la storia di Armando

Armando era un uomo robusto. Più alto dei suoi coetanei fin da ragazzo, aveva mantenuto l’aspetto giovanile anche quando i capelli si erano sbiancati, e ancora qualche signora si voltava a guardarlo passare.
Da giovane era stato un predatore. Con quella faccia da bandito e i modi da bravo ragazzo le conquistava tutte. Quando veniva la sera del ballo i suoi amici neanche si mettevano la camicia buona, se sapevano che veniva lui al massimo potevano mirare agli avanzi.

La piazza esplodeva di gente, le case rivestite di lampadine bianche illuminavano gli ottoni della banda, venuta fin da Castelbuono per onorare il santo e far ballare i peccatori.

Armando stava al centro, ballava meglio di tutti, con tutte. Sceglieva una compagna, un’altra, le faceva girare, le faceva divertire, poi non lo vedevi più, e stavi a far la conta per capire chi fosse la fortunata sparita insieme a lui.
Niente di più facile che mia madre sia stata concepita alla festa del santo.

La donna che cambiò la vita di Armando si chiamava Maria. Nelle poche foto che mi sono rimaste di lei è già sui cinquanta, una donna del sud di bassa statura, scontrosa con l’obiettivo, nobile nella sua semplicità.
Mio nonno dice che era la più bella di tutte, aveva dei riccioli neri lunghi oltre le spalle, e un ciuffo bianco che le cadeva sulla fronte.
Era piccola e scura come un pezzo di carbone, e aveva gli occhi sempre accesi, e quando glieli puntava addosso si accendeva anche lui. Erano due amanti straordinari, si nutrivano uno dell’altra senza remore, e lui l’aveva amata come si ama la propria terra, con le mani e la fatica.

Mia madre racconta una storia diversa. Dice che Armando voleva bene a sua moglie, e che a modo suo l’aveva rispettata, ma che era stato a causa sua che aveva dovuto mettersi a lavorare, e quando il lavoro non bastava più a mantenere la famiglia aveva dovuto abbandonare il paese e venire a Genova, a fare il manovale in porto.
E questa cosa non gliel’aveva mai perdonata, come se la figlia se la fosse messa in grembo da sola.

La natura di un uomo non la cambi, e quella di Armando aveva radici spesse come il suo fisico. Non smise mai di frequentare le altre donne, e forse fu di questo che si ammalò la nonna. Di assenza.

Voler bene a una persona e amarla sono due cose diverse, e questo l’ho capito anch’io, molti anni più tardi.
Mio nonno amava la vita, sé stesso e la figlia, ma per Maria non seppe mai trovare un posto dentro il proprio cuore. Le diede tutto quello che aveva, ma non l’accettò mai accanto a sé in quel modo che solo le persone innamorate sanno ritagliarsi dentro. E non c’è offesa maggiore per una donna che non sentirsi riconosciuta in quel ruolo. Non c’è surrogato che possa sostituire un amore: madre, amante, amica sono ruoli che non riempiono tutto lo spazio, e in quelle fessure s’insinua un vento gelido che ti ammazza.

Ognuno possiede un proprio linguaggio dei sentimenti, che è fatto più di silenzi che di parole. Si esprime nei gesti e nei tempi, e bisogna padroneggiarlo per non commettere errori stupidi dettati dalla fretta o dalla superficialità. E anche quando lo si conosce alla perfezione ancora non basta, perché anche noi cambiamo, e lo stesso silenzio oggi dirà qualcosa di diverso alla persona che saremo domani. Insomma è un casino, per forza che le persone trovano più facile odiarsi.

Mia madre deve avere ereditato la lingua della nonna, o forse ne ha inventato una propria che non capisce nessuno, né io né mio padre, che dopo venticinque anni di discussioni su qualunque cosa si è arreso all’impossibilità di comunicare, ha chiuso lo studio e se n’è andato a vivere a Dubai.
O forse lo straniero è il nonno, ma allora io devo essere come lui: ogni volta che ho un problema di interazione con qualcuno è a casa sua che cerco riparo, e a quanto pare è l’unico in grado di capirmi.

Seduti a tavola mi versa un bicchiere di vino rosso denso e scuro. Di solito non bevo, ma con lui non ci provo neanche a rifiutare. Mi chiede del lavoro, e fin lì è facile.
Bene, gli rispondo. La libreria funziona, stiamo aumentando il giro dei clienti, quelli che vengono a curiosare poi tornano con degli amici. All’ultima presentazione di un libro in giardino c’era anche un fotografo, siamo finiti sul giornale.
“Tua madre cosa ne dice?”, mi domanda, ma la risposta la sa già, me l’ha chiesto solo per forma.
Mia madre pensa che dovrei trovarmi un lavoro più sicuro, o almeno qualcuno che mi mantenga.

“Certo, come ha fatto lei. Ed è finita a futtìa. Tua madre è una testa di minchia, e vorrei proprio sapere da chi ha preso, io non sono mai stato così. Dev’essere stata mia suocera, quella aveva degli antenati turchi.”

A pranzo da nonno Armando si va con una buona scorta di contenitori di plastica: è bravissimo a cucinare, ma non ha ben chiaro il concetto di porzioni, e ogni volta prepara per cinque o sei persone. Poi lui mangia poco, è anziano, e io mi trattengo grazie alla puntualità con cui il mio cervello mi propone l’immagine del grosso culo di mia madre, da sempre il migliore argomento per cominciare una dieta. Il resto delle vettovaglie me lo porto a casa e ci ricavo pranzi e cene per una settimana.
La sfida questa volta si presenta difficile: le seppie coi piselli hanno un profumo squisito. Me ne verso una porzione abbondante, e il nonno ghigna.

“Avevi fame, eh?”
“A dire il vero mica tanto”
“E perché? Stai male?”
“No, non è quello..”
“E allora? Se la salute va bene, il lavoro va bene, tua madre ti lascia vivere..”

Abbasso sul piatto un paio di occhi da cane. Armando allarga le braccia.

“Ma di nuovo? Sara, bambina mia, i fidanzati ricchi lasciali pure a tua madre, ma magari uno povero prova a tenertelo! Questo che aveva?”
“Niente. Come al solito. Sono io che non vado.”

Perché è così, non hanno mai niente di sbagliato, sono carini, sono gentili, sono innamorati. E io sono una stronza. Dopo un po’ mi rompo le palle e sento il bisogno irrefrenabile di andare un momento in bagno e calarmi dalla finestra. Perché sono solo carini, mica splendidi. Solo gentili, e mioddio vi prego non vi innamorate, non di me!

“Si vede che non hai ancora trovato la persona giusta”, dice Armando, e sostituisce il piatto vuoto con uno più piccolo in cui troneggia una fetta di crostata grande come la teglia che uso per fare le patate al forno.

“Il fatto è che ho paura di diventare come mia madre. Di lasciarmi scegliere e stare con qualcuno per solitudine. Di arrendermi, di non innamorarmi più. Sono anni che non mi innamoro più. Frequento delle facce, non delle persone. Cambiano i nomi, le case, ma in ogni momento potrei sostituire quell’uomo con un altro, e dentro di me non farebbe differenza. Quando me ne rendo conto mi viene voglia di andarmene, non sto costruendo niente, perdo tempo e basta.”

“Tu non ci diventi come tua madre, sei diversa. Sei più forte. Lei ha sempre avuto paura, ha sempre lasciato che fossero gli altri a decidere. Tu sei indipendente.”
“Luca, questo ragazzo con cui stavo uscendo, mi ha detto che sono anaffettiva.”
“E che minchia vuol dire?”
“Che non so amare le persone”
“E che lui è tutte le persone? Non sai amare lui perché è un minchione, ma mica sono tutti minchioni. Quando troverai quello giusto andrà meglio.”
“E se non lo trovo e mi accontento?”
“Uuuh! Senti, se ti chiedo vuoi le seppie o un pezzo di pane vecchio che mi rispondi? Mi rispondi le seppie. E lo vedi che la capisci la differenza fra uno che lo vuoi e uno che te lo pigli e basta!”.

Armando mi accompagna alla porta. Ho tanto cibo da nutrire un battaglione di alpini, anche a dividerlo con la mia collega ci vorranno settimane per smaltirlo. Prendo in considerazione l’acquisto di un congelatore a pozzetto. A spanne dovrebbe essere grande come metà del mio appartamento, ma d’estate posso sempre dormirci dentro.
La cassettiera all’ingresso è colma di soprammobili. C’è un arlecchino in vetro colorato e un galletto portoghese in quella che sospetto essere plastilina dipinta, un trullo grande come la mia mano, diverse campanelle con stampato sopra il nome di qualche città, una riproduzione della basilica vaticana con la faccia di Giovanni Paolo stampata nel piazzale. È tutto così kitsch da farmi sorridere. È la collezione della nonna, era lei quella appassionata di cianfrusaglie: fin dal viaggio di nozze aveva preso l’abitudine di infilare in valigia piccoli ricordi. Mi piace credere che Armando non se ne sia mai sbarazzato per amore verso sua moglie. Lo so che per lui è solo ciarpame senza importanza, è un uomo abituato all’essenziale. Mi chiedo se li abbia mai aperti, quei cassetti.

In mezzo alle foto ce n’è una più recente. Siamo io e lui, due anni fa, a casa di mia madre. Io ho i capelli più corti, avevo appena cominciato a farli crescere, mentre i baffoni di Armando sono sempre gli stessi da quando lo conosco. Sembriamo tutti e due più floridi di oggi. Lui ha raggiunto un’età in cui il tempo ha smesso di concedere sconti, e io quella in cui ci si dovrebbe fare una famiglia. Uno dei due non sta seguendo il naturale ordine degli eventi.

(potrebbe continuare)

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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