sarebbe servita un’impresa di pulizie. E sua madre sarebbe tornata entro un paio d’ore.

Andò ad aprire la finestra con l’intenzione di buttarsi di sotto.

“Noo! Chiudii!”

L’anatra non aspettava altro che una via di fuga da quei due deficienti, si gettò nel vuoto senza esitare e atterrò nel giardino sottostante con la sicurezza di uno stuntman navigato.

I due ragazzi si guardarono un secondo, poi optarono per la via più lunga.

3.

Si schiantarono fuori dal portone con la violenza di una slavina, ma si fermarono di colpo dopo due passi.

Quello che avevano davanti era sbagliato. Completamente sbagliato. Come vedere Gianfranco D’Angelo con un pugnale in mano e il costume da Tenerone imbrattato di sangue, quel livello di sbagliato lì.

C’era l’anatra, viva e incolume come l’avevano vista l’ultima volta da quattro piani più su, ma non stava scappando all’ineluttabile destino, non sembrava affatto la belva che era saltata fuori dalla scatola, se ne stava accoccolata in braccio all’uomo come se fosse l’unico suo amico in questa vita crudele e li guardava con aria di sfida. Forse era di quelle che subiscono il fascino della divisa, ma in quel momento il carabiniere del primo piano non la stava indossando. L’espressione sul suo volto era comunque minacciosa come al posto di blocco.

L’appuntato Loscalzo stava uscendo di casa per recarsi al consueto lavoro presso la caserma di Porta Sempione sita in via Tolentino, quando un animale di grossa taglia di colore marrone bianco e grigio identificato come oca o forse anitra lo colpiva sulla spalla sinistra in seguito a una chiara caduta da luogo da accertarsi, ma certamente situato entro uno degli appartamenti del palazzo affacciantisi sul cortile. L’appuntato Loscalzo prontamente catturava l’animale e procedeva a una più accurata identificazione quando dal portone del suddetto palazzo fuoriuscivano due ragazzi riconosciuti come Grisanti Simone del quarto piano e un suo amico con la faccia da delinquente ignoto agli inquirenti, visibilmente alterati. L’appuntato subito collegava la loro presenza e lo stato di agitazione in cui versavano con la caduta dell’animale, e provvedeva ad interrogarli.

“Grisanti, documenti!”

Tutta la foga scomparsa, Simone e Stefano stavano impalati di fronte all’appuntato come quei tizi che non sanno farsi fare le foto e non hanno idea di dove mettere le mani. Quando hai diciassette anni l’ordine costituito intimorisce quasi come le sfuriate di tuo padre.

“Non.. non ce l’ho i documenti.. cioè.. ce li ho, ma.. dovrei..”

“E’ vostra quest’oca?”

“..ee.. ee..”

“Anatra!”, si intromise Stefano. “E’ la nostra anatra, si. Ci è scappata dalla finestra, ma per fortuna l’ha trovata lei, maresciallo, grazie al cielo!”

“Appuntato. E lei chi sarebbe? Favorisca i documenti.”

“Stefano Della Rosa, per servirla. Purtroppo anche i miei documenti si trovano in casa di Grisanti, ma se mi dà due minuti vado su a prenderli!”

Simone assisteva allo show dell’amico e gli veniva da vomitare: quel cretino ostentava una sicurezza da teleimbonitore assolutamente fuori luogo, da un momento all’altro il carabiniere se ne sarebbe accorto e li avrebbe arrestati. Doveva fermarlo.

L’appuntato Loscalzo, provveduto all’identificazione dei due soggetti, passava all’accertamento delle cause che avevano condotto l’uccello anitra a scontrarsi con la sua spalla sinistra.

“eee”, disse Simone con la bocca impastata e la fronte che colava sudore come una bibita ghiacciata sotto il sole d’agosto.

“Si tratta di un esperimento scientifico-letterario che ci hanno affidato a scuola”, riprese Stefano con un sorrisone da ergastolo stampato in faccia, “Stiamo cercando di dimostrare che le anatre di Central Park quando il laghetto gela vengono a svernare al Parco Sempione”.

Loscalzo non faceva in tempo a formulare la domanda successiva, che un uomo veniva fuori dal portone imprecando in un forte accento del sud Italia. L’appuntato questa volta era in grado di riconoscere il soggetto come Angelo Cutrona, già iscritto nel registro degli indagati per casi di truffa, contraffazione ed evasione fiscale. Il Cutrona non dava segno di avere a sua volta riconosciuto il carabiniere e si rivolgeva direttamente al Della Rosa apostrofandolo con l’appellativo di “coglione testa di cazzo”.

“Appunto, il Giovane Holden”, lo indicò Stefano, sempre sorridendo.

“Ma non sapete riconoscere un’oca da un’anatra, brutti cazzoni? Ma checcazzo vi insegnano a scuola?”

Simone non cercò neanche di minimizzare, ormai si vedeva piegato a novanta nella doccia di un carcere di massima sicurezza, tanto valeva giocare a carte scoperte. “Credevamo che fosse la stessa cosa”, rispose.

“E non è la stessa cosa neanche per il cazzo! Se fosse la stessa cosa si userebbe il piumino d’anatra, no? E io cosa credete che ci sto a fare, la figura del cazzone? Io sono un professionista, cosa credete? Quant’è vero che mi chiamo..”

“Angelo Cutrona”, lo anticipò il carabiniere, sempre con l’anatra in mano.

Il sarto sembrava lusingato di quella dimostrazione di notorietà, e si rivolse al portatore d’anatra con un sorriso e la mano tesa. “E con chi ho il piacere di parlare?”

“Anna!”, esclamò qualcuno dall’ingresso del giardino. Si voltarono tutti, sarto, carabiniere e ragazzini, e tutti insieme esclamarono all’unisono “Minchia!”.

Perché non c’è estrazione sociale o divario culturale o generazionale che tenga, quando ti volti e davanti a casa tua c’è Sandokan non puoi che esclamare minchia!

“Anna!”, ripetè Sandokan precipitandosi verso l’appuntato. L’anatra si mise a sbattere le ali, il carabiniere la lasciò e tutti restarono ammutoliti quando la videro correre incontro al nuovo arrivato, saltargli sulle scarpe emettendo squittii di gioia, lasciarsi abbracciare. Sembrava un documentario, di quelli che trasmettevano al cinema prima dei cartoni di natale, che ti facevano deglutire spesso e ti lasciavano gli occhi lucidi.

“Lei conosce quell’anatra?”, chiese l’appuntato Loscalzo spezzando l’incantesimo.

“Certo, è l’anatra di mia figlia!”

“Lei è.. il signor Cerelli?”, balbettò Simone, pallidissimo.

“Ci conosciamo?”, rispose lui.

“Ma volevate farmi spiumare l’anatra di Sandokan?”, chiese Cutrona, completamente a sproposito.

“Insomma, documenti, tutti quanti!”, intimò l’appuntato Loscalzo.

Venne fuori che il signor Cerelli si trovava spesso in quella parte della città per questioni di lavoro, e aveva riconosciuto l’animale passando sul marciapiede; gli venne restituito dalle mani dell’appuntato con tante scuse per il disturbo. Angelo Cutrona non fu altrettanto fortunato, un’ispezione al suo appartamento portò alla formulazione di nuovi ed emozionanti capi d’accusa, fra cui detenzione di sostanze stupefacenti e ricettazione. Stefano e Simone abbandonarono la scuola quel giorno, andando a incrementare le statistiche sulla mancata scolarizzazione nella provincia di Milano.

L’anatra Anna tornò a casa, accolta dagli onori che si riservano ai reduci, e visse il resto della sua vita circondata dall’affetto della famiglia Cerelli; della faina non si seppe più nulla.