La cantina
Dal prato di Gaia il profilo di Porto è una delle cose più belle che vorresti avere davanti, tranne forse trentasette centimetri di simpatia. Un labirinto colorato che si arrampica per il pendio, edifici appoggiati uno sull’altro come i gradini di un anfiteatro e tu, sul palco, a sentirti protagonista e spettatore insieme. Ricorda un po’ il centro storico di Genova, ma da noi per godere di una prospettiva simile devi imbarcarti su un traghetto.
La facciata di un palazzo è coperta da secoli dal pannello giallo della Sandeman, la più famosa marca di vino della città, ma non disturba affatto. L’uomo intabarrato col bicchiere in mano è una figura onnipresente, ti ammicca dalle vetrine, dai barconi sul Douro, dal tetto degli edifici, dai tram, è come Belen Rodriguez, ma recita meglio.
Altro discorso vale per la gigantesca insegna rossa della Seat che copre la facciata di un palazzo proprio davanti alla sé. Quella è veramente un pugno nell’occhio, non puoi non vederla, rovina le foto, è brutta.
Non che la cosa mi impedisca di portarmi via altre duecento immagini con la scusa che la luce è migliore.

La luce è un’altra cosa di cui bisogna parlare se si racconta del Portogallo, perché è un altro dei suoi elementi essenziali. Se potessi scattare una foto che riassuma questo Paese sarebbe l’insegna di una pasteleria a metà di una salita ripidissima, con una chiesa tutta arabescata in cima, un tram che viene giù, una casa decorata ad azulejos e una Madonna che piange. E sarebbe una foto sovraesposta. Perché la luce in Portogallo, come racconta Alessandro nel suo diario parallelo, “è del 46% più luce della luce che c’è da altre parti”. Roba da farti suicidare l’esposimetro.

La digestione del pesce ci prende un paio d’ore, ma quando ci alziamo siamo di nuovo tonici e pronti all’ennesima sfida, specialmente gastronomica. L’unico impegno che abbiamo è vederci con Lucilla e Alessandro, che sono arrivati in città da qualche ora, si sono accampati da qualche parte e stanno facendo i turisti chissà dove, ma abbiamo in programma di cenare insieme, quindi per un po’ siamo ancora liberi.

Vila Nova De Gaia è la zona delle cantine, allineate una accanto all’altra alle nostre spalle vivono del commercio di bottiglie, ma hanno trovato un lucroso mercato organizzando visite guidate per i turisti. Per quest’attività così redditizia si servono di individui senza scrupoli, i bagarini. Sono inarrestabili, riconoscono il turista al volo e ci si avventano contro con quella finta cortesia che è quasi insolenza, gli si piantano davanti e gli decantano la magnificenza della cantina, l’accuratezza della spiegazione multilingua di cui potrà godere e soprattutto la quantità di assaggi gratuiti compresa nel prezzo d’ingresso. Nel mio caso è facile, ho la macchina fotografica perennemente appesa al collo e l’espressione estatica del bambino in gita, mi basta transitare dall’altra parte del marciapiede e i bagarini mi sciamano addosso come testimoni di geova su un campanello. Per fortuna ho Marzia a tenerli lontani, non ama essere importunata dai passanti e li scaccia roteando i suoi sguardi minacciosi.

Però il porto di Cristiano Ronaldo non era granché, vuoi rinunciare a un assaggio di qualcosa di meglio? Andiamo da Ramos Pinto, di cui non sappiamo nulla, ma che non si serve di buttadentro e la cosa ci fa già simpatia.

Il primo impatto è ottimo, appesi alle pareti ci sono manifesti pubblicitari liberty firmati Rossotti, Capiello e Metlicovitz, tre autori che mi scatenano un’emozione fortissima quando mi rendo conto di non averne mai sentito nominare neanche uno. Ma è perché sono un ignorante, si tratta di tre importantissimi illustratori italiani dei primi del Novecento, autori di quei manifesti che oggi pullulano le bancarelle vintage che fanno tanto elegante a metterli in salotto e che strapaghi per realizzare poi che sono tutte riproduzioni sgranate che se le vedessero Rossotti, Capiello e Metlicovitz ti sputerebbero in faccia.

Con sei euri ci facciamo la degustazione per principianti, cinque bicchieri dal bianco più giovane a un rosso di dieci anni, un breve manuale “assaggiatori di vino for dummies” con l’omino dalla faccia triangolare in copertina che punta il dito, le schedine per annotare le sensazioni provate, una matitina.

Agitiamo il bicchiere come veri sommeliers, notando come l’alcool resti appiccicato al vetro, ma non a quello della finestra, cazzo fai, pulisci che ci vedono; diamo una prima annusata veloce e poi una seconda più lunga e intensa, per riconoscere ogni elemento che impreziosisce il bouquet, financo lo strutto e i chiodi arrugginiti tirati via dalla botte dopo quarant’anni di stagionatura, assaggiamo a piccoli sorsi, passandoci il gustoso nettare su tutta la superficie della lingua, così da permettere alle papille gustative che stanno in fondo di guadagnarsi la paga anche loro, che non fanno mai un cazzo e non le posso neanche lasciare a casa perché sono raccomandate dall’alto.

Annotiamo scrupolosi quello che abbiamo colto dall’esame del primo bicchiere, ci dedichiamo con diligenza a studiare il secondo, proviamo il terzo, tracanniamo il quarto e facciamo ampi gesti di approvazione fischiando rumorosamente e dandoci grosse pacche sulle spalle dopo esserci spazzolati il quinto. È il migliore, non ci sono dubbi! Ha un retrogusto di noce così persistente che ndevi mandarlo via a parolacce, Non lo compriamo solo per non doverci portare dietro la bottiglia, ma prima di abbandonare la città torneremo senz’altro.

In realtà Marzia ha letto sulla Santa Guida Lonely Planet che esiste una piccola cantina indipendente chiamata Càlem, e il suo spirito ribelle la spingerebbe ancora una volta a sostenere le minoranze, anche quando sono proprietarie di un capannone grande come un campo da calcio. Non ci andiamo subito perché se beviamo ancora qualcosa di più forte dell’acqua distillata andiamo in coma etilico, ma le prometto che non mi butterò in nessun incauto acquisto prima di aver visitato i suoi amici “rivoluzionari”.

Tempo libero
L’ennesimo bagarino ci arpiona col suo blocchetto di vouchers: questo propone una gita in battello della durata di 50 minuti per la modica cifra di dieci euri, più una visita guidata alle cantine Offley’s. Accettiamo, forse l’aria del fiume ci rischiarerà le idee, e io già sbavo all’idea di fotografare il ponte da una nuova prospettiva.

La gita è tranquilla, la parte a monte fino al Ponte Maria Pia è piuttosto anonima, quella zona della città è troppo moderna, si vedono le spiagge che abbiamo notato arrivando in treno. L’unica cosa degna di rilievo sono due pescatori seduti coi piedi in acqua a leggersi i libri di Pedro Gambadilenho a turno, a voce alta. Quando ritengono di avere letto abbastanza buttano i libri nel Douro e si baciano voluttuosamente facendo un sacco di spruzzi. Chiedo a Marzia cosa ne pensi di quel bizzarro teatrino, ma dice che non ha visto niente e che mi sono inventato tutto e che dovrei farmi visitare da un medico appena torniamo in Italia. Certe volte quella ragazza mi preoccupa, è talmente apprensiva..

Il viaggio in battello prosegue verso la foce, fino al borgo di Afurada, un villaggio di pescatori che abbiamo in mente di visitare il giorno dopo. C’è una fitta nebbia che ci impedisce di vedere l’oceano, ma è anche meglio, possiamo immaginare che sia proprio lì a due passi, come direbbe Cristo.

Dopo la gita non andiamo a vedere le cantine perché sono già chiuse, ma anche perché non ce la facciamo più neanche a tornare a piedi fino all’ostello. Ci sediamo sul prato e aspettiamo che i nostri amici ci trovino.

“Allora, avete alloggiato nel nostro ostello superfigo?”, chiedo a Lucilla.
“No”, mi risponde, “Non c’era posto, così abbiamo cercato lì vicino.”
“E dove avete trovato?”, domanda Marzia.
“Stiamo nel grosso palazzo abbandonato su Avenida dos Aliados”, rivela Alessandro, mortificato.
“Però costa poco!”, cerca di giustificare Lucilla. “Abbiamo una camera molto spaziosa!”
“Si, la dividiamo con solo quattro barboni!”, interviene Alessandro.
“Ma nel nostro c’è la colazione compresa!”, dico.
“Nel nostro sono compresi gli scarafaggi!”, replica.
“Nel nostro ci sono i film!”, insisto.
“Nel nostro gli ubriaconi che si accoltellano!”, insiste. “E c’è anche la connessione remota!”
“Davvero?”
“Si, nel senso che uno dei barboni che dormono con noi una volta si collegò a internet”.

Lasciamo che i nostri amici vadano a prenotare al ristorante buonissimo segnalato da un’amica di Marzia che va in Portogallo tutti i giorni, un posto dove cucinano il polpo alla brace come lo mangiavamo in Puglia, dove ti servono pezzi di tentacolo lunghi un metro e passa. Noi strisciamo sul primo autobus che ci riporti in centro per una doccia ricostituente.

Il Rivoli Cinema Hostel è sempre lì, con le sue serrature elettroniche a custodire ogni sorta di meraviglia. Appena varcata la soglia c’è una bacheca di prodotti locali, fra cui due bottiglie di porto, alcuni gadgets di Star Wars che mi fanno venir voglia di inoltrare domanda di assunzione e..

“Aaahhh!!”, strilla Marzia come se avesse visto il più grosso scarafaggio della sua vita.
“Cosa! Dove!”, faccio io.
“Guardaaaa!”, e indica la bacheca, solo che non ci sono scarafaggi, ma delle assurde scarpette di plastica. Ho capito tutto. È incredibile come uno strillo di gioia femminile somigli così tanto a un urlo di terrore, dopo tutto questo tempo non ho ancora imparato a riconoscerli, come l’impercettibile differenza di tono che distingue un “non ho niente (sono assolutamente serena e in pace col mondo)” da un “non ho niente (ti odio con tutte le mie forze e sto seriamente pensando di ucciderti nel sonno)”.

Insomma che ha visto delle scarpe che pare siano l’ultima novità in fatto di abbigliamento alternativo, quelle robe di moda fra chi non vuole essere di moda, che in Italia costano come le ciabatte orrende di Prada e invece qui te le porti via con quindici euri. Evidentemente i portoghesi sono meno stupidi degli italiani.

“Devo scoprire dove le vendono! Devo averle a tutti i costi! Devono essere mieee!”

La trascino via di peso, e per fortuna che alla reception c’è un tizio che non parla né inglese né spagnolo, perché se avessimo avuto una minima speranza di comunicare avrei potuto scordarmi la cena.
Torniamo invece a Gaia e occupiamo il nostro tavolo al ristorante Casa Adão, dove lavora la cuoca assassina.

Ancora È costei una grossa signora con la cuffia e la voce imponente, che lavora segregata nel suo spazio tra i fornelli dalla mattina alle sette fino a notte inoltrata, tanto che capita spesso che debba fermarsi a dormire lì. Per questa ragione si è organizzata tenendo una coperta e un cuscino dentro il forno, che non usa. Tutti i piatti della Casa Adão sono bolliti.
I ritmi di lavoro massacranti hanno segnato profondamente il carattere della signora, che col passare degli anni ha raggiunto un tale livello di misantropia da minacciare col coltellaccio chiunque le rivolga la parola. È evidente che nella cucina di un ristorante sia inevitabile rivolgersi alla cuoca, e questo genera dei conflitti che spesso sfociano in gesti violenti, come quello cui siamo testimoni quella sera, quando la cameriera riporta in cucina un piatto di riso lasciato intatto e la cuoca lo prende come uno sgarbo personale.

Il dialogo esatto fra le due non lo posso riportare per ovvie difficoltà linguistiche, ma cercherò di essere il più fedele possibile al concetto, e mi scuso fin d’ora per le libertà narrative che mi concederò.

CAMERIERA – Il tavolo quindici non ha neanche toccato il riso.
CUOCASSASSINA – E io cosa ci devo fare?
CAMERIERA – E io che ne so? Mangiatelo!
CUOCASSASSINA – Io me lo devo mangiare? Io? Loro se lo devono mangiare! Quei bastardi! Lo sanno quanta cura ci ho messo a prepararlo?
CAMERIERA – Beh, magari non avevano più fame.. Hanno preso parecchi antipasti..
CUOCASSASSINA – Lo sai dove glieli infilo gli antipasti? Fammeli vedere, voglio vederli in faccia quei figli di puttana!
CAMERIERA – Sono.. sono andati via..
CUOCASSASSINA – Sono andati viaa? Li hai mandati viaaah?!?
CAMERIERA – Hanno pagato e se ne sono andati, cosa dovevo fare, sequestrarli?
CUOCASSASSINA – Aargh! Li ammazzo! Giuro che li ammazzo! Bastardi! Mi fanno fare una vita da schiava e poi non mangiano! Figli di puttana! Gliela faccio vedere io gliela faccio!

Ciò che segue non è molto chiaro, gli altri camerieri ad un certo punto si sono frapposti tra il nostro tavolo e la finestrella della cucina, e non abbiamo più potuto vedere com’è andata a finire, ma pare che la cuoca abbia brandito un’ascia e abbia cercato di correre in strada per inseguire i clienti; la cameriera ha cercato di impedirglielo, che c’era da preparare un bacalhao per il tavolo otto che stavano aspettando già da un po’, ma la cuoca pazza di rabbia ha tentato di divincolarsi e si è ferita.

Tutto ciò ha ritardato di parecchio la nostra ordinazione, ma abbiamo ingannato l’attesa bevendo vinho verde e pregando per la nostra incolumità.

Il polpo arriva, effettivamente è tagliato in pezzi così grandi che fra i tentacoli si trovano ancora dei frammenti di chiglia, ma non è gustoso come quello di Mola Di Bari. Non credo dipenda dalla cuoca, ma anche se fosse mi guardo bene dal protestare, e così i miei compagni. Mangiamo tutto in silenzio, non ci lamentiamo nemmeno quando nel piatto troviamo un dito mozzato ancora sanguinante. Ci limitiamo a ripulirlo col tovagliolo e a lasciarlo nel piattino delle mance al momento di alzarci.

Il conto ormai è un’abitudine, quando va male come stasera sono quindici a testa, ma abbiamo mangiato come struzzi e Alessandro ha bevuto tanto vino che quando se ne va canta La Montanara Uè.

Segunda feira de Lisboa

Atterriamo dieci minuti prima delle nove, ora locale, e già ci siamo rifatti gli occhi avvicinandoci alla città da est, lungo la via tortuosa del Tago, u Tejo come lo chiamano qui, fino a quando apre le sue sponde come braccia verso l’oceano. Lisbona è illuminata da migliaia di luci e riempie tutto il promontorio; una linea bianca spezzata si allontana verso l’altra sponda, è il ponte Vasco Da Gama.

Appena ritirata la valigia andiamo a cercare un mezzo di trasporto. Il marciapiede dove arrivano i taxi è affollato come alla biglietteria di un concerto, chiediamo come mai e ci sentiamo rispondere che il mezzo è particolarmente economico. Intanto che siamo lì che decidiamo dove andare arriva l’autobus e saliamo su quello insieme a pochi altri, mentre la maggior parte resta ad aspettare la navetta, che costa il doppio e ci mette lo stesso tempo.

Mi guardo in giro un po’ sperso, al buio le case che sfilano dai finestrini sembrano uguali a quelle di qualunque periferia italiana, con la sola differenza che capisco pochissimo di quel che dicono i miei vicini di posto.

Marzia mi indica un palazzo sulla sinistra e restiamo tutti e due ad ammirarlo, ma non è un raro gioiello di architettura moresca, è un casermone abbandonato che abbiamo visto su internet qualche tempo fa. La sua particolarità è di essere stato ricoperto dal murale più bello che possa ricordare, con un tizio grande come tutta la facciata che infila un braccio in una finestra e agguanta un’altra persona sulla parete di là. Quando torniamo a Lisbona veniamo a fotografarlo secco!

Scendiamo in Praça Dom Luis, a Rossio, e vengo travolto da un deja vu che mi fa tremare le ginocchia. Mi sento come se fossi già stato lì, riconosco ogni angolo, ogni vetrina, i ristoranti, la colonna al centro della piazza, mi oriento come se fossi lì da un mese più che da un minuto. Mi volto verso Marzia che ho le lacrime agli occhi per l’emozione di scoprirmi un veggente, ma lei mi guarda come se fossi sempre lo stesso cretino con cui vive da cinque anni.

“La conosci perché l’hai cercata su google maps, idiota! Dimmi dove dobbiamo andare e falla finita.”

Ah già, la tecnologia infida che mi ha fatto imparare a memoria la strada per l’albergo ma mi ha fatto scordare di mettere l’olio nella macchina.

Arriviamo alla reception del Poet’s Hostel con la sicurezza di un testimone di geova verso la casa dell’operaio che ha appena fatto la notte, scopriamo che si trova proprio dietro il bar di Pessoa, quello con la statua in bronzo seduta al tavolino a farsi fotografare da mezza Italia, tre quarti di Giappone e tutta la Francia, e scopriamo che la nostra camera è in un altro palazzo un po’ più in là, trecento metri sopra la fermata dell’autobus.

Per raggiungerlo attraversiamo quella parte di quartiere che sta fra la Baixa e il Barrio Alto, e ad ogni angolo svoltato faccio un verso stupito per la bellezza di quel che sto vedendo. Lisbona sembra disegnata, coi suoi pavimenti di porfido e i muri a piastrelle, le case basse, le piazzette a sorpresa, ci sono scorci da cartolina ad ogni angolo. Ci sono anche un casino di italiani, e la cosa mi infastidisce un po’, tanto che cerco di spacciarmi per straniero fra gli stranieri parlando genovese.

La camera è al terzo piano di una palazzina che mi ricorda il b&b di Londra dove ho lavorato, scale verticali in legno rivestito di moquette, strettissime e rumorosissime, ogni piano diverso dai precedenti. Siamo praticamente nel sottotetto, e la temperatura è quella di un solaio assolato, ma la stanza è caruccia, un letto sul pavimento, muri arancioni, un abat-jour rosso, quando spegni la luce sembra un boudoir, chissà che sogni che farò.

Scendiamo in piazza e ci vediamo con gli altri due sotto i pilastri del teatro Carlo Felice Lisbonese, gironzoliamo un po’ e andiamo a mangiare noi, bere loro, in fondo alla via del nostro albergo, orata e bacalau alla griglia. Da stramazzo, molto turistico, qualità discreta, un gran casino, il cameriere mi ha detto Cesare Prandelli, non ci torno più.

Andiamo a dormire nel lettino basso con le molle a vista e un caldo allucinante, ma appena mi addormento non ci sto neanche male. Sarà che sono stanco, ma tranne un paio di volte che mi sono sentito cadere sul pavimento sono stato da dio. Alle tre sono rientrati i nostri vicini di piano, e hanno fatto un gran casino, ma non me ne sono accorto.

17/08/2010 A cidade do Porto

“Allora ci alziamo alle sette, andiamo a far colazione e prendiamo la metro fino a Oriente, che è una bella stazione, saliamo sull’intercity delle otto, massimo nove e per le undici siamo a Porto, ochei? Ochei.”

Ci alziamo alle otto e ci vuol tutta, facciamo la cacca e usciamo. Colazione in un baretto in Praça Dietro Quella Do Teatro, dove ci rendiamo conto che non tutti i camerieri parlano la nostra lingua, questo non mi chiama Cesareprandelli, ma fatichiamo un po’ a spiegargli che Marzia non può mangiare niente col burro. Mangio il dolcetto nazionale portoghese, il pastel de nata, un bicchiere di sfoglia pieno di crema, piuttosto buono, ma Lucilla che me l’ha consigliato mi ha detto che il suo aveva la crema calda, così come lo mangio io è un po’ pesante. L’espresso è dignitoso, solo in Francia bevi quelle brode infami.

Per fare prima ci dirigiamo alla stazione di Santa Apolonia, una costruzione piuttosto semplice, pitturata di azzurro, poco affollata, dà un’impressione di spazio. Il bigliettaio ci dice di correre, che l’intercity sta per partire e quello dopo c’è molto più tardi. Lo prendiamo dopo una prova podistica con doppio zaino su pavimento scivoloso e andiamo a cercare il nostro posto. Anche qui un mucchio di italiani, principalmente romani. Li vediamo seduti qua e là per i vagoni, poi di nuovo sciamare verso i loro posti, che quelli dove si erano seduti appartenevano a qualcun altro.

Marzia non dice niente, osserva lo stato del treno col fervore mistico di chi vede la madonna. Quando dietro una porta troviamo la carrozza bar, col bancone e i tavolini, si fa venire le stimmate.

Il viaggio è tranquillo, ad un certo punto sale una grossa signora con un cesto pieno di pasticcini e prova a venderli. Griderebbe anche, ma ha il fiatone, ci vuol tutta che non stramazzi in corridoio.

Arriviamo a Porto e mi ricordo di nuovo tutta la strada fino all’albergo, dove si prende la metropolitana, dove si scende, dove si svolta usciti dalla stazione. L’unica cosa che non potevo sapere è che una volta in cima alle scale ti prende un odore di mare che a Lisbona manca del tutto.

Passiamo davanti al mercato, e vuoi non entrare? Basta un’occhiata per decidere che sarà la meta del nostro pranzo, ma prima l’ostello, che tanto è lì dietro.

Appena superato il portone ci accoglie una parata di locandine di Star Wars, e io decido che voglio venire a vivere lì. E dai, l’ostello di Lisbona era sacrificato, ma non te ne rendevi conto se non avevi niente con cui confrontarlo, appena ci provi diventa un buco merdoso.

Questo, oltre alle stanze a tema cinematografico molto accoglienti coi materassi che non si sentono le molle e col soffitto più alto di un metro e una temperatura che non ti fa sciogliere la maglietta addosso e senza quella cazzo di lampadina rossa e coi pavimenti che non scricchiolano al minimo respiro e i corridoi più larghi di quaranta centimetri ha pure una terrazza dove andare ad abbordare le olandesi completa di piscina, no dico, piscina, ha la playstation, ha una chitarra, ha un casino di libri, ha una spada laser buttata lì a disposizione del primo jedi che passa, e come se non bastasse ti rifanno la camera ogni giorno.

La nostra stanza è ispirata alla Sposa Cadavere di Tim Burton e si affaccia sul teatro Rivoli di marcata ispirazione fascista. Sono curioso di scoprire quale piega assurda prenderanno i miei sogni in un posto così, alla prima cena di bacalhao.

Se non fosse che abbiamo già pagato le restanti notti a Lisbona andrei a cercare un altro posto.

Ci sistemiamo e via secchi a pranzo al mercato do Bolhao.

C’è un tavolino libero dietro i banchi del pesce, gli altri sono tutti occupati da turisti e gente del luogo. Li riconosci, sono quelli che al posto della macchina fotografica hanno in mano una birra Super Bock.

Mentre aspettiamo di ordinare ci mettiamo a chiacchierare con un tizio pelato che sembra essere autoctono. Per farsi capire mescola parole portoghesi ad altre spagnole, Marzia gli risponde in spagnolo con qualche vocabolo portoghese pronunciato comunque in spagnolo, io gli parlo in italiano aggiungendo ‘inho’ in fondo ad ogni suono.

Parliamo a lungo, ma sinceramente non so di cosa: durante la giornata Marzia mi dice cose che ha saputo dal tizio, e la guardo come se mi recitasse a memoria l’opera omnia di Pessoa, comprese le pubblicazioni scritte con lo pseudonimo di Pietro Gambadilegno, che non conosce nessuno.

La cameriera invece è portoghese senza influenze estere, e quando ci presenta la lista dei piatti non capiamo un belino. Alla fine ci porta quello che ha ordinato il nostro vicino, sardine grigliate con un contorno abbondante di patate bollite, lattuga e pomodori.

Al tavolo accanto si siede una comitiva di vecchietti brasiliani, che fanno come il vicino portoghese e attaccano bottone. Nel frattempo il vicino se n’è andato e il suo posto l’hanno preso due ragazze spagnole con le quali attacchiamo bottone noi. Aggiungiamo la coppia francese seduta più in là che ci guarda e ridacchia ed è chiaro come col semplice aiuto di una brocca di vinho verde siamo riusciti a trasformare una trattoria all’aperto in un club internazionale di ittiofili.

I brasiliani continuano a chiamare la cameriera Maria, finché lei non rivela di chiamarsi Filippa. A quel punto siamo noi che la chiamiamo Maria, per pietà.

Terminato il pranzo ci scambiamo l’indirizzo email coi brasiliani e ce ne andiamo.

Il Douro

La visita della città comincia dal basso, per prima cosa andiamo a vedere la Ribeira, il quartiere che sta sul fiume, ma soprattutto la meraviglia del ponte di ferro Dom Luis I, costruito dalla zia di Gustave Eiffel coi pezzi avanzati della torre parigina.

Le strade del centro sono ripidissime, una casa su tre è in rovina, verrebbe da pensare che nelle giornate di pioggia gli abitanti siano soliti uscire dalla porta e scivolare giù fino al Douro.

Ed eccolo il fiume, lo vediamo appena oltre la distesa di ombrelloni di un ristorante. Dietro di lui Vila Nova De Gaia, la città gemella che sorge sull’altra sponda, solo Gaia per quelli di qui, e proprio nel mezzo il ponte, il Ferraccio, come lo chiama un portoghese tipico che mi sono appena inventato, ma che potrebbe benissimo essere un alter ego di Pessoa sconosciuto ai più, Pedro Gambadelenho.

È imponente, il ponte (anche Pedro Gambadelenho, ma non sto parlando di lui ora), due livelli a diverse altezze tenuti insieme da un arco gigantesco, su quello basso passano le macchine e ci si buttano i ragazzini per farsi fotografare dai turisti, quello alto è per i treni e ci si buttano gli adulti, ma a loro le foto non le fanno, tuttalpiù l’autopsia.

Non puoi far finta che non ci sia il ponte quando sei sul lungofiume, attira lo sguardo, è come un vecchio parente che sta lì affacciato a guardare le barche che gli passano sotto.

Non è l’unico ponte, in città ce ne sono altri quattro o cinque, dalla stazione di Campanhà alla foce, comunque ti volti ne vedi uno, ma non sono tutti belli come questo.

E il fiume, il fiume è vivo, non è come l’Arno, o il Tevere, che se ne stanno lì rinchiusi nei loro argini a farsi adocchiare dai passanti, questo è una piazza, c’è gente intorno, c’è gente in mezzo, ci sono i barconi che fanno su e giù a portare turisti a vedere i ponti per 10 euri, c’è il motoscafo che per una cifra più alta ti regala piroette, testacoda, un bagno fuori programma e la possibilità di vomitarti il pranzo sulle scarpe, c’è il solito coglione sulla moto d’acqua che impenna sulle scie dei barconi e va avanti e indietro e bzzzz e bzzzz e bzzzzz e ti verrebbe voglia di affittare il motoscafo e speronarlo una volta per tutte, ci sono i vecchi battelli che portavano le botti, tutti ricostruiti belli uguali ormeggiati davanti a Gaia e a quelli che corrono o vanno in bici o prendono il sole sui prati di fronte alle cantine del porto.

Raggiungiamo il ponte, ma non lo attraversiamo subito, prima ci arrampichiamo su per un vicoletto tutto a scale, ripidissimo, per passare di là dal lato superiore e goderci il panorama. Ci sono dei gatti, Marzia perde ogni dignità inseguendoli tutti nella speranza di poterne toccare almeno uno; fa dei versi che la gente si volta e ci guarda e scuote la testa, micimicimici mimiminininipipipipi, io indosso dei baffi finti, non si sa mai.

Il ponte dall’alto non è affascinante come il suo piano inferiore, e ci tira anche un vento che d’inverno ti ci voglio vedere, ma la vista è magnifica, Porto dall’alto è un capolavoro di tetti e pareti colorate, con questa cornice d’acqua a sottolinearne ogni screpolatura, ogni vicolo.

Scendiamo verso Gaia e incrociamo un tizio con un grosso grifone sulla maglietta, e ti pare che non gli dico niente? Ci scambiamo le solite formalità da turisti all’estero, da quanto tempo siete qui, vi piace la città, abbiamo comprato nessuno nel frattempo, e ci salutiamo.

Il lungofiume di Vila Nova De Gaia è bello soleggiato, c’è meno casino che di fronte, anche perché i ristoranti sono tutti sulla strada alle nostre spalle, qui c’è un prato a separare la passeggiata dalle barche; la vista di Porto è da cartolina, sembra una città olandese del ‘500, faccio un centinaio di foto in venti minuti, ne avrò da scremare parecchie al mio ritorno a casa.

Non ci spingiamo tanto in là, ripercorriamo il ponte passando di sotto e prendiamo la via dell’ostello col passo della salita.

In una stradina appena fuori la Ribeira ci imbattiamo nell’Adega São Nicolau, un ristorante suggerito dalla Guida Giorgia, la sorella di Marzia che va ad abbuffarsi in giro per il mondo e non si trova bene in nessun posto. Se è piaciuto a lei vuol dire che merita, così torniamo in camera a cambiarci, che quando va giù il sole il termometro scende parecchio, e usciamo con lo stomaco a farci da navigatore.

C’è una strana folla sulle scale accanto al ristorante, e non tardiamo a scoprire perché: sono tutti in coda per un tavolo! Abbiamo un mancamento, forse è il caso di scegliere un’altra meta per la cena. Una coppia italiana che sta cenando fuori ci suggerisce di aspettare, che merita, e allora vabbè, aspettiamo.

Una mezz’oretta più tardi ci sediamo, facciamo sparire le polpette di baccalà che arrivano per antipasto e ci buttiamo sulla portata principale come ciclisti sull’ultimo chilometro: cernia grigliata e polpo in una maniera che non ricordo, ma che poi è fritto col riso. Finisco il mio e quello della mia compagna, che ha uno stomaco da principiante, tanto con le salite che ci sono in città puoi ingozzarti quanto vuoi e andare a dormire sempre bello leggero.

E siccome le scale non sono mai abbastanza vuoi mica negarti il piacere di arrampicarti fino sul tetto del palazzo per visitare la fantomatica terrazza, sede di tutte le feste più fighe della città, dove c’è addirittura la piscina e si vedono le torri di Isengard e Mordor, vuoi mica negartelo?

Saliamo ancora i due piani che restano e telalì la terrazza, piena di ragazzotti che confabulano in molteplici lingue, ma che quando limonano ne usano solo due per volta, nella più classica tradizione degli ostelli, compreso quello di Hostel, ma senza che ti ammazzino dopo.

Io per la verità un po’ fifa di essere ammazzato nel cuore della notte ce l’ho, che un posto così bello senza controindicazioni non mi sembra vero. O ci ammazzano tutti e due o ci svegliamo alle quattro in mezzo a un rave in camera e non c’è più verso di chiudere occhio.