La trafila è la solita per ogni volo: ti fai portare all’aeroporto, fai la fila per il gate, ti fanno salire su un cubotto per una perquisizione dove manca soltanto il guanto in lattice, e ti lasciano libero di vagare in un’area piena di ristoranti, negozi, giardinetti. La differenza con Orio Al Serio è perfino ridicola, ma anche la Malpensa qui avrebbe grosse difficoltà a mostrare i muscoli.

Scegliamo un coreano che offra il pollo fritto, dal mio viaggio precedente me ne è rimasta una voglia da donna incinta, e facciamo venire l’ora della partenza.

Sul viaggio non ho granché da raccontare, l’aereo ha i sedili e i finestrini, le hostess sono gentili e il volo da Pechino a Guiyang dura un tempo difficile da quantificare se ti addormenti subito dopo il decollo. Se sono qui a scrivere significa che è andato tutto bene.

All’arrivo l’aria è più fresca, il taxi che ci porta in hotel ha l’autista chiuso in una gabbia, cosa che mi fa pensare a elevati tassi di criminalità locale, ma Shasha si limita ad alzare le spalle. La città dal finestrino sembra più caotica della capitale, le strade sono decisamente più strette, e il traffico ne risente, sebbene sia già piuttosto tardi.

Ma dov’è, poi, Guiyang?
Partendo da Pechino e spostandosi verso sud bisogna percorrere 2.183 km prima di arrivare a Guiyang, o almeno è quanto sostiene Google Maps. La metà della distanza fra Los Angeles e New York, che corrisponde, dicono, a circa 150 milioni di aspirine messe in fila. 

Ora non so chi si sia preso la briga di comprare così tante aspirine e collocarle su una lunghezza simile, ma se lo dicono dev’essere vero.

Guiyang è la capitale del Guizhou, una provincia che ospita il 37% delle minoranze etniche del Paese, ma se non sei cinese non ne riconosci nessuna, e quando ti dicono “Vedi quello? È un Miao” ti volti e vedi un altro cinese. Boh.
Il Guizhou è considerato da wikipedia una regione povera e sottosviluppata, ma da quando è stata scritta quella pagina sono cambiate diverse cose, e Guiyang si sta trasformando in un polo tecnologico all’avanguardia.

Perlomeno la sua parte più moderna, se cammini nella città vecchia (che poi, vecchia, sarà degli anni ’60, toh) ti senti come a casa mia, solo con più palazzi e molti più cinesi. Più o meno quattro milioni e mezzo.

L’hotel si trova nella parte nuova della città, che è come dire un’altra città, con una terza città nel mezzo. Guiyang sta subendo un’espansione molto veloce, come molte altre località della Cina. Trovandosi in mezzo ai monti è riuscito difficile allargarsi in cerchi concentrici come Pechino, si è cercato di fare un po’ come si poteva. Adesso dal centro si prende una strada a tre corsie che sale verso la parte nuova, fatta di grossi palazzi e centri commerciali. A metà strada si passa in mezzo a un altro complesso, fatto di quei palazzoni tutti uguali tirati su in mezzo al niente.

Alloggiamo all’Hyatt Regency, un cinque stelle sobrio in cima a una collina, da cui si gode una buona vista del parco sottostante e della città nuova alle sue spalle.

È dotato di ogni tipo di comfort, secondo gli standard di questa categoria: due piscine di cui una con l’idromassaggio, una palestra aperta anche di notte, un ristorante di lusso, salotti e salette per ogni necessità. Le camere sono confortevoli e piene di bottoni da schiacciare, i letti enormi.

Purtroppo, a differenza dell’Hyatt Regency di Shanghai in cui ho alloggiato a capodanno, il coperchio del gabinetto nella mia camera non si alzava e abbassava da solo quando entravo nella stanza, e il copritazza non era riscaldato.

È chiaro che se continui a offrire un servizio così mediocre gli affari ne risentono. Ogni volta che mi sedevo sulla tazza dovevo resistere alla tentazione di scrivere una lettera indignata al direttore della struttura; mi calmava solo il pensiero che, essendo fidanzato con una dipendente Hyatt, avrei potuto alloggiare a babbomorto praticamente ovunque nel mondo, e l’immagine di me che esco da un hotel di lusso a New York e saluto il valletto all’ingresso come Crocodile Dundee mi rimetteva subito di ottimo umore.

Sabato 11 agosto

Faccio colazione all’italiana: cappuccino, brioche, pane e marmellata, succo di frutta, yogurt, latte e cereali, una mela. Poi, siccome sono in un hotel figo, ne approfitto per fare anche una colazione inglese, che comprende uovo fritto, salsiccia, bacon, formaggio, salame e fagioli.

Per finire, essendo ospite in un Paese che ha usanze proprie per la colazione, faccio il terzo giro con jiaozi, baozi, youtiao (delle trecce di pasta fritte, una specie di krapfen senza la crema e dalla forma allungata) pucciati nel latte di soia.

Ho bisogno di energie, oggi è una giornata importante: conoscerò la famiglia di Shasha.

(domani farò la stessa colazione con una scusa diversa)

Sono un po’ preoccupato, mi sono stati descritti come una famiglia molto tradizionale, e non so se devo considerarla una cosa buona. Cioè, per me la famiglia tradizionale cinese è composta da una madre che indossa il qipao, un burbero nonno con una lunga barba bianca che insegna il kung fu e una nonna impegnata a dipingere caratteri con un pennello e cucinare robe al vapore. E sono tutti ostili verso gli occidentali.

Ci facciamo portare in taxi fino a casa dei nonni, in centro, e di lì ci infiliamo in una stradina malmessa. In un campo da calcetto lì accanto vedo degli anziani che camminano agitando le mani e battendo i piedi in una specie di danza. Shasha mi spiega che stanno facendo ginnastica.

“I tuoi nonni partecipano a queste attività di gruppo?”

“No”

“Allora posso parteciparvi io?”

“Sei nervoso?”

“No”, rispondo, mentre mi fermo un momento ad allacciarmi le infradito.

Alla fine verrà fuori che la famiglia di Shasha è una normale famiglia, solo più cinese delle altre.

E non parla inglese, cosa che ha limitato le nostre conversazioni alla nonna che mi dice cose e ride, e tutti gli altri che mi agitano la mano per salutarmi e poi ci si ignora.

Non potendo comunicare diventa difficile relazionarsi anche a livello emotivo, capire se queste persone ti sono simpatiche e tu a loro. L’unica che non ha problemi in questo senso è la nonna, che comunica nel linguaggio universale delle nonne: mi dà da bere, mi porta un gelato, si assicura che non abbia troppo caldo e che faccia il pisolino dopo pranzo con la coperta sulla pancia.

Una premura che tutta la famiglia mi ha dimostrato durante la mia permanenza a Guiyang, è stata di sintonizzare la televisione sul canale CCTVNews, un canale di notizie esclusivamente in lingua inglese. Non che me ne fregasse qualcosa, oltretutto il pluralismo dell’informazione in Cina non esiste, avrei ottenuto notizie più credibili dal mio telefono, ma quando sei in una casa piena di persone che parlano fra loro in un idioma sconosciuto l’unica alternativa al fingersi morto è fissare lo schermo sperando che succeda qualcosa.

Il primo giorno incontro anche la famiglia dello zio. Lui è un tipo gioviale, cerca di fare amicizia, si prende confidenza. Sua figlia è una ragazzina con gli occhiali che parla inglese decentemente, proviamo a dirci qualcosa, ma è come la gag di Guzzanti sull’aborigeno.

Una delle ragioni per cui siamo venuti fino a Guiyang è che la mia fidanzata deve rifare la carta d’identità.

Andiamo subito dal fotografo, e intanto che lei posa nel retrobottega io vado a fare due passi senza allontanarmi troppo, che se mi perdo qui non so proprio come riuscirei a ritrovare la strada.

Il clima è migliore che a Pechino, l’aria sembra più fresca. Di certo è più pulita.

Vengo attirato da un uomo che trasporta due ceste cariche di roba appese a un bastone, come una bilancia. È la tipica immagine dell’Oriente che collego alla mia infanzia, quando sfogliavo enciclopedie e guardavo cartoni giapponesi. A Pechino questi ambulanti non si vedono di sicuro, ma qui ne incontri di continuo: vendono frutta, oggetti, noci, e sempre col loro bilanciere sulla spalla.

Entro in un negozio di scarpe e la commessa si avvicina come al solito, e come al solito le dico, in inglese, che sto solo dando un’occhiata.

Questa va nel panico, chiama la sua collega che stava nel retro, ridono isteriche e si nascondono dietro al banco da dove mi fissano come se fossi in mutande.

Mi sento, in effetti, come una strana attrazione da circo, e la cosa non mi garba affatto, per cui decido che ci sono un sacco di altri negozi meritevoli della mia attenzione, ringrazio ed esco. Alle mie spalle risate come a una stand-up comedy.

Dopo pranzo (del pollo avanzato dalla sera prima e della roba buonissima comprata in una delle bancarelle giù in strada) i nonni devono riposare, quindi schiodiamo.

Shasha mi porta avedere il Padiglione Jiaxiu e il giardino Cuiwei. Fa un po’ strano tradurre i nomi cinesi, ma sennò non si capisce di cosa sto parlando, se di un piatto o di un edificio.

In questo caso si tratta di un complesso di edifici storici, epoca Ming (1598), formato da un ponte sul fiume Nanming, un padiglione di ottima fattura e una serie di edifici più piccoli circondati dal tipico giardino cinese,con gli ingressi tondi e i leoni di pietra.

Nel 1998, una delle periodiche inondazioni che colpiscono la regione danneggiò la struttura, e nella squadra di architetti che la riportarono allo stato originale era presente suo nonno. Per questo ci teneva a mostrarmelo, e mentre percorriamo il vialetto che sale verso l’edificio più alto mi mostra dove, da bambina, veniva a giocare con gli amici.

Sorride mentre lo racconta, e io quando sorride perdo interesse in tutto il resto, quindi scusate, ma del padiglione Jiaxiu non mi ricordo altro.

La parte di città in cui ci troviamo è dominata dal Kempinski Hotel, l’edificio più alto della zona.

Ci lavora un amico di Shasha, e andiamo a convincerlo a lasciarci salire ai piani alti. Grazie alla sua intercessione otteniamo un passaggio in ascensore e raggiungiamo il salotto panoramico, dove dei distinti uomini d’affari in abiti eleganti stanno prendendo il caffè. Noi in ciabatte e pantaloncini siamo perfettamente a nostro agio e scivoliamo lungo le vetrate con la grazia di baiadere in libera uscita.

Speravo di vedere il parco giochi futuristico appena inaugurato, o perlomeno il palazzo con la cascata sulla facciata, ma devono essere entrambi nella parte nuova, a nord.

Il colpo d’occhio è comunque notevole.

Abbiamo tutto il pomeriggio per ciondolare prima di andare a cena a casa di sua madre (leggera tensione sottocutanea): torniamo al fiume a giocare con gli aquiloni nella piazza principale, che si chiama Renmin, piazza del Popolo. È ampia e brutta, circondata da coppie di colonne e panchine, include nel campionario di squallori anche delle teste di animale su piedistalli di cemento, raffiguranti i dodici segni dell’oroscopo cinese.

Sul fondo una specie di ufone dorato tenuto a mezz’aria dalle canne di un organo collassate per la vergogna. Dalla parte opposta un’alta statua di Mao Benedicente fa la guardia a un edificio che ricorda qualche hotel americano degli anni ’50, quando faceva moderno somigliare a pandori spaziali.

In mezzo alla piazza gente in bici, coi pattini, e diversi campioni indiscussi di aquilonerie.

“Sei capace a far volare l’aquilone?”

“Che ci vuole? Dammi qua!”

Per dieci soldi (un euro e venti) compriamo il modello economico a forma di triangolo. Io avrei voluto quello più figo ad aquila reale, ma la mia saggia fidanzata preferisce andare per gradi, metti che non siamo così bravi.

Spoiler: aveva ragione lei, far volare un aquilone è più difficile di quanto pensassi. Mentre tutto intorno i locali ci sbeffeggiano da altezze che dovrebbero essere proibite ai mezzi sprovvisti di turbine, il nostro farfallone arranca a due metri dal suolo con l’incedere pericolante di un ubriaco dopo il cenone di capodanno.

In compenso, ciabattando avanti e indietro per evitare atterraggi rovinosi, rischiamo di travolgere diverse persone. Shasha commette anche l’errore di srotolare completamente il rocchetto di filo, e cattura un incauto pattinatore che stava dieci metri più in là.

Le nostre prodezze ci rendono immediatamente popolarissimi, tutti si fermano a guardarci e commentano a voce alta. Ho l’impressione che non ci stiano lodando per la nostra irresistibile simpatia, perché ad un certo punto, quando finalmente sono riuscito a rimettere le mani sul giocattolo e sto cercando di farlo ripartire, Shasha decide che è l’ora dell’aperitivo e mi trascina via.

Mi porta in un bar che conosce bene, dove mi mette davanti a un birrone gelato senza niente da mangiare, neanche due noccioline.

La barista sta tagliando a pezzi un grosso cubo di ghiaccio, mentre sul fuoco una pentola piena d’acqua raggiunge l’ebollizione.

Chiedo se serve per il minestrone, e mi viene spiegato che con quella si fa il ghiaccio. Viene bollita prima per eliminare le bolle d’aria. Non lo so se è vero, a quel punto sono ubriaco, neanche ascolto più.

La cena a casa della mamma è sobria: ordinano una teglia con dentro un pescecane intero sprofondato in una salsa di qualunque cosa comprese le arachidi. In tutta la serata dico forse tre parole, di cui una è ciao e le altre due bye bye. Però non va male, dopo cena ci sediamo a prendere il tè e assisto a una complicata cerimonia di travasi in contenitori sempre più piccoli. Mi regalano anche un servizio di teiera e quattro tazzine che spero tanto di riportare in Italia intatto.

Titolo scarso, eh? Pensate che la prima idea è stata “la Cina in cucina”, poi mi sono vergognato.

I cinesi quando si incontrano non si dicono ciao, si chiedono “Nǐ chī le ma?”, che vuol dire “Hai già mangiato?”, e io a un popolo che prima ancora di chiederti come stai ti offre da mangiare non posso che volere un sacco di bene.

A Pechino trovi da mangiare dappertutto più o meno a qualunque ora, i baretti e i ristoranti chiudono tardi, ovunque ti giri c’è un chiosco che cucina roba.

A Wangfujing c’è una strada chiamata Dashamao Hutong che sulle guide viene chiamata “The snack street”. Ci trovi solo bancarelle che vendono spiedini di qualsiasi cosa. I cinesi infilzano ogni specie animale o vegetale, puoi comprare fragole caramellate, calamari grigliati, pezzi di carne la cui origine resterebbe ignota anche alla polizia scientifica, e gli scorpioni.

In effetti tutti parlano di questo vicolo perché è l’unico posto in tutta Pechino in cui puoi trovare gli scorpioni grigliati. Perlomeno l’unico di cui si parla.

L’entomofagia è la pratica di mangiare gli insetti, ma i ragni non sono insetti, quindi si dovrebbe parlare di entomo- e aracnofagia, ma è anche vero che non ha senso cercare un pelo in un piatto pieno di zampette. Questo regime alimentare è diffuso in gran parte del mondo, ma non da noi, che pertanto ci prendiamo la briga di schifarci se a un pranzo di lavoro ci mettono davanti un piatto pieno di larve grosse come mandarini. È successo a una mia amica in una città della Cina in cui si trovava ospite, ed è la sola ragione per cui accetto che i cinesi, davvero, si mangino i bagoni.

Nei dieci giorni di permanenza in Cina non ho mai trovato nessun altro posto al di fuori del vicoletto di Wangfujing, e anche lì i due banchi presenti erano del tutto snobbati dalla seppur numerosa clientela. Inoltre i cinesi che conosco io si farebbero investire da un’auto piuttosto che infilarsi in bocca un millepiedi.

Ma com’è il cibo cinese? È buono? Ero partito prevenuto, abituato al cibo meno che mediocre servito nei ristoranti genovesi, dove fra un all you can eat e un sushi bar (che è come se un ristorante francese facesse la pasta al pesto) ti tocca accontentarti di una quindicina di piatti ibridi, sempre gli stessi ovunque, cucinati peraltro in maniera dozzinale.

Ecco, la cucina cinese originale non è molto diversa, nella sostanza: un sacco di zuppe, con o senza spaghetti dentro (spaghetti di riso o di soia, quelli di grano che mangiamo noi non li usano), diversi tipi di stufato e padellate di verdura, o carne, o entrambe. La cucina al forno non la considerano, non usano la farina di granturco né i derivati del latte come burro e formaggio. Il pane è diffuso, ma come un alimento occidentale, la stessa cosa che succede qui con l’hamburger.

Però, se a cucinarla sono dei cuochi e non dei facchini, la cucina cinese è proprio buona, e il mio primo impatto vero è stato la sera di Natale, quando mi sono seduto al tavolo del prestigioso Made In China.

Che già me lo chiami Made In China e penso che adesso la sedia si rompe e la forchetta è di plastica e il cameriere ha i baffi finti e se guardo dietro la parete di bottiglie preziose scopro che c’è solo una trave a tenerla in piedi e separarla dall’officina allestita dietro, tipo set cinematografico. Made in China, ma dai!

Il tavolo è in un angolo appartato, le luci sono soffuse e il cameriere non ha i baffi. Provo a spingere una parete e non si muove niente, tiro i capelli al tizio seduto al tavolo accanto e sembrano veri anche quelli. Guardo sotto al tavolo, sopra gli scaffali, tiro giù sei o sette bottiglie per cercare telecamere nascoste, non trovo niente. Mi sa che è un ristorante vero.

Allora ordiniamo. Cioè, Shasha ordina, io non so neanche dire buonasera.

Spinaci con crema di senape e semi di sesamo e melanzane al vapore. E io sarei a posto così, ma in quel ristorante sono famosi per l’anatra alla pechinese, il cui nome lascia intuire che non sia il caso di mangiarla in un’altra città.

l’anatra alla pechinese è quella nel piatto

L’anatra alla pechinese è un piatto che risale all’impero Yuan, che sono quelli venuti prima dei Ming, che erano interpretati da Max Von Sydow e amavano to play with things a while before annihilation. Stiamo parlando della fine del 13° secolo, metà del 14°, anche se la sua vera fortuna risale al tardo impero Ming, grossomodo quando Colombo stava in mezzo all’Atlantico cercando di convincere il suo equipaggio che una volta arrivati nel Catai ci sarebbe stato papero arrosto per tutti. Poi è andata a finire come sappiamo, ma intanto a Pechino la corte si godeva questo piatto raffinato, diventato così celebre che neanche trent’anni più tardi apriva il primo ristorante specializzato, Bianyifang. C’è un ristorante in città che porta lo stesso nome: non è proprio lo stesso ristorante, ma è parente, risale alla metà dell’800, ed è comunque il più antico ristorante cittadino.

Noi però avevamo lo sconto al Made In China.

Come si mangia l’anatra alla pechinese?

I cinesi a tavola stanno molto attenti all’igiene, al punto di bere acqua calda perché quella fredda fa male, perciò non vedono di buon occhio infilarsi il cibo in bocca con le mani. Se a casa ognuno è libero di fare come gli pare l’etichetta richiede che qualsiasi pietanza venga consumata aiutandosi con le bacchette o il cucchiaio. Sì, anche gli involtini primavera, e se li mangiate con le mani sappiate che dalla cucina vi stanno guardando come degli zozzoni. È per questo che ogni pietanza nella cucina cinese viene servita già tagliata in bocconcini, compreso il pesce e il pollame.

Scordatevi la coscetta strappata via e rosicchiata con gusto tenendola per l’osso, il piatto tipico di Pechino viene servito a fette in tre piattini: in uno trovate la carne magra, in uno la pelle arrostita e nell’ultimo la carne più grassa. Insieme alla portata principale il cameriere porta delle piccole sfoglie di pane, tipo crèpes, in cui vanno arrotolati i bocconi di carne. A piacere si può aggiungere della cipolla fresca tagliata a bastoncino e della salsa, che sui tavoli non manca mai.

Come viene preparata non ve lo spiego, e neanche lo voglio sapere: una cosa che ho capito della cucina cinese è che dietro quella porta succedono cose che mi farebbero passare l’appetito, a prescindere da quanto sia buono il risultato.

La cena di Natale è stata il momento più elegante dei miei pasti cinesi, ma se devo dire la verità non la più soddisfacente. Non tanto per la qualità del cibo, credo che il Made In China sia il posto migliore in cui mi sono seduto (di sicuro il più caro), quanto per il menu. Perché l’anatra è buona, ma preferisco il pollo. Forse è una questione psicologica, se invece che con Carl Barks fossi cresciuto con Doug Savage i miei sentimenti verso i pennuti sarebbero ripartiti diversamente. A parte che sarei molto molto più giovane.

A Pechino comunque non c’è solo l’anatra, neanche impegnandosi si corre il rischio di morire di fame, neanche se sei vegano, fruttariano, pisquano o adepto di qualche altra aberrazione alimentare. Per dire, volendo potresti nutrirti di cibo italiano ogni giorno senza sederti mai due volte nello stesso ristorante. Per dire, eh? Io per esempio non ci ho neanche mai provato, non mi piace la cucina cinese in Italia, figurati se provo quella italiana in Cina. Metti che mi portano la pasta col cappuccino e non sanno fare bene né la prima né il secondo.

Però ho mangiato in un giapponese straordinario, impraticabile qui a casa, come ho già spiegato più sopra, e in un coreano, novità assoluta per un provinciale come me. Il pollo fritto gangnam style è entrato di prepotenza fra i miei piatti preferiti.

You House, il giapponese spettacolare nell’hutong Wudaoying

Ho fatto anche una colazione vietnamita, ma sulle colazioni gli asiatici hanno tutti qualche problema. D’altronde se non usi burro e zucchero che colazione puoi preparare? Per fortuna, a volersene servire, la capitale è piena di bar in stile occidentale che ti preparano caffè e brioche. Il caffè espresso ormai si trova dappertutto ed è generalmente bevibile, tranne da Starbucks, ma loro sono malvagi e ci odiano, e lo fanno cattivo per dispetto. In un bar di Shanghai ne ho bevuto uno buono, ma così forte che non ho dormito tre giorni. E per prepararlo ci hanno messo un quarto d’ora, giuro, un quarto d’ora per una tazzina di espresso lavorandoci in due. Sembrava che stessero maneggiando una bomba. Il cliente cinese non ha fretta, si prende la tazzina, se la porta al tavolino e la sorseggia come faremmo noi con un bicchiere di vino rosso.

Io e le colazioni non ci siamo trovati in sintonia, devo ammetterlo. La mia testardaggine a non voler mangiare italiano mi ha tenuto lontano dalle sponde sicure; la tipica colazione pechinese a base di jianbing, una frittella arrotolata in un’altra frittella più unta, mi ha reso facile passare direttamente al pranzo senza allontanarmi troppo dai canoni. La cosa più simile alla nostra è la colazione del sud, di cui la mia ragazza è portabandiera, e che comprende gli youtiao: delle frittellone a bastoncino da inzuppare nel latte di soia. Molto vicino alla focaccia nel latte dei nostri nonni (vabbè, nonni..).

Sennò, se siete coraggiosi potete provare il douzhi, succo di fagioli fermentati. Chi l’ha provato dice che odora un po’ di uovo, quindi immagino sia come bere peti.

È passato un po’ di tempo dal mio viaggio in Cina, e buona parte di esso l’ho trascorsa a cercare nella mia città ristoranti che mi offrissero la stessa qualità trovata a Pechino. Che non vuol dire che a Pechino si mangia sempre e solo bene, fuori dal Tempio del Cielo ho mangiato in una bettola infame, e ho mangiato malissimo. L’unica ragione per cui ne conservo un ricordo positivo è che l’ho trovata da solo, sono entrato, ho ordinato e pagato. Non era difficile, parlavano inglese, e come gli inglesi facevano da mangiare: il peggior pasto in dieci giorni di permanenza.

mangiar male a Pechino si può eccome

Ma il resto è stato squisito, e nei tre giorni passati a Shanghai ho scoperto che la cucina del Sud è anche meglio. Ma di quella preferisco parlare in un altro capitolo, se mi venisse voglia di scriverlo.

(magari continua)