namami nanda-nandana

Sorridi più che puoi. Non ti stai portando il mondo sulle spalle, te lo puoi permettere. Almeno è ciò che lo Yogi Madonna Di Lorheeto ha dichiarato ieri sera da un palco allestito in economia nell’atrio di Palazzo Ducale, a Genova.

Trattandosi di uno dei maggiori leader religiosi della nostra epoca ci si sarebbe aspettata una maggiore considerazione da parte della città, ma a breve verrà a visitarci il Papa, e si temeva un incidente diplomatico. Per la stessa ragione è stata negata una conferenza al capo del Movimento Adoratori Di Vega, che aveva chiesto di bombardare la città coi minidischi e un paio di mostroni giganti, e di poter scrivere sulle rovine con una bomboletta “La mamma di Goldrake è una zoccola”.

vabbè, facile attirare lettori con ste foto

Mi trovavo fra il pubblico, non tanto in veste di fedele quanto di accompagnatore e autista della mia insegnante di meditazione, la Signorina Jodel. Ne avevo perso le tracce qualche post fa, e la credevo occupata al museo delle rane parlanti, o qualcosa del genere, e invece viene fuori che era in Corea del Nord, ed è tornata apposta per incontrare il suo idolo.

“E che ci facevi in Corea del Nord? Creavi ransomware?”

“Studiavo la felicità artificiale. Vedi le foto di quei posti lì, le poche che il governo lascia circolare, sono tutti felici. Osannanti, quasi. Ma lo sono davvero? Così sono andata a vedere se è solo propaganda o qualcuno riesce a essere felice anche in un posto che sembra un quadro di De Chirico in scala di grigio.”

“Io conosco uno che ha la faccia da Corea del Nord. Ma non che somigli a un qualche coreano, somiglia alle foto dei palazzi, alla gente felice per finta, ai viali deserti, alla rigidità, alla censura, alla tristezza cui hanno spalmato in faccia un dito di colore per venderla all’Occidente.”

“Ma è proprio quello il punto, chi lo dice che questi non lo sono davvero, felici? È facile dire che glielo impongono, ma quando li conosci e ci parli ti accorgi che quelli sono felici davvero di vivere in una prigione, perché non hanno mai conosciuto altro. Per loro quella è la libertà, e gli va bene così. Che diritto ha l’Occidente di imporre il proprio modello? Chi l’ha deciso che la nostra felicità è più autentica della loro?”

“È una gara a chi abita il paradiso artificiale più vero, tipo?”

“Sembra una canzone di Vasco Brondi.”

Sul palco si muove qualcosa. Entra lo Yogi Madonna Di Lorheeto accompagnato dall’interprete. Il primo è il classico santone indiano col sari e i capelli lunghi, bianchi e sporchi. È scalzo, come da copione, e sorride a tutti. L’interprete indossa un cardigan grigio e la stessa camicia azzurrina che vedevi una volta addosso ai controllori del treno. Sembra uno appena arrivato lì dall’ufficio, sono un po’ deluso.

È lui a tenere il microfono in mano, comunica alla folla che adesso Yogi Di Lorheeto risponderà alle domande dei fedeli. Fermento. Qui è dove una processione di esaltati gli chiederà in decine di modi diversi perché non riescono a trovare qualcuno che se li scopi come si deve. Non vedo l’ora.

Il primo è un ragazzo rasato con la barba e la voce da adolescente, maglietta verde militare e cargo shorts. Un po’ di pancetta, anfibi slacciati. Ringrazia il santone dell’opportunità che gli ha concesso e fa un lungo preambolo dove si capisce che non ha niente da dire, ma voleva dirlo davanti a tutti. L’interprete traduce per un po’, poi ringrazia il giovanotto e lo invita a liberare il palco. Yogi Di Lorheeto mantiene il sorriso serafico di quello che è presente col corpo, ma nella fantasia sta girando un porno con tre studentesse di architettura.

Dopo il fanatico si presenta Jabba The Hutt coi capelli lunghi e gli occhiali. Non mi azzardo ad assegnargli un sesso, preferisco parlare solo di quello che posso confermare. È prigioniero in un abito da donna a righe colorate orizzontali che gli si gonfia nei posti sbagliati. Proprio al centro della figura, per esempio, le righe colorate famose per il loro potere snellente faticano un casino a nascondere una panza tonda che disegna sulla figura un cerchio quasi perfetto. Sembra che qualcuno abbia messo delle gambette tozze al monoscopio della Rai.

“Maestro”, geme la figura, “Ho passato gli ultimi anni della mia vita a inseguire la carriera, tralasciando l’amore e la famiglia. Adesso però comincio a credere che sia venuto il momento di fermarmi e guardarmi intorno, solo che gli uomini che avvicino mi snobbano, chiaramente intimoriti dalla differenza di ceto sociale. Sono una donna semplice, non mi curo di queste minuzie, per me l’amore non conosce classi. Sono convinta di saper amare anche un uomo molto più umile di me, ma temo che per lui non sarebbe così semplice convivere con una upper class. Potrò trovare qualcuno che mi ami per quella che sono realmente?”

Il santone ascolta la traduzione del suo assistente, poi gli sussurra qualcosa all’orecchio. L’interprete prende il microfono e fa: “Tesò, è buddismo, mica Mandrake”.

La ragazza, azzardo a definirla ragazza dai, scende dal palco, e al suo posto si presenta uno biondo coi capelli arruffati e degli occhiali spessi, che tiene per la coda un gatto morto. Borbottii del pubblico. Le zampe rigide della povera bestia gli sbatacchiano sui pantaloni di una tuta consumata sulle ginocchia e sugli orli. Dice di chiamarsi Giulio. Mostra il cadavere prima al pubblico e poi al santone, come un prestigiatore. Mi aspetto che adesso entri una valletta con una cassa di legno e ce lo infilino dentro, poi si faccia il trucco della sega, tanto anche se non dovesse riuscire il gatto è già morto.

Il tizio spiega che quel povero essere che gli penzola dal braccio è sua madre, mancata all’improvviso quando lui aveva sei anni. Altri borbottii dal pubblico mescolati a grida di stupore.

Dopo la sua dipartita la donna si è reincarnata in un lucherino, che per quelli poco interessati all’ornitologia sarebbe un passeriforme della famiglia Fringillidae.

L’uomo ha voluto così bene a quell’uccellino, gli parlava, ci si confidava, gli chiedeva consigli ai quali il piccolo volatile rispondeva spesso saltellando a destra e a sinistra sul bastoncino di plastica che attraversava in larghezza la piccola gabbia.

Un lucherino vive in media fra i cinque e i sei anni, quello di Giulio è arrivato a otto, ma alla fine anche lui ha lasciato nel cuore del padrone lo stesso vuoto di mamma. Per fortuna la nuova reincarnazione è avvenuta immediatamente, in un cagnolino di nome Charlie, un piccolo terrier bianco su cui l’uomo ha riversato tutto il proprio amore. Quanti anni felici col piccolo Charlie, a correre per la strada, a dormire abbracciati sul divano! A differenza del lucherino Charlie era capace di manifestare il proprio amore quasi come faceva la mamma, non sapeva rimboccare bene il letto, era piuttosto più dotato nel disfarlo, ma quei baci così teneri non li riceveva più da quando mamma era ancora con lui. E in questi c’era pure la lingua, elemento di cui i suoi compagni di scuola parlavano con rispetto reverenziale durante le riunioni sediziose della ricreazione.

Tre anni dopo anche Charlie se ne andava, ucciso da un autobus distratto.

Il finale di questa triste storia lo immaginiamo tutti, ma Giulio ci stupisce, chiedendo a Yogi Di Lorheeto se può interrompere il ciclo eterno della reincarnazione.

Ogni volta che perde sua madre, dice l’uomo, è come se un pezzo di lui smettesse di vivere. Sente che se continuerà a subire queste amputazioni si trasformerà in un sasso, incapace di provare alcuna emozione. Una vita senza emozioni non vale la pena di essere vissuta, dice. Preferisce essere un uomo solo e alla deriva, ma capace di sperare che un giorno la sua vita si rimetterà in moto, piuttosto che una creatura apatica che aspetta di morire come si aspetta il proprio turno alle poste.

Yogi Di Lorheeto sembra soppesarlo. Lo guarda in silenzio, lisciandosi la lunga barba.

Poi dice: “Amico mio, guardare sempre al passato non ti permette di vedere il futuro. Ti sei legato al ricordo di tua madre come se solo lei potesse garantirti la felicità, ma l’unico responsabile della tua felicità sei tu. Getta via questo dolore e smetti di delegare la tua vita a qualcun altro.”

“Certa gente la felicità non la sentirebbe neanche se gliela piantassi in testa a martellate”, commenta la Signorina Jodel.

“È un accostamento interessante, la felicità e le martellate. Un po’ mi ci riconosco”, le dico.

“Nah. Tu sei prigioniero dentro schemi più complessi, non ti bastano due formulette per tirartene fuori.”

“Magari è proprio dalla mia vita che dovrei tirarmi fuori”

Mi riferisco alle cose che faccio senza appagamento, ma la frase suona sinistra come una lettera lasciata sul tavolo di una stanza vuota, al settimo piano con la finestra spalancata.

Inizio a calarmi nel solito pozzo nero dell’autocommiserazione, era tutto il giorno che lo aspettavo e nessuno mi aveva ancora fornito una scusa valida. Che se ti ci infili senza scusa poi dicono che ti piangi addosso.

Sono lì che preparo la prima frase d’effetto, “a me nessuno mi ha mai voluto davvero bene”, ma vengo interrotto dalla ragazza che sale sul palco.

Ha un viso scuro, dai tratti che non sembrano europei, e lo ha decorato con punti e linee bianchi e azzurri, che sulla sua pelle risaltano come le lampadine del presepe.

Ogni volta che sorride il bianco dei denti è un faro in faccia.

Non è alta, sotto i larghi pantaloni di tela verde potrebbero nascondersi le mille insidie delle ragazze a forma di pera, ma al posto del camicione copritutto ostenta una fascia di seta grezza che le copre soltanto il seno. I suoi fianchi si stringono intorno alla vita in una curva armoniosa che ti vien voglia di mettere le mani su una bici e percorrerla avanti e indietro. Intorno all’ombelico ha dipinto dei raggi bianchi, così che ora quella curva è illuminata da uno strano sole nero.

Ha delle poppe grandiose.

Invece di fermarsi come hanno fatto gli altri guadagna il centro del palco, si inchina con grazia davanti al santone e poi gli dà le spalle. L’interprete le allunga il microfono e se ne va, dal fondo viene avanti un ragazzo col codino e il sitar, vestito con quello che se non è un copridivano ikea io sono George Harrison.

“Ciao a tutti”, dice lei. “Noi ci chiamiamo Prakaash, che in lingua hindi significa luce. Speriamo di portarvene un po’!”

Attacca a cantare una nenia di due note, accompagnata dal miagolio del sitar, che deforma ogni suono e lo fa sembrare quello di quando provi a suonare un elastico. A me i Kula Shaker piacciono pure, ma se potessi scegliere adesso preferirei Kashmir, dei Led Zeppelin.

“È bellissimo”, commenta la Signorina Jodel, che per queste cose indiane ha un debole. A me fa venire voglia di pizza, non tanto perché c’è qualcosa che me la ricorda, quanto perché quando mi annoio mi viene sempre fame. Però la ragazza sul palco ha unito i palmi delle mani sopra la testa, e agita i fianchi in un modo che qualunque pensiero io riesca a formulare assume di colpo una piega erotica, e così mi ritrovo a sognare mani che pastrugnano mozzarella di bufala e corpi infarinati che si avvinghiano di fronte al forno.

È in quel momento che va via la luce e da qualche parte sale un urlo acuto.

(continua)

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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