Diario portoghese 8 – Viana Do Castelo

Alla stazione di Viana c’è un bel sole, e la fiumana di gente che attraversa i binari fa pensare a qualche apocalisse in corso, però allegra, che durante le apocalissi di solito piove. Tutti sciamano giù per il viale, salutando le due statue dei ballerini che se ne stanno piantate in mezzo all’ingresso e fan sempre lo stesso passo, uno di qua e l’altra di là, che ballo sia poi io non l’ho mica capito. Tutti sciamano e vanno a sistemarsi lungo la strada decorata a luminarie, che sta per cominciare la processione, e così facciamo anche noi.

Appena voltato l’angolo ci finiamo dritti in mezzo, un casino di uomini coi tamburi, donne con lo scialle colorato, personaggi dalla sessualità incerta mascherati da giganti col testone di cartapesta, tutti lì a girare intorno come prima di una gara; gli orchestrali si aggiustano i cerotti sulle dita, che martellare per ore sul tamburo ti fa venire delle vesciche grosse che sembrano pomodori, le donne si dividono per colore, quelle con lo scialle rosso parlano male di quelle con lo scialle verde, quelle gialle criticano le viola, le uniche fuori dal coro sono le nere, che portano appeso al collo più oro di un rapper americano, e se lo rimirano soddisfatte. A chiudere la processione c’è una banda musicale vera, di quelle con gli strumenti da banda, gli ottoni e i legni, ma la grancassa non c’è, colta da complesso di inferiorità si è data malata.

Poi comincia. Di colpo, siamo lì che facciamo le foto al trombettista col dito in bocca e questi cominciano a muoversi tutti insieme, se ne vanno e intanto serrano le fila, si dividono, le rosse con le rosse, le gialle con le gialle, le viola in fondo che stanno sul cazzo a tutti, solo le nere restano ferme, i gioielli che portano addosso le rallentano troppo e finiscono inghiottite dal susafono.

Marzia non fa che strattonarmi e indicarmi Lucilla: “Guarda!”, mi dice, “Fuma il sigaro! Non l’ha mai fumato il sigaro prima!”, e io “E lasciala in pace, è in vacanza, è normale che si conceda qualche libertà!”.

Lei non si arrende, e cinque minuti più tardi è di nuovo lì a tirarmi per la maglietta:

In bagno è entrata dalla parte degli uomini, l’ho vista!”
Si vede che quelli delle donne erano occupati”
Tu non mi credi!”
Ma si che ti credo”, rispondo con la testa in un pastel de nata.

Per convincermi che non sta fantasticando chiede a Lucilla quale sia il piatto più tipico della sua città, e lei risponde “poenta e osei”.

Visto?”, mi fa.
Non lo so, non sono pratico delle specialità gastronomiche delle città italiane”, replico.
Ma come non lo sai? Lucilla è romana! Questa parla veneto! E fuma il sigaro, e usa il bagno degli uomini, cosa devo fare per convincerti?”
Aspetta, siamo arrivati in piazza!”

Eh si, nel frattempo siamo arrivati in piazza, ampia, con una fontana al centro e una torre merlata a ricordare che in Portogallo il medioevo è sempre presente, come la sofferenza.
gigantones ci hanno preceduto e se ne stanno seduti a un tavolino del bar ciondolando il capoccione e bevendo caffè in tazza grande, e al centro si stanno radunando anche i gruppi coi tamburi.
Ci sediamo in prima fila, proprio davanti a una banda di bombos, stupiti da tanta fortuna, ma appena comincia realizziamo il tragico errore: nessuno si siede in prima fila, lì il fragore dei tamburi è insopportabile, peggio di una rubrica di libri recensiti da Fabrizio Corona. Quando tutti i gruppi attaccano a suonare e ci sfilano davanti mi salta un’otturazione, ad Alessandro si frantumano gli occhiali, Lucilla perde il parrucchino, Marzia mi sgomita furiosamente.
Resistiamo mezz’ora al nostro posto, finché non ci rendiamo conto che ci si stanno sbriciolando anche le viscere, quindi cediamo il posto a chi stava dietro. Non dimenticherò mai l’espressione di terrore che la signora alle mie spalle aveva in faccia quando mi sono alzato.

Andiamo a mangiare?”
Dai! Cosa suggerisce la guida?”
Al diavolo la guida, andiamo a farci un polpettone di aspirine!”

È la prima volta in vita mia che utilizzo l’espressione “al diavolo”, capisco perché i miei compagni di viaggio mi guardino allibiti. Forse l’esposizione prolungata a quell’orgia di tamburi deve avere danneggiato qualcosa nel mio cervello.

Che diamine, anche a voi sarà capitato di proferire esclamazioni vetuste, no?”

Ommioddio!

Forse è il caso di rivolgersi ad un cerusico..”

OMMIODDIO!!

Questa volta è Marzia a salvare la situazione, suggerendo di posticipare la visita medica a dopo pranzo, metti che sia solo fame.
Suggerisco di allontanarci dal centro, in lontananza si vedono le gru dell’area portuale, là troveremo ristoranti economici poco frequentati.

Certo, e per essere ancora più sicuri di non trovare ressa potremmo andare a mangiare in una zona malfamata, o in mezzo all’autostrada! Sono sicuro che al casello non ci va nessuno a cercare un ristorante!”, mi rimbrotta Alessandro, per nulla impietosito dal dramma interiore che sto vivendo.
Naturalmente quando parlo di dramma interiore mi riferisco al fatto di non avere ancora pranzato.

E allora conduci tu, se il mio pensiero ti appare così peregrino!”

Ci fermiamo a un ristorante dall’aspetto molto turistico, coi tavolini sul marciapiede, non perché suggerito dalla guida, ma semplicemente perché le donne della comitiva non sanno resistere alla presenza di un gatto che gira fra i commensali. Facciamo un cenno al cameriere e ci sediamo a un tavolo ancora da sparecchiare. Aspettiamo.
Mezz’ora dopo stiamo ancora aspettando, ma il pane lasciato dai clienti di prima è terminato, e anche la mezza bottiglia di vino comincia a mostrare il fondo. Rifacciamo un cenno al cameriere, che reagisce con l’antico metodo di difesa dei camerieri portoghesi, sceglie un punto all’orizzonte e lo fissa con insistenza finché non ci arrendiamo.
A quel punto ci alziamo e andiamo a cercare un altro ristorante.

O Margâo è molto meglio, la salada de mariscos è gustosa e il melão che ordina Lucilla è così grosso che negli Stati Uniti gli fanno fare il Superbowl. C’è da dire che anche lì mi aspetto un servizio eterno, e anzi, quasi ci spero, che andartene dopo aver ripulito il tavolo è un’attività vantaggiosa, una volta superato lo scoglio morale.
Sulla via verso il centro Alessandro si fa tentare da un dolce dall’aspetto succulento che si rivela una bomba a base di rosso d’uovo e zucchero. Terminerà di digerirlo suo figlio, un martedì sera di fine novembre, venticinque anni più tardi.

L’immancabile saccente guida ci ricorda che prima di andarcene dobbiamo assistere alla celebre processione sul fiume, con tutti i pescherecci addobbati a festa che risalgono dalla foce per accompagnare la statua del patrono, fra gli applausi del pubblico festante.

Ma dobbiamo proprio seguire la guida? Io ancora devo vedere gli uomini di cui parla all’inizio, quelli che si ubriacano fino allo svenimento.”
Mi no go visto gnanca i canal come a Venesia!”
Ma no, quelli sono ad Aveiro. Marzia, piantala di darmi gomitate!”

La riva del fiume è a gradoni di cemento, un’ottima tribuna per assistere alle manifestazioni che da queste parti si tengono una domenica si e una no, tipo gare di motoscafo, caccia alla tinca, lancio del sasso o della zia; ci sistemiamo su quelli più bassi, stranamente lasciati liberi dagli autoctoni.
Altrettanto stranamente non colleghiamo il fatto alla botta di fortuna avuta in piazza, neanche due ore prima, ci buttiamo sui posti liberi esclamando vacheculo e siamo anche belli contenti e ci diamo di gomito e ci mettiamo quasi venti minuti per renderci conto del perché quei posti erano liberi. Manca completamente l’aria sul fiume. Non c’è una bava di vento, neanche quella brezzolina che fa muovere all’ellera i suoi corimbi, increspa gli specchi d’acqua, fa fremere le piume delle starne e dissolve i peti. Il sole è a picco sulle nostre teste, si riflette nell’acqua e ci acceca, ogni goccia di sudore che scaturisce dai pori ci evapora negli occhi e tutto questo vapore ristagna intorno a noi dando all’ambiente l’aspetto di un piatto di ravioli cinesi. Fa caldo sul fiume, lo sento io, lo sentono i miei amici e lo sentono pure le decine di persone assiepate, ma loro lo sentono meno, che sono state furbe e si sono messe più su, dove un po’ d’aria passa e la sopportazione è più lieve. E ce n’è da aspettare, ogni tanto scende qualcuno su una barca verso la foce, ma non risale più, non risale nessuno dalla foce, è tutto immobile all’orizzonte, salvo qualche salva di botti che scuote il cielo e disegna nuvolette nere, forse è il preludio alla processione, ma più probabilmente è un drago nascosto dietro il molo che si mangia le barchine impavide e poi rutta a scoppio.
Facciamo per andarcene, ma una signora con lo scialle ci dice nel suo idioma gutturale che le barche stanno arrivando, e ci risediamo.
Fa sempre più caldo, la nebbia che sale dai nostri corpi è salata e non dona alcun ristoro, dalle barche che scendono qualcuno intona motivetti allegri accompagnandosi con la fisarmonica, ma tutto è distorto in quell’afa opprimente, e alle nostre orecchie anche il canto più festoso giunge trasformato in una nenia lugubre.
Ci rialziamo, decisi ad andar via, ma la vecchina di prima ci indica l’orizzonte, dice “eccoli”. Proviamo a strizzare gli occhi, ma non vediamo una sega.
Scrolliamo le spalle e ci sediamo ancora, e il caldo è di nuovo su di noi, come un’incudine, come un bulletto di scuola media che ci picchia sul coppino, come le tasse, come le canzoni estive che ti ritornellano in testa per mesi e non le puoi scacciare, come le mosche.
Basta, adesso andiamo via davvero, ci alziamo e puntiamo la folla, ma la vecchina, sempre lei, mi prende per un braccio e dice no, restate, adesso arrivano, non sentite i motori festosi della processione che si avvicina?
No”, le rispondo, e la butto in acqua con un calcio. Vaffanculo.

La mancata processione è l’ultimo scalino di una giornata faticosa. Il viaggio di ritorno ci vede accasciati sui sedili come profughi, e la cena che ci concediamo è più la celebrazione della partenza di Lucilla e Alessandro il giorno a venire che una voglia reale di stare fra la gente.
Scegliamo un posto conosciuto e frugale, quel Filha Da Mãe Preta dove siamo già stati due giorni prima, l’outlet del ristorante figo che sta sulla passeggiata, il retrobottega di cui è cameriere il cugino di Cristiano Ronaldo.
Ci concediamo il brindisi d’addio, anche se ci rivedremo in capo a due giorni a Coimbra, ma non si sa mai, metti che domani vengono investiti da un pullman di turisti americani ubriachi, o nella notte qualche barbone fuori di testa li faccia a pezzi con un’ascia arrugginita e muoiano di tetano. Lascia perdere, c’è sempre un’ottima ragione per concedersi un brindisi d’addio.
Al momento di salutarci, in piazza, osservo la nostra coppia di amici attraversare la strada, ed è lì che ricevo l’illuminazione.

Opporc..”
Cosa?”
Non ho ancora deciso, pensavo a caputtana.”
No, dicevo cosa succede?”
Ma li hai visti mentre attraversavano la strada?”
Boh, si.”
Erano sulle strisce!”
E allora?”
E Lucilla era scalza!”
Si, mi ha detto che le facevano male i piedi e così si è tolta le scarpe.”
Quella non è Lucilla!”
Ma se è tutto il giorno che te lo dico! È veneta, fuma il sigaro, e a guardare bene ha pure i baffi!”
È Paul McCartney!”

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E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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