È l’una e mezza e dovrei andare a dormire, ma ci tenevo a scrivere questa cosa oggi, anche se oggi è già domani e quindi tecnicamente sono già fuori tempo, ma per me domani comincia fra pochissime ore quando suonerà la sveglia, quindi oggi è ancora il 15 luglio 2014, venticinque anni dopo la sera del concerto a Venezia dei Pink Floyd. E mi dirai, stai sveglio per scrivere ‘sta cazzata? Chi se ne frega dei Pink Floyd, g’han lassà un degheio de scoasse e l’unica cosa buona che ne è venuta fuori è stata la canzone dei Pitura Freska, vai a dormire che domani hai pure lezione.

Solo che no, quella sera lì è anche successa una delle cose della vita che quando ti trovi a mettere un sassolino in fila per ogni episodio importante a quella riservi sempre un sassolino molto più grande degli altri, e il fatto che me la ricordi solo perché mi è stata suggerita da una persona che se la ricorda solo perché c’era il concerto di mezzo non ne riduce l’importanza.

Oggi sono venticinque anni che io e Francesco siamo amici, mi piacerebbe raccontare cosa ha significato per me avere vicino una persona così speciale, cosa abbiamo condiviso e quanto mi senta fortunato a sapere che non siamo mai più distanti di una telefonata, ma non mi va, e non so neanche se ne sarei capace, che le parole arrivano solo fino ad un certo punto. E poi tanto lui lo sa, e va bene così.

Ti voglio bene.

È il primo maggio e io il primo maggio mi rompo il cazzo. Ma sempre, anche quand’ero bambino ed era giorno di festa da scuola e potevo uscire con gli amici. Io non mi diverto mai il primo maggio, neanche quand’ero ragazzino e c’era il concertone del primo maggio e piazza San Giovanni brulicava di artisti che mi piacevano. Prima che li sostituissero con le mummie, voglio dire. Niente neanche allora, se c’era il gruppo che avrei venduto mia mamma per vederlo cantare succedeva che un membro del gruppo veniva trovato morto in piscina e un altro si sparava in faccia col fucile e il cantante veniva sostituito all’ultimo momento con Mario Tessuto, oppure c’erano tutti e si esibivano, ma non potevo vederli lo stesso perché il tizio che si era comprato mia mamma ci aveva trovato un difetto e mi aveva chiesto di incontrarlo proprio a quell’ora per restituirgli i soldi.

Un anno mi ricordo che ero a casa della mia ragazza e avevamo deciso di guardare non so più quale artista che ci piaceva tantissimo a tutti e due, ma sua mamma si era spiaggiata davanti alla tele per guardarsi la replica di Colombo. Neanche un episodio nuovo trasmesso in quel momento, no, la replica. Come a dire che il destino prima ti si mette di traverso e poi pernacchia.

Ma non è che prima dei concertoni, o dopo quando gli artisti che mi piacevano hanno smesso di andarci e San Giovanni si è riempita di nomi che se entro in un locale e c’è la loro canzone esco di corsa e vado a cercare una tanica di benzina e poi torno con un accendino, non è che il mio primomaggio è ridotto a grossi eventi che qualcuno si ostina a definire musicali, no, non è quello. Il mio primo maggio fa cagare anche se vado sui prati, perché se vado sui prati piove. E se non piove mi ritrovo seduto su un plaid ad ascoltare la depressona della compagnia che ha scelto proprio quel giorno e quel plaid per raccontarmi dei suoi problemi col marito/fidanzato/amante/trombamico/tuttiequattroinsieme che non la capisce e non gliene vuole più dare e lei non si dà pace se almeno capisse perché. E io non è che posso dirle amica mia guardati, somigli alla controfigura di Jabba, e anche cercare di infilarti nelle mutande qualunque belino nel raggio di trenta chilometri non agevola i tuoi rapporti familiari, e per favore smettila di leccarmi il collo.

Quest’anno ho deciso di giocare d’anticipo, non avendo fidanzate con cui abbruttirmi davanti alla tele, e non avendo neanche una tele: mi sono messo su l’ultimo di Fish così anche in fatto di ciccioni insoddisfatti sono a posto, mi sono scaricato un vagone di fumetti da leggere e se mi gira recensire con vertiginose metafore tipo “bello di brutto” o “fa cagare la minchia”, mi sono scaricato un paio di videogiochi da installare far partire vedere piantarsi in tredueuno bestemmiare le scarse capacità del mio pici andare a vedere quanto costa un pici nuovo più potente deprimermi e andare a dormire.

Dopo pochissimo mi sono reso conto che il mio primomaggio non sarebbe stato appagante neanche così, e mi sono chiesto perché, e facendomi domande dirette e rispondendo con parole oneste sono arrivato al nocciolo del problema: è colpa di Umberto Tozzi.

Quando ha detto primo maggio su coraggio ha risvegliato la mia coscienza, mi ha fatto capire una qualche verità che si annidava dentro di me come un gemello fagocitato nell’utero, che io nell’utero avevo già fame, e da allora la festa dei lavoratori è un giorno difficile per me.
Primo maggio su coraggio, ma che rima è? Perché non hai detto primo maggio c’è il formaggio, o primo maggio vado a Reggio? Te lo dico io perché, perché conoscevi il terribile segreto che non fa divertire i primimaggi, e volevi lanciare un messaggio nell’etere prima che gli uomini in nero che da sempre custodiscono gli orribili segreti dell’umanità ti costringessero al silenzio.

Ma io ti ho capito, Umberto Tozzi. Ho messo insieme i pezzi di questo puzzle e adesso so la verità, e la divulgherò all’umanità intera, così la Confraternita dei Malvagi Reazionari che cerca di mantenere lo status quo per tenerci buoni e avvelenarci con le scie chimiche sarà finalmente sconfitta e potremo camminare liberi e felici tenendoci per mano verso un futuro di libertà.

Aspetta un attimo, mi suona il telefono.
Sono gli uomini in nero.
Dicono che se non divulgo il segreto del primomaggio mi regalano un pici nuovo.
E c’è una che mi vuole conoscere che ha letto il mio blog e le piace tanto come scrivo e ama i gatti rossi e loro fra i segreti che custodiscono c’è anche il suo numero di telefono e ci possiamo mettere d’accordo.
E poi quale confratermita malvagia, loro sono solo i gioviali innocui membri di una banda di quartiere che va a suonare le marcette alla festa del patrono e poi tutti all’osteria e il vestito nero è solo la divisa di ordinanza come dimostrato dalla cravatta arancione che sdrammatizza.
Per esempio in quell’astuccio per violino c’è un violino, mica un mitra.
E in quello per contrabbasso non c’è nessun bazooka.
E in quello per pulmini di orchestra non ci hanno nascosto un carroarmato.
Ho colto la sottile allusione.
Tanto io Umberto Tozzi per mano non ce lo volevo tenere, ecco.

Niente, vado a fare la lavatrice.

Qualche giorno fa ho compiuto gli anni. Mi succede tutti gli anni e dicono che sia una tradizione da mantenere più che si può, perciò cerco di rispettarla anche se a vederli crescere senza rallentare mai un po’ mi girano le balle, lo ammetto. È colpa di quella brutta abitudine che abbiamo di guardarci sempre indietro a vedere dov’eravamo e cosa abbiamo perso per strada, e ripetere con gli occhi bassi che non ci porteremo più la girella a scuola, non vivremo più l’emozione del primo bacio o della prima volta che sullo schermo è apparso il capoccione nero di Darth Fener (si, lo so, Vader, ma sticazzi, ho 42 anni e Fener me lo sono guadagnato. Fener! Fener!). E non che a guardare avanti le cose migliorino, c’è tutto un futuro in sottrazione ed esami della prostata a separarci da quel punto nero laggiù in fondo, che è solo un punto e speriamo che lo rimanga ancora per un bel po’, che quando ti avvicini abbastanza da capire cosa tiene in mano non dormi più.

I miei compleanni, da quando sono entrato negli -anta, hanno sempre fatto cagare. Il primo, quello importante, lo trascorsi a casa di una coppia di amici che si era scoppiata da poco, c’era un clima così triste che se fosse morto il gatto lo avrebbe migliorato. Il tavolo era pieno di patatine della lidl e bottiglie di spuma, mi sentivo alla festa delle medie quando me ne stavo in un angolo a guardare la bambina che mi piaceva circondata dalle sue amichette, e capivo che stava parlando di quanto era bello Sansonedicognome, che aveva gli occhi verdi e giocava da dio a pallone. Ad un certo punto mi sentii troppo al centro dell’attenzione, così mi alzai e spinsi la sedia contro la parete in fondo. La mia fidanzata mi guardò interrogativa per un momento, poi tornò a sfogliare il catalogo ikea, coadiuvata dalla sua amica.
Giurai a me stesso che non avrei permesso a nessuno mai più di rovinarmi un compleanno, piuttosto non lo avrei festeggiato, come d’altronde ho sempre fatto, ma l’anno successivo ci ricascai.

Come un domino, la stessa febbre che aveva scassato la coppia dei nostri amici contagiò noi, poi un’altra coppia, poi un’altra, e insomma che nel gennaio 2013 mi sono trovato a grattarmi la testa e osservare quell’ammasso di lamiera piegata che fino a cinque minuti prima era stato la mia relazione. Facile immaginare che l’umore non fosse proprio quello adatto ai festeggiamenti. Credo di avere passato il mio quarantunesimo compleanno in casa, seduto sul pavimento a piangermi in mano, in pigiama e con la barba di un mese, il sonno arretrato di quindici giorni e almeno un paio di chili sotto il mio peso forma. Non ricordo i dettagli né ci penso volentieri, ma credo che le mie prospettive per il futuro abbiano previsto, ad un certo punto, anche un episodio di Art Attack con Giovanni Mucciaccia che ci insegna a fare un nodo scorsoio alla corda e ad appenderla a un grosso ramo nel bosco.

Un netto miglioramento rispetto al compleanno precedente, comunque.

Adesso sono tornato a percorrere i binari placidi della mia vita di prima, senza grossi scossoni emotivi, faccio le cose che mi piacciono quando ne ho voglia, mi conto i capelli bianchi e li porto con un certo orgoglio, che almeno io i capelli ce li ho.

Qualche sera fa ero a una degustazione di scotch con un vecchio amico, gli raccontavo che il mio quarantaduesimo è stato particolarmente figo, un po’ perché 42 è la risposta alla domanda fondamentale e mica cazzi, è un’età che quelli come me si fanno tatuare su un braccio con una balena e un vaso di fiori accanto, un po’ perché cadeva di martedì, e io il martedì faccio le robe con Rubik Teatro, e la scorsa lezione ho portato il vino e la focaccia, Brodino ha portato la birra e i bicchieri e alle tre e mezza di mattina eravamo ancora tutti lì a raccontarcela.

“Io credo che quando puoi stare in un locale a bere un whisky più vecchio dei tuoi amici dovresti fermarti un momento a riflettere su quanto sei fortunato”, gli ho detto. “Perché trovarsi a proprio agio con persone tanto più giovani di te significa che o tu sei un coglione immaturo o loro sono delle persone molto intelligenti, e credo che nel mio caso la verità stia nel mezzo, che è comunque tanta roba. E inoltre significa che stai bevendo un distillato di qualità, e non la pisciazza che ti danno in certi locali.”

E insomma, ieri sera i miei amici del primo anno al corso di improvvisazione teatrale mi hanno organizzato una festa, coi regali e la pizzeria e il locale dove alla fine ti cacciano, proprio come quando andavo a scuola, ma senza quello stronzo di Sansonedicognome, e stavolta sono stato seduto in mezzo e ci sono stato bene, perché queste persone nuove che frequento sono davvero splendide e mi fanno sentire a casa, e vorrei mettermi lì e raccontare di tutti i momenti in cui da fuori non si capiva, ma dentro c’era Iggy Pop che si dimenava con indosso solo un paio di pantaloni neri, e non lo faccio solo perché sono troppi e poi preferisco tenermeli per me.
Dico solo che grazie, di nuovo, come tutte le settimane, ma un po’ di più, perché ogni volta mi sento sempre di più fra i miei simili.

Io questa cosa che è morto Lou Reed proprio non me l’aspettavo, ci sono rimasto di merda. Continuo a ripetermi che no, dai, non scherziamo, e vado a cercare la notizia su un altro sito, e anche lì dice che niente, è morto, bon.
Perché da uno così non ti aspetti che muoia e basta, lascia stare il grande musicista e i Velvet Underground, non è quello, cioè, è anche quello, ma non solo. Oltretutto a me neanche piacevano granché i Velvet Underground, l’album della banana ce l’ho, l’avrò ascoltato quattro volte, e quando volevo sentire Lou Reed mettevo su What’s Good, che è divertente e mi piace il testo, e appartiene a quel particolare periodo della mia vita che ricordo con nostalgia, ma non è il suo spessore musicale a farmi sentire come di fronte a una tremenda ingiustizia, è proprio la sua immagine e quello che la sua immagine rappresentava per me: un reduce di un tempo che non c’è più, una specie di vecchio capo indiano che invece di chiudersi nella riserva se n’è andato in cima alla collina e si è seduto controvento e ha tirato fuori la chitarra (suonava la chitarra Lou Reed? Nella mia fantasia si) e ha attaccato i suoi pezzi più difficili, quelli che piacevano a lui e basta, e se il resto del mondo si fosse dimenticato di lui a lui andava bene lo stesso, suca.

Ecco, nella mia testa Lou Reed era questo, e non ce lo vedo a morire così, come una persona normale. Secondo me Lou Reed doveva morire compiendo un’ultima grande impresa, buttarsi da uno shuttle o anche solo ammazzare Giovanardi regalandogli la sua autobiografia, andarsene col botto, come si addice a un personaggio del suo calibro.

Una volta l’ho visto, a Genova, era venuto per il festival della poesia a recitare delle sue composizioni ispirate agli scritti di Edgar Allan Poe; eravamo io e Andrea, ci siamo seduti in piccionaia in un teatro pieno e caldissimo, e lassù in cima mancava l’aria, e c’era Lou Reed che recitava le sue cose con un tono monocorde che ti saresti buttato di sotto per la disperazione, e ad un certo punto non ce l’abbiamo più fatta e siamo usciti, scusa Lou, ci hai frantumato i coglioni. Mi sono divertito di più quando sono stato a bere allo stesso tavolo di Lawrence Ferlinghetti.

Però Ferlinghetti quand’è morto non ci sono rimasto male come stasera, che se n’è andato uno dei grandi vecchi del mio immaginario di rockstarz che salvano il mondo.

Io ve lo dico, se e quando se ne andrà Mick Jagger sarà una cazzo di tragedia.

Alcuni lettori del pablog mi hanno fatto notare che sto facendo delle robe che non si capisce, pubblico articoli vecchi di millenni e loro si convincono che siamo di nuovo nel 2006 e si comportano di conseguenza, e allora chi si separa dalla moglie e torna con l’ex fidanzata, chi abbandona anche la prole perché a quei tempi non aveva eredi tranne il gatto, chi va a disseppellire il gatto perché nel frattempo è morto. Una mia amica si è licenziata da un lavoro strapagato per tornare a fare la precaria a seicento euri al mese, e poi mi ha scritto lamentandosi della sua pessima situazione lavorativa. Un’altra che da anni non dava sue notizie mi ha telefonato per chiedermi se ci vediamo domani sera.

Il fatto è che in un periodo imprecisato fra ottobre e dicembre del 2006 avevo deciso di cancellare il vecchio blog, svuotarlo dei contenuti e ripartire da capo, assecondando la tendenza di quel periodo della mia vita, in cui mi pareva di avere intrapreso un percorso importante e definitivo. Quello che l’aveva preceduto erano discorsi vuoti, tristezze e perdite di tempo che non meritavano di essere ricordate, pensavo allora, e così un bel giorno via tutto, ricominciamo da capo.

Oggi sono un po’ meno drastico e più disposto al dialogo, o almeno mi illudo di esserlo, e certi errori penso che siano comunque necessari, e in ogni caso è meglio superarli che sotterrarli, e allora mi è venuta voglia di riprendere in mano le vecchie cose e ripostarle un po’ alla volta, partendo dall’ultima prima della rasa e risalendo fino all’apertura del pablog.

Non so se alla fine pubblicherò tutto tutto, certe cose sarebbe stato meglio tenerle per me già allora, e nel frattempo sono diventato un minimo più discreto sulle questioni personali. Giusto un minimo, certo, i contenuti di inizio anno sono lì a dimostrare che certe lezioni sono ancora lontano dall’impararle, ma diciamo che sto per la strada.

Per questo, cari lettori che mi leggete sui feed, non allarmatevi, non vi si è rotto l’internet e non sto facendo casino.

A presto,

P.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer

La settimana scorsa eravamo in Canada, più o meno: stavamo a casa di Neil Young che vive negli Stati Uniti, ma è nato a Toronto, e attraverso la sua Cortez The Killer siamo arrivati in Messico.

La mia conoscenza di questo paese si articola in tre fasi temporali:

1 – La fase adolescenziale:
il Messico è un paese lontano dove vive un topo velocissimo che ripete in continuazione Arriba Arriba, ci sono i fagioli salterini, ma sono come le scimmie di mare, non ne ho mai visto uno, e il resto dei messicani è composto da tizi con la faccia tonda e i baffetti che passano la giornata dormendo contro i muri;

una roba così, tipo

una roba così, tipo

2 – La fase giovanile:
il Messico è un paese che si trova al di là dell’Oceano Atlantico, popolato da loschi individui che hanno ammazzato Davy Crockett e sono stati ridicolizzati da Zorro. Una volta ci abitavano altri popoli che si chiamavano olmechi che hanno costruito le piramidi, ma invece che farle lisce ci hanno fatto i gradoni, e poi hanno costruito delle grosse teste di pietra che sembrano quelle degli astronauti;

Veracruz, tenemos un problema

3 – La fase adulta:
intanto Zorro era californiano e combatteva contro gli spagnoli, e poi il Messico è quel paese che confina con gli Stati Uniti, dove si celebra il Dia de los Muertos, che è una festa allegrissima dove si va a mangiare nei cimiteri e si appendono dappertutto scheletri decorati. Poi in Messico c’è nata Frida Kahlo, e soprattutto si mangia della roba troppobbuona che quando vado da Mamacita’s me ne faccio delle carrettate.

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Ingredienti per ottenere un Pablo felice.

Questa settimana vado alla scoperta di un aspetto ancora inesplorato: la musica.
Che cosa si ascolta in Messico? Il mio primo contatto con un gruppo di quelle parti risale al 1993, in quel periodo che ha avuto un’importanza cruciale nella mia formazione musicale (sono più o meno gli stessi anni di Radio Studio 93, di cui parlavo la settimana scorsa): una sera un amico mi mostra la copertina di un cidi dei Brujeria dove si vede una mano che tiene per i capelli una testa decapitata. Ho dedotto che il genere non faceva per me e ho cominciato ad ascoltare Roberto Vecchioni, tenendomi alla larga dalla musica messicana per i successivi dieci anni.

Sono il film su Frida Kahlo e la sua colonna sonora che mi riavvicinano a quel mondo, ma non sono ancora convinto: l’impressione è che buona parte della produzione locale somigli tantissimo alla roba che qui ci propinano alla “Sagra del dolce casalingo e della trippa cucinati nella stessa pentola per fare prima”.

Ci vogliono questa rubrica, e soprattutto le influenze della mia fidanzata innamorata del centroamerica, per farmi decidere che qualcuno che valga la pena ascoltare c’è. Eccome se c’è, ma di Lei parlerò un’altra volta, tanto col Messico non me la sbrigo in una puntata e ciao.

Flashback.
Nel 1998 studiavo sax tenore presso il Circolo Musicale Risorgimento di Genova Sampierdarena, e mi pagavo le lezioni partecipando ai servizi in cui la banda era richiesta. Alla fine il sax non ho mica imparato a suonarlo, che la musica richiede una dedizione che io proprio no, però mi sono fatto una cultura sul funzionamento delle processioni religiose e dei loro riti interni, che sono una roba oscura, comprensibile solo dagli adepti, un po’ come le primarie del PD, ma con molto più Tabacci.

La musica richiesta durante una funzione di quel genere dev’essere lenta, per accompagnare il passo sofferente delle vecchiette e dei portatori di cristi, e poi dev’essere tristissima, che il biscione di gente non è mica preceduto da Nostro Signore Sui Pattini A Rotelle E Il Walkman, si sta seguendo uno inchiodato a una croce, vorrai adeguarti?

E poi dev’essere suonata malissimo.
No, quella credo fosse una prerogativa della nostra banda.

Poi c’è il prete, che è quasi sempre un signore bassetto, anziano e pelato con un forte accento meridionale, che scandisce le preghiere che tutti conosciamo con un tono interrogativo, che ti fa vacillare le tue certezze nella divinità.

Perché come puoi restare saldo sulle tue convinzioni quando è lo stesso ministro di Dio a chiedersi “Sia santificato il tuo nome?”, “Sia fatta la tua volontà?”?
Saranno domande trabocchetto, pensi. Che si sa, in processione si infilano degli elementi sediziosi il cui scopo è trasformare una manifestazione pacifica in un’occasione di scontro, e con questi interrogativi li trascini allo scoperto.

Non c’è niente di più pericoloso di una processione che finisce in merda per colpa di questi istigatori, che quando passano davanti alle sedi del PCI si mettono a scomunicare a destra e a sinistra (ovviamente più a sinistra che a destra) e a tirare santini. Poi c’è sempre quello che li giustifica, dicendo che non è vero, erano marxisti-leninisti infiltrati, che lui era in corteo insieme ai focolarini e hanno tutti rispettato la regola del “non accettare provocazioni, porgi l’altra guancia”, anche se si vedeva che morivano dalla voglia di menare le mani, che agnello si, ma pecora col cazzo.

Insomma, i parroci li adottano questi stratagemmi per vedere se in processione ci sono dei pocofedeli, e funziona, devo dire che è fin troppo efficace.

Io per esempio su “Rimetti a noi i nostri debiti?” mi sono sconvolto, ho mollato il Circolo Risorgimento e mi sono buttato sulla politica, che almeno ti fanno le pippe solo da vivo.

L’affetto verso le bande, però, non si è affievolito, ed è per questo che ho rimandato il pezzo sulla mia cantante messicana preferita a un altro momento, e ho preferito farvi ascoltare la Banda El Recodo.

La settimana prossima stiamo ancora in Messico, che questo discorso delle bande mi porta a raccontare di un particolare genere musicale messicano che mi permetterà di proseguire la catena.

A mercoledì!

(continua)

Ero qui che pensavo a questa grossa novità che potrebbe farmi smettere di scrivere centotre-e-tre per dedicarmi completamente a questa grossa novità, se non fosse che questa grossa novità è già saltata, e quindi potrei dedicarmi tranquillamente a scrivere centotre-e-tre, se non fosse che forse non è saltata proprio per niente, insomma, io non lo so se questa grossa novità è ancora valida, perciò non vi racconto niente e vado avanti a parlare di centotre-e-tre, riguardo al quale ho il grosso dubbio di sapere se piace, se non piace, se uno pensa che meriterebbe più spazio o se guarda, gliene stai dedicando già fin troppo.

Potrei preparare un sondaggio a domande multiple, mi pare che wordpress permetta di farlo, ma nel frattempo volevo suggerire una cosa ai miei numerosissimi tre lettori e risolvere così l’annoso enigma delle collaborazioni.

E si perché voi non lo sapete, ma una delle prossime puntate di centotre-e-tre (a naso direi intorno alla decima) vedrà la collaborazione di una blogger/lettrice/amica/una dei numerosissimi tre di cui sopra, grazie alla quale sono riuscito a portare a termine il mio primo racconto o pseudotale a quattro mani. Il primo, giuro, da quando ho iniziato a scrivere per divertimento e non perché me lo chiedeva qualche insegnante, e sono già ventisette anni
(e comunque non è che prima non scrivessi, alle medie facevo i fumetti sul quaderno dei fumetti, e già alle elementari avevo un librettino con la copertina marrone su cui scarabocchiavo le avventure di Sinestro il diavolo maldestro, nome che avevo tirato fuori da qualche cartone animato dell’epoca)
e ci sarebbe da scriverci un post apposta su una cosa così, ma sto divagando, ed è una cosa che mi riporta a centotre-e-tre.
Dicevo, c’è stata una collaborazione, peraltro non ancora conclusa, e lo so che mi leggi e pensi “uh cacchio devo spedirgli anche il resto!”, fai bene a sentirti in colpa, vai a scrivere invece di cazzeggiare sul mio blog!
Dicevo che c’è stata una collaborazione, e un’altra ne ho richiesto a un amico esperto di musica, ma il suo campo specifico non è neanche ancora in scaletta, e chissà quando ci arriverò, e mi spiace farlo aspettare, e così tutte le altre persone a cui vorrei chiedere di partecipare, per conoscere un po’ della loro musica e di come se la vivono, e quindi eccoci al punto.

Il punto.

L’ideona che mi è venuta, e che spero apprezzerete tutti e due, che una ha abbandonato la lettura ed è andata a finire il post che deve ancora spedirmi, è che voi che amate centotre-e-tre e che vorreste tanto partecipare, perché un’idea così pazzesca di unire ricordi personali, aneddoti curiosi, la geografia e la vostra musica preferita non era ancora venuta a nessuno, mi scriviate una puntata in cui partite da un musicista a vostra scelta e arrivate a un altro, mettendoci in mezzo qualcosa che sia interessante da leggere. Se non vi basta una puntata, come nel caso della mia amica di cui sopra, me ne fate due, o tre, o cinquanta, non ci sono problemi di spazio. Una volta che me l’avete spedita io me la leggo, la aggiusto per farla stare nel pablog e cerco di spostare il mio itinerario in quella direzione nel minor numero di passaggi possibile, magari sfruttando altre scalette ricevute da altri amici.

Eh? Che ideona! Ma prima voglio sapere se vi piace la rubrichina musicale, che se non vi piace me ne sbatto le balle perché io mi diverto come un pisquano a scriverla, e poi non è che altrimenti abbia granché da dire, quindi commentatemi e date un’opinione, che mercoledì si avvicina e io devo ancora terminare la puntata numero cinque.

Io che domani comincia il festival di Sanremo l’ho scoperto stasera. Dal mio limbo senza televisione non sono tanto preparato su quel che succede sui vari palinsesti, e ultimamente ho anche smesso di leggere i giornali. Ho una specie di piano: sono convinto che lo strato di realtà che ci circonda sia molto sottile, e che spingendo con sufficiente insistenza si può riuscire a strapparlo e a passare di là. Cosa ci sia di là non lo so, ma credo che si stia meglio, così mi sto impegnando per staccare ogni legame con questo piano dell’esistenza e vedere se mi riesce il trucchetto. Anche fare le lavatrici è un legame con la realtà, perciò ho smesso.

Con queste premesse non dovrei neanche cagarmelo il festival, ma è una di quelle cose che mi riportano all’infanzia, e il mio istruttore di irrealtà dice che devo assecondare i ricordi, aiutano a sganciarsi. Un professore di irrealtà è quella figura che ti insegna a strappare lo strato di realtà e passare nel mondo al di là; il mio è Gonzo del Muppet Show, se volete saperlo.

Quand’ero bambino ricordo che a scuola le mie compagne di classe guardavano tutte il festival di Sanremo, e la mattina cinguettavano emozionate con i professori commentando l’esibizione di questo e quell’altro. Mi ricordo che la Lucia si era innamorata di Luis Miguel e per una settimana non aveva parlato d’altro.

Io ci avevo provato a guardarlo il festival, mia mamma lo seguiva abitualmente, mi sedevo lì e lo guardavo, ma di solito mi sbriciolavo le balle al secondo minuto della prima canzone e tornavo in camera mia a giocare coi soldatini, perdendomi anche la comicità irresistibile del corvo Rockfeller.

Questa idiosincrasia nei confronti del festival non mi è mai passata, e se qualche volta sono riuscito ad assistere a qualche pezzo di serata è sempre stato in maniera incidentale. Ricordo una sera, era la finale e si aspettava il verdetto, e io stavo sul soppalco del Quaalude a bere una piñacolada con alcuni amici. Sullo schermo alle spalle del palchetto un Pippo Baudo gigante scherzava con la valletta in attesa dell’agognato responso, ma non si sentiva cosa le stesse dicendo di così arguto, i Clash sparati dalle casse a un volume da denuncia coprivano qualunque cosa. Capimmo chi aveva vinto quando salì sul palco a ringraziare, in lacrime. Non ricordo chi fosse, ma sono abbastanza sicuro che era una donna e che piangeva.

Forse ho assistito ad altre edizioni del festival, forse sono uscito con ragazze che adoravano Sanremo e non mettevano il naso fuori casa durante tutte le ventisette serate, obbligandomi ad andare a casa loro e subire il supplizio in silenzio, sperando di trascorrere il dopofestival nella clandestinità delle loro lenzuola, ma ho rimosso qualunque ricordo, anche quelli piacevoli, forse non ce n’erano.

Mi ricordo di un Beppe Grillo che insultava un giornalista che aveva intervistato un bambino che era stato sequestrato dai rapitori, e mi ricordo che poi in televisione non c’era più andato, e neanche il bambino, ma il giornalista si, e può darsi anche i rapitori, la televisione lasciava molto a desiderare già allora.

Comunque niente, volevo dire che anche quest’anno come i precedenti mi terrò a buona distanza da quella fetta di realtà fatta di rime baciate in quattro quarti, cercando magari di limitare l’accesso alla rete, che su questi eventi mondani ci batte più della televisione. Se non doveste vedermi più vuol dire che ho finalmente trovato quel che stavo cercando. Voi provateci lo stesso a passare da casa, può darsi che il mio corpo sia rimasto su questo piano dell’esistenza, Gonzo non è molto chiaro a questo proposito, e in quel caso potrei aver bisogno che qualcuno mi pulisca la bavetta dall’angolo della bocca.

Quest'anno mi è successa una cosa strana, forse per l'inquinamento, forse perché sono un cazzaro, fatto sta che il mio compleanno si è spalmato per tutto il mese di gennaio. Gli auguri dagli amici sono arrivati puntuali, sebbene a scaglioni, e c'è anche chi me li ha fatti più volte, forte del motto "è sempre il momento giusto per fare gli auguri a Pablo!".
Ora però capita che il mio compleanno arrivi veramente, e la mia gioiosa fidanzata mi sta tormentando perché scriva una wishlist.
Non ho capito bene cosa dovrebbe farsene, ma mi spiace contraddirla, perciò mi sono sbattuto e ho tirato fuori quella che ritengo essere l'unica lista possibile di Wish, salvo omonimie a me sconosciute.

Wish (track)list:

  1. Open (6:51)
  2. High (3:37)
  3. Apart (6:38)
  4. From the Edge of the Deep Green Sea (7:45)
  5. Wendy Time (5:13)
  6. Doing the Unstuck (4:25)
  7. Friday I'm in Love (3:38)
  8. Trust (5:33)
  9. A Letter to Elise (5:14)
  10. Cut (5:56)
  11. To Wish Impossible Things (4:44)
  12. End (6:47)

Mi ha fattto piacere buttarla giù, anche se ci è voluto solo un pugno di secondi, giusto il tempo di copiaincollare da wikipedia, perché anche se è un po' che non lo ascolto Wish rimane uno dei miei dischi preferiti.
Mi ricordo quando un amico mi fece la cassetta, era la primavera del 1992, Telecittà ospitava sulle proprie frequenze il primo embrione di mtv, pieno di veejay ambigui come Paul King o ambigui e ciccioni come Steve Blame, e le conduttrici bionde, come dimenticare Rebecca De Ruvo? O quell'altra, quella che non mi ricordo il nome..
Per me fu la rivoluzione, passavo i pomeriggi a guardare i video dei miei gruppi preferiti, e scoprivo che c'erano un sacco di gruppi da aggiungere ai miei preferiti, musicisti che non avevo mai sentito nominare e che avrei dimenticato dopo un paio di settimane!

Però capitava anche quella volta in cui il singolo del gruppetto sconosciuto restava in testa un po' più a lungo..

“L'hai visto il video di quel gruppo nuovo su mtv?”, mi chiede Paolo.
“Quale?”
“Non mi ricordo come si chiamano, ma è una figata, c'è il gruppo che suona, le ballerine coi ponpon e la A di anarchia disegnata sul vestito. Picchiano di brutto!”
“No, non mi sembra. Un gruppo nuovo hai detto?”
“Si, un nome tipo.. paradiso..”

La canzone si chiamava Smells Like Teen Spirits, il gruppetto sconosciuto aveva Kurt Cobain alla voce e io avevo tutte le possibilità del mondo in mano e nessuna voglia di sceglierle.

 

Anni fa, grazie al supporto economico della pro loco, fondai con i miei amici una specie di giornale di una sola pagina, ripiegato in tre come le lettere che la banca ti manda per farti sapere che ti chiuderà il conto dato che sei in rosso di svariati miliardi e ha pure il sospetto che sia stato tu a scassinarle il bancomat la settimana scorsa. Era il precursore del Foglio di Ferrara, e se lo avessi saputo col cazzo che partecipavo, ma allora eravamo puri, io e i miei amici, e ci mettemmo il cuore e l'impegno.
Si chiamava Ronco Scrive, quasi come il paese in cui abitavamo; ci occupavamo di cose di nessuna importanza, racconti, ricette, pensieri sparsi.. Io curavo una rubrica di consigli femminili che si chiamava I Consigli Di Renza, e mi firmavo invertendo nome e cognome: Pablo Renza. Dispensavo informazioni utili, tipo cosa fare se un cinghiale ti viene a vivere in bagno, o come nascondere il cadavere di tuo marito dopo che l'hai ucciso col frullatore, cose che possono sempre tornare utili a una casalinga di un piccolo paese.

Il giornale ebbe vita breve, da una parte il direttivo della pro loco voleva che scrivessimo quanto era bella la sfilata di natale cui partecipavano cinque persone compresi i tre membri dell'associazione più la moglie e il figlio di uno dei tre, dall'altra si era manifestata l'ostilità di alcuni lettori, che si sentivano vituperati dai nostri articoli.
E quando dico alcuni intendo dire uno, una signora che si chiamava Renza per davvero, e che temeva di venire scambiata per l'autrice delle mie scempiaggini.
Cosa volete che vi dica, in un piccolo paese ci sono così poche opportunità per svagarsi che ognuno si arrangia come può.
Mi telefonò un giorno per manifestarmi tutto il suo disappunto, e mi diffidò a firmarmi ancora col suo nome. Così feci, non mi andava di dare un dispiacere a una lettrice affezionata, e poi le sue ragioni erano talmente evidenti che come facevo a rifiutare? Scrissi subito un pezzo che venne pubblicato nel numero successivo, in cui le chiedevo scusa, ma non intendevo cambiare nome, e sai che c'è? Vaffanculo.

Chiudemmo comunque dopo un mese, ma almeno mi ero tolto una soddisfazione.

L'ho incontrata per strada poco fa, la vera Renza, col colbacco e gli occhiali da sole rotondi, sembrava Yoko Ono. E non mi ha salutato. Evidentemente mi serba ancora rancore per quell'episodio, ma bisogna capirla, sono passati tanti anni, ma il paese non ha migliorato la propria offerta in fatto di svaghi.

Ho pensato di omaggiarla, Renza, e contemporaneamente di mostrarvi un esempio della rubrica che curavo allora. Faceva più o meno così:

 

I consigli di Renza – Cosa fare se incontrate Yoko Ono per strada.

Care amiche, con l'avvicinarsi delle feste natalizie è probabile che alcune di voi decideranno di partire per un bel viaggio, e cosa c'è di meglio di New York, la città che non dorme mai, con le sue vetrine sempre luccicanti?
Le Maldive, per esempio, ma metti che ci siete già state.
Ma New York non è solo la città dello shopping, qui ci vivono molte delle celebrità che vedete sempre sui giornali più ricchi di questo, quelli che si possono permettere anche le foto!

Pensate, siete lì che camminate sulla Quinta Strada, il naso in su ad ammirare i grattacieli, e tutto ad un tratto vi trovate faccia a faccia con Yoko Ono! Non sarebbe incredibile?
Dovesse capitarvi non potete assolutamente rischiare di fare brutte figure, dovete cogliere l'occasione per lasciare il segno!

Innanzitutto cercate di assicurarvi che sia davvero lei: se ha gli occhiali scuri e un buffo cappello potete stare tranquilli, ma se indossa una camicia coreana e ha i capelli a spazzola correte via! È Kim Jong Il, il dittatore nordcoreano!

Una volta rassicurati sull'identità della signora potete fare le presentazioni. Occhio alla pronuncia, anche se l'aspetto potrebbe ingannarvi il suo nome si pronuncia con la enne, non con la emme. E per carità, se vi chiamate Chapman usate il cognome di vostro marito!

A questo punto, se avete giocato bene le vostre carte, la signora Ono si sarà fermata volentieri a scambiare due chiacchiere con voi: ditele che avete quasi tutti i suoi dischi, evitate di esagerare mettendoci anche Starpeace, capirebbe che la state prendendo per il culo.

Una volta ottenuta la sua fiducia siete pronte, tirate fuori una copia di quel capolavoro di buon gusto che è Season Of Glass e chiedetele di autografarvelo proprio sopra la lente insanguinata di John, quindi salutatela calorosamente e fate quello che tutti si aspettano dal 1980 ad oggi: andate ad aspettarla sotto casa con un revolver Charter Arms 38 Special e quattro proiettili.