L’ultima puntata del diario americano, che mi sembra che ce lo siamo menato abbastanza con questo viaggio, e le foto, e i giudizi che uno può essere d’accordo oppure no, ma tanto finché non ci vai te ne devi stare di quel che leggi, ma è anche vero che oramai ci vanno tutti a New York, tranne te haha, sei uno sfigato che non è neanche stato una volta a New York haha, che ridere.

Io però a New York ho visto cose che pochi possono vantarsi di avere visto. Ho visto Irene.

Tutto comincia il giorno prima, quando trascino Marzia a vedere Coney Island con la scusa di andare a fare i turisti in un vecchio luna park un po’ desolato. In realtà voglio andarci per poterle cantare una canzone di Tom Waits, perché va bene che non mi ricordo da quanto stiamo insieme e il nostro anniversario e a dirla tutta ho anche delle grosse difficoltà sul suo compleanno, però a parte questi dettagli insignificanti è il mio angolo di universo preferito e l’unico dove mi sento davvero a casa, e ogni tanto mi fa piacere celebrarlo.

È una giornata bellissima, c’è il sole e la metropolitana è piena di newyorkesi in ciabatte che vanno in spiaggia.

La passeggiata di Coney Island è ampia, lunghissima e tutta di legno, e il luna park sta proprio fra questa e i brutti palazzi alle spalle, ma non ci vuole un grande sforzo per ridurre il proprio campo visivo alla ruota panoramica e dimenticarsi della città lì dietro. È un bel posto, quando ci riesci. C’è il mare pulito, la spiaggia di sabbia, i moli, e poi ci sono questi banchetti che vendono hamburger e le panchine e i gazebo e proprio non capisci perché ci siano questi individui con la telecamera che invece inquadrano l’orizzonte.

È per Irene, mi dice Marzia, sta arrivando.
Ah già, Irene. Le televisioni non parlano che di questo uragano che dovrebbe abbattersi su Manhattan e raderla al suolo, annegarla, farla a pezzi, come in un qualunque film catastrofico hollywoodiano. Il sindaco ha già predisposto l’evacuazione delle zone a rischio, la chiusura della metropolitana per la prima volta nella storia della città e la sospensione del servizio di autobus. Non si parla di coprifuoco, ma è come se, che se non ci sono i mezzi pubblici e i negozi sono tutti sprangati e piove pure cosa esci a fare?

Per il momento però è una mattina bellissima e ce la godiamo tutta. Io faccio anche un giro sul Cyclone, le montagne russe più antiche della città, tutte di legno, che quando ci sei sopra e il carrellino ti sbatacchia a destra e a sinistra te lo ricordi fin troppo bene, e anche quei dieci metri scarsi di altezza ti riempiono di terrore.

Ce ne veniamo via felici come due bambini che sono stati alle giostre e ridiamo di quei gonzi che stanno lì ad aspettare la fine del mondo.

Nel frattempo, sul filo dell’orizzonte alle nostre spalle, un puntino nero si avvicina minaccioso come il fotocane.

Il resto della giornata fila via tranquillo facendo shopping, che poi è la maniera migliore di vivere New York, dove le cose costano un terzo meno che da noi e i negozi sono un terzo più interessanti.

Una delle cose che li rendono interessanti, quel giorno, è il fatto che tutte le vetrine sono state “rinforzate” con del nastro adesivo appiccicato a x, utilissimo, pare, in caso di uragani. Si racconta di palazzi rasi al suolo completamente tranne una vetrina che il lungimirante commesso aveva riempito di scotch. La sensazione, passando per la via, è piuttosto quella di trovarsi al Raduno Internazionale Degli Informatori di Fox Mulder.

Alcuni negozi sono già chiusi, altri hanno blindato le vetrine con pannelli di legno o sono impegnati nell’opera, e ovunque ci sono tizi col martello che battono, sotto una pioggia sottile che quand’è arrivata, prima non c’era, e guarda quel cane com’è diventato più grosso.

Torniamo a casa incolumi, e ci prepariamo al peggio, come tutti; nell’eventualità che taglino la corrente e l’acqua scendiamo al supermercato a comprare un paio di bottiglie, ma gli scaffali sono vuoti, la fobia dell’isolamento ha già attecchito e i newyorkesi si sono lanciati all’assalto, raccogliendo scorte di viveri come se dovessero restare chiusi in casa fino al Giorno Del Giudizio.

Beh, è anche vero che per la televisione è previsto per l’indomani, ma semmai sarebbe una ragione in più per non caricarsi il cestino di viveri. E che viveri, poi! A quanto pare nessuno ha spiegato agli abitanti di New York come prepararsi a un’emergenza, in coda alle casse vedi gente piena di bottiglie d’acqua, e va anche bene, ma le casse di coca cola e patatine le giustifico solo se intendi aspettare l’apocalisse sparandoti l’intera serie di Sentieri, e le scatolette di conserve non se le prende nessuno? E le patate? Non quelle nei sacchetti, dico proprio le patate intere, ci passano davanti senza guardarle e si avventano sui pacchi da trentasei di merendine. Poi dicono che sono obesi.

Il giorno dopo ci svegliamo sul set di Io Sono Leggenda.

Piove, ma l’uragano che doveva abbattersi sulla città è stato declassato a tempesta tropicale. I telegiornali non parlano d’altro, ovunque ci sono inviati speciali coi piedi a mollo e l’impermeabile sbattuto dal vento (che è bello forte, seppure non ommioddiomoriremotutti), si aggiorna costantemente la conta dei morti e dei dispersi, che è ancora ferma a zero, ma non temete, cambierà in fretta.

Usciamo, che a Ronco siamo abituati a climi peggiori. La città è una meraviglia, la pioggia non disturba granché e le strade sono deserte. Cioè, passa qualche macchina, più che altro taxi, c’è qualche curioso sul marciapiede, ma è la vita che ti aspetti di incrociare in un paesino di provincia la domenica mattina, non certo sulla Quinta Strada.
Ci spingiamo fino a Times Square incontrando pochi curiosi, facciamo un sacco di foto alle vetrine sbarrate, ai sacchi di sabbia davanti ai portoni, alle avenue deserte.
Anche il punto più affollato della città è mezzo vuoto, i turisti intontiti stanno a fissare le insegne dei teatri accese che si riflettono sull’asfalto bagnato e si domandano se era il caso di mettere una città in quarantena. “E adesso come ce li spendiamo i nostri soldi?” sembrano dire.

I miei compagni di avventura si sono rotti le balle di ciabattare nell’acqua e chiamano un taxi, ma io ho ancora foto da fare e a casa mi annoio, ci dividiamo dandoci appuntamento a casa più tardi.

Il telefono mi squilla in continuazione, sono tutti i parenti in Italia che stanno guardando il telegiornale, e la notizia di apertura è che oggi New York verrà distrutta, annegata, spazzata via e i suoi resti bruciati e poi saccheggiati e i pochi superstiti stuprati e uccisi. E questo su la7, figurati al tg1. Rispondo solo ai primi messaggi, poi decido che mi si è scaricato il telefono, o che sono morto annegato bruciato e stuprato, per quel che vale.

Mi spingo a piedi fino a Wall street incontrando cinque persone in tutto, il toro dorato sulla Broadway è tutto per me, ben disposto a farsi fotografare, Zuccotti Park è ancora senza accampati, gli edifici del potere sono deserti. Finisco a South Street Seaport, una zona molto carina e molto turistica sotto il ponte di Brooklyn, e anche lì sono da solo. Risalgo lentamente passando fra l’East River e ancora Broadway, trovo un negozio di dvd gestito da una banda di muddafacca nigganigganigga che per dieci dollari ti lascia uscire con mezzo negozio e non ti punta la pistola in faccia tenendola di sbieco come i gangsta.
A Midtown ci sono due ragazzi che si passano una palla da rugby in mezzo a un incrocio, sotto gli occhi divertiti di un portiere d’albergo, che dopo un po’ si aggrega. Siamo dietro Union Square, tanto per rendere l’idea.

Resterei in giro ancora un po’, ma il messaggio successivo è di Marzia, sono a casa e mi stanno aspettando. Hanno comprato Munchkin Zombies.
Cinque minuti e sono là.

E questo è praticamente tutto, anche se restiamo in città altri due giorni le cose degne di nota sono poche, torna il sole, andiamo ancora un po’ in giro, facciamo altre foto e ci compriamo dei vestiti.
Dall’ufficio del nostro ospite si gode di un’ottima vista su Manhattan, ma per accorgertene devi salire sulla scrivania, e il Chrysler Building non si può visitare oltre l’atrio, ma ne vale comunque la pena. Da Lush vendono un prodotto che si chiama Caca Marron, chissà se si trova anche in Italia.

Prima di andare via, l’ultimo giorno, siamo seduti su una panchina di Washington Square a goderci il sole. Irene se n’è andata senza lasciare traccia, a parte le stazioni della metro, che adesso sono belle pulite. C’è un quartetto jazz che suona, sono molto bravi, la gente si ferma ad ascoltare. Seduto poco più in là c’è anche Miles Davis, sembra divertirsi.

Aveva ragione il dottore. Lui me l’aveva detto di installare wordpress e di farmi un blog fighissimo che ti vien voglia di passarci le giornate solo per l’aspetto anche se poi non c’è scritto niente, perché è quello il segreto del successo, non il contenuto. A chi verrebbe in mente di andare a parlare con la bruttina laureata seduta sul divano a leggere, quando di là c’è una modella brasiliana ubriaca che fa pole-dancing? E io invece niente, il blog ha ancora quell’aspetto provvisorio di appartamento senza lampadari né prese della corrente, scatoloni dappertutto e nessuna voglia di svuotarli, giusto il tavolo libero a metà per farci stare un cartone della pizza quando mi viene fame, e tanto letto a disposizione da potermi sdraiare e buttarmi una copertina addosso.
Ma non è che non ci abbia provato, davvero, mi sono messo lì un sacco di volte ad armeggiare col programma che mi ha fatto installare, easyqualcosa, ma è easy solo ad installarlo, poi lo lanci e compaiono due semafori, un sacco di spiegazioni complicate e mi viene voglia di andare a vedere cosa fa la brasiliana nella stanza accanto.

Però devo mettermi sul serio a fare qualcosa con queste pagine. Fra poco il mio romanzo verrà pubblicato e orde di lettori si precipiteranno qui affamati di notizie, devo dar loro informazioni, una grafica accattivante, al limite un’anteprima succosa di quello che sarà il mio nuovo bestseller, sennò finisce come con Katia, che non mi ha aggiunto ai link della sua pagina perché credeva che fossi morto, e per il dolore della perdita si è comprata una reflex.

Adesso oltre al senso di colpa verso i lettori privati di buona letteratura si aggiungerà quello verso gli amanti della buona fotografia. Speriamo almeno che ne pubblichi poche..

Certo che se mi mettessi a lavorare su un progetto concreto potrei compensare alla carenza visiva con qualche riga di qualità e la consapevolezza che presto o tardi.. Però non ne ho voglia, le due tre cose su cui sto lavorando non mi convincono ad impegnarmi più di una decina di righe la mattina se mi avanza il tempo fra un tumblr e una partita a elements.

In realtà mi piacerebbe scrivere una cosa con poca punteggiatura, di quelle difficili da leggere, in barba ai lettori faciloni e anche a quelli più scafati, puntare direttamente all’eccellenza, che nel mio caso rappresentano quelli coi neuroni fritti dalle droghe, e dare alla luce un tomo massiccio fatto esclusivamente di pensieri liberi, slegati, con un minimo di filo conduttore che serva solo nel caso uno il libro se lo fotocopi fronte e retro ed esca dalla copisteria senza aver rilegato la sua bella risma stampata fitta fitta e sia una giornata di vento e venga scontrato da una bambina in bicicletta che corre per il marciapiede perché la mamma non vuole che vada in strada, che ci sono le macchine, e i fogli volino dappertutto e lui riesca a raccoglierne solo una parte e non sappia più in che ordine andavano. Ecco, io vorrei scrivere una cosa che in quel caso lì uno possa comunque arrivare in fondo senza perdere il filo del racconto. E poi se non lo legge nessuno pazienza, vorrà dire che non mi sentirò commentare che non fa ridere, che non è scritto bene, che non scorre o che scorre troppo. Mi piacerebbe, è tanto che ci penso e non comincio mai, per pigrizia, si, ma anche perché se devo dargli un minimo di storia devo anche sapere che storia dargli, non posso raccontare una storia qualsiasi, ce ne vuole una che si adatti a un libro così, e bisogna pianificarla a fondo, è una roba difficilissima, da non dormirci quasi.
Oppure si va a muzzo, che è l’altro metodo infallibile in casi come questi, si comincia senza sapere dove si andrà a parare e si prende a ditate la tastiera correggendo giusto quando vengono fuori delle cose tipo egsdfgdv, che non puoi spacciarlo per un personaggio norvegese, è troppo sfacciato anche per una storia così, e soprattutto devi giustificarne l’esistenza nella storia, anche in una storia con la trama esile e scomponibile. Ne sarei capace di scrivere una storia senza storia, fogli e fogli di ragionamenti aperti e subordinate infinite e liste di cose che potrebbe anche non finire mai?

Credo sarebbe ora di provarci.