3. Dove ci si pongono interrogativi sul prezzo delle bibite in Francia e su altre cose non meno importanti

Le strade erano deserte, non un bar, una vetrina illuminata. Tolto l’assembramento intorno al Vieux Port sembrava che il centro fosse stato evacuato.
In Rue Pollak si fece attirare da un po’ di movimento in cima alla strada. C’era un locale frequentato da beoni eterogenei, di fronte alla ciucca crolla ogni pregiudizio. Un nero gridava qualcosa a una donna, lei gli rispondeva allo stesso volume, tutto nell’indifferenza delle finestre affacciate su quel tratto di strada.
Non si fermò, aveva bevuto abbastanza e voleva solo sparire sotto una coperta e smettere di pensare.

In Place du Marché des Capucins la strada era sbarrata da pile di cassette per la frutta. Era la piazza del mercato, i banchi erano stati smantellati, ma qualcuno esponeva ancora la merce, e gli esercizi intorno sembravano in piena attività. Pasticcerie arabe, alimentari halal, un minimarket.
Gli venne fame, nella pasticceria i dolci erano accatastati in disordine come scaricati da una ruspa. Tutta quella confusione alimentare gli rendeva difficile la scelta. Si fece consigliare dal proprietario, un uomo basso con una lunga barba.

“Ti piacciono le mandorle?”, fece quello, e senza attendere risposta prese un pezzo di carta e pescò una specie di cannolo da uno dei mucchi.

Bene, per la colazione dell’indomani aveva trovato il posto giusto, pensò Gabriele tornando verso l’albergo, e bastò quella piccola determinazione per fargli ritrovare abbastanza buonumore da restare a galla.

La distesa di tavolini davanti all’hotel adesso era occupata da uomini in caffetano impegnati in chissà quale discussione molto concitata. Si sentivano anche dalla camera nonostante le finestre chiuse, e non smisero di salmodiare fin oltre le due. Il resto della notte se lo prese un bambino disperato, da qualche parte nell’edificio.

In quello stesso momento Naïma era in una casa che lui non avrebbe mai visto, probabilmente stava dormendo accanto a un uomo che lui non avrebbe mai voluto vedere. Avevano costruito un loro linguaggio comune che a Gabriele sarebbe risultato estraneo, i legami della sua storia precedente si erano sciolti, ormai per lei era poco meno che un estraneo. Era questo pensiero a non lasciarlo dormire, ben più degli strilli che echeggiavano in corridoio e del brusìo giù in strada.
Da sei mesi stava inseguendo un fantasma, manteneva una conversazione con un interlocutore che aveva la faccia di Naïma, ma di fatto era sempre lui. Se avesse dedicato i suoi pensieri a una pianta sarebbe stata la medesima cosa. E nonostante ne fosse consapevole non riusciva a tirarsene via.
Aveva ragione Pierre, doveva vederla e liberarsi di quel peso. Per sé stesso, non per ottenere qualcosa: Naïma era andata, l’aveva persa, ma per andare avanti doveva fare pace col suo ricordo, o non se ne sarebbe liberato mai.

Fece finta di dormire per ingannare il mattino, ma quello non si fece fregare e arrivò prima che potesse riposarsi.

Il mercato stava aprendo, in tutto il quartiere di Belsunce i commercianti allestivano le botteghe. Se volevi comprare un tajine, una wok, un piatto disegnato o delle babbucce colorate non avevi che da entrare in un negozio a caso e allungare una mano.
I banchi di frutta erano rigogliosi, facevano venir voglia di diventare vegani e vivere di macedonia, ma quello che cercava in quel momento era caffè. Forte. Amaro. Voleva un bar, e quella maledetta città ne sembrava sprovvista.

Superò il porto, non gli andava di sedersi ancora in quei posti fighetti. Aveva in mente un tavolino poco frequentato in cui farsi servire uno di quei deliziosi croissant caldi e una baguette con burro e marmellata con cui accompagnare il caffè.
In Place de Lenche ne trovò uno già aperto e si mangiò il fabbisogno energetico della città di Pescara.
Il croissant era ottimo, e meno male, perché quel brodo nero nella tazzina aveva un sapore che lo offendeva come essere umano.
Se vuoi vendere acqua torbida vagamente aromatizzata nessuno te lo vieta, il mercato è libero, ma almeno sii onesto coi tuoi clienti e chiamala in un altro modo. Chiamala Noncaffè, Mancoperilcazzocaffè, Eaudepalude.

Erano le nove, aveva ancora del tempo per sé, e anche per avvisare Naïma.
Il pensiero gli fece contrarre lo stomaco, e visto quello che ci stava versando dentro fu un bene.

“Ma toddetto che se va de la! Nun la sai legge staccartina!”

Gli italiani all’estero sono rumorosi, i romani sono i più rumorosi di tutti. E lui ne aveva un paio alle spalle. Non è che volesse aiutare dei compatrioti in difficoltà, ma quel berciare gli stava guastando la colazione.

“Cosa state cercando?”, chiese.
“Oh! Uno che ce capisce! Sia ringrazziata lamadonna!”, esultò la donna. Era bassa, secca e rugosa. Ricordava un cagnolino con gli occhi a palla, disidratato. Nervosa, puntava le dita verso il bar e la piazza e la strada e il porto e diceva cose a vanvera senza rispondere alla domanda, peraltro circostanziata, e si fermava e rimbrottava il marito.
Lui era molto più alto, indossava un cappellino da baseball con scritto Ischia e teneva una videocamera appesa al polso di cui sembrava essersi dimenticato. Ciondolava come sotto l’effetto di un oppiaceo, e come dargli torto? Stordirsi di narcotici doveva essere l’unico modo legale per gestire una moglie come quella.
Era la classica coppia in vacanza con cui ti andrebbe di socializzare tenendo in mano una scure.

“Questo prima che chiede ninformazzione stamo freschi! Cercamo a cattedrale!”
“In fondo alla via”, tagliò corto Gabriele, indicando il cartello Rue de la Cathédrale.
“Ma ce stava pure a scritta! Vedi a sapè le lingue!”

Già, Marsiglia ha anche una cattedrale, che lui nel suo trip neoromantico postatomico si era dimenticato di considerare. Doveva trovarsi a un paio di minuti da lì, tanto valeva darci un’occhiata.

“Non dovevi chiamare qualcuno, prima?”, gli chiese a tradimento la sua coscienza.
“Vabbè, dopo lo faccio”, le rispose in una scrollata di spalle non troppo immaginaria.

La vide spuntare appena imboccato il vicolo, ma era una falsa prospettiva: l’edificio stava lontano dalle case, slegato dal contesto urbano. Era grande, non bella. Neobizantina, qualunque cosa volesse dire. Per lui era solo un’altra grossa chiesa a righe con la cupolona e i campanili in facciata, e in mezzo a quella distesa spoglia sembrava un’astronave in sosta. I turisti venivano scaricati dai pullman e intruppati al suo interno in ranghi stretti. Da un portone laterale atrettanti plotoni armati di macchina fotografica e selfie stick venivano espulsi e si dirigevano sotto il sole verso il grosso cubo nero che dominava l’estremità opposta di quel piazzale metafisico. Il MUCEM.

“Adesso però la devi chiamare”
“Magari prima ci faccio un giro sotto per vedere se è aperto”

Era una costruzione splendida. Sembrava una scatola nera intarsiata da un gigante, e si stagliava sul bianco della banchina come un adesivo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, era inquietante come una visione del futuro. Per quanto lo riguardava era anche dello stesso colore.

“Apre fra un’ora, chiamala”
“Magari faccio due passi qui sotto e la incontro che sta andando a lavorare”

Non la incontrò lì sotto e neanche un po’ più in là. Si avvicinò all’ingresso dei dipendenti con la cautela di un artificiere, ma non riuscì a fermarsi abbastanza per guardare oltre la porta a vetri, gli sembrava di essere nudo, pitturato di rosso, con una freccia luminosa a gravitargli sopra la testa e che appena avesse rallentato e allungato il collo sarebbe risuonata una sirena e tutti l’avrebbero visto e additato. È lui! È venuto a vedere Naïma!

Il resto della fantasia proseguiva con insulti nella sua direzione da parte di tutta Marsiglia compreso il sindaco, che lo raggiungeva seguito da una scorta in abito da parata e gli consegnava su un cuscino la chiave di un’altra città con l’invito ad andarsene immediatamente.

Tirò dritto a passo spedito, rosso in viso e svoltò oltre l’angolo. Era il retro del museo, non c’era niente lì tranne uno specchio d’acqua condiviso col forte Saint-Jean che stava di fronte. Si chiese se fosse permesso stare lì, se fosse arrivato un guardiano a scacciarlo avrebbe dovuto buttarsi in acqua e scappare a nuoto. Cosa che peraltro gli avrebbe permesso di non passare più davanti all’entrata principale.
Si obbligò a rallentare il respiro e i passi, uscì dall’altra parte e andò a sedersi su una panchina davanti al mare. Le mura del castello d’If si indovinavano sull’isolotto di fronte, confuse con la desolazione della spiaggia rocciosa. Il mare era dello stesso colore del cielo, invitava a tuffarsi. Se invece di quel pellegrinaggio si fosse spinto fino al Parc des Calanques avrebbe respirato aria migliore e ci sarebbe scappato anche una nuotata fra gli scogli. Ormai era tardi, il battello ci metteva troppo tempo, rischiava di perdere il pullman. Niente da fare, era lì e doveva fare quello per cui era venuto, parlare a Naïma e chiederle.. scusa? Torniamo insieme? Sei felice? Stai ancora con quel tizio? Cosa le voleva chiedere davvero? Il sole gli sovraesponeva i pensieri, eliminava tutte le sfumature. Riusciva a ragionare solo per assoluti. E gli faceva venire sete. Tornò sulla strada, e sotto i portici del porto vecchio prese una bibita gassata che costava come un Veuve Clicquot.
Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli il paradosso tutto francese per cui le bibite costano più care della birra e per una bottiglietta d’acqua devi prima fermarti al bancomat.

Lo schermo del telefono lo fissava per un po’, poi si spegneva e lui lo stuzzicava un’altra volta. Non voleva essere lasciato solo nel momento delle decisioni importanti, ma poi non decideva niente e restavano lì a sostenere una gara di sguardi in cui l’unica sconfitta era la batteria, già al 34%.

“Sono a Marsiglia. Ti va un caffè?”

Tutta la mattina a pensarci e se ne veniva fuori col messaggio più laconico della storia. Aveva dovuto prendersi di sorpresa o non avrebbe mai scritto niente, sarebbe rimasto lì ad aspettare finché non fosse diventato troppo tardi per fare qualunque cosa. Aveva cominciato a scrivere perché e se fosse il caso e a risalire fino alle ragioni in cui, poi si era sentito ridicolo e aveva scritto la cosa più diretta possibile. Pure troppo.
Riprese il gioco di sguardi con lo schermo, in attesa che la spunta raddoppiasse e si colorasse di blu.

“Prende qualcos’altro?”, lo interruppe la cameriera.
“Sì, prendo un..”
DING, fece il telefono.
Argh, disse lui.
“Niente”, aggiunse, e se ne andò col cuore pieno di elio.

La risposta era divisa in qualcosa come sedici messaggi: Naïma apparteneva a quella categoria di persone che non riescono a sostenere il peso di una finestra carica di parole, e ogni due o tre devono spedire. Quando stavano insieme il telefono gli vibrava in tasca per minuti interi ogni volta che dovevano organizzarsi per uscire. Se litigavano lo stillicidio durava ore, una volta aveva dovuto spegnere il telefono per non scaricarlo.

Era sorpresa che fosse lì. Ma non sembrava irritata. E si diceva disposta a vederlo. Appena possibile. Quando finiva di lavorare. Verso le cinque. Che bella sorpresa. Ma cosa ci faceva a Marsiglia.

Le rispose che era a cinque minuti dal suo posto di lavoro e che avrebbero potuto vedersi al bar del museo, sulla terrazza. Dopo non poteva, aveva il viaggio di ritorno e doveva ancora raggiungere la periferia orrenda senza perdersi né venire sequestrato dalle bande criminali che scorrazzano da quelle parti sui loro veicoli truccati e privi di tagliando assicurativo.

Disse che andava bene, ma poteva dedicargli solo poco tempo, mentre le sarebbe piaciuto andare a cena, era tanto che non si vedevano, chissà quante cose avrebbero avuto da dirsi. Lo disse in dieci messaggi.

(continua)

2. Dove non ci si aspetta l’inaspettato e trovare la verità diventa molto più difficile

I tavolini sulla terrazza erano quasi tutti occupati da possibili lettori di noir francese. L’ombra degli alberi e uno schermo acceso sulla partita riportavano quell’angolo di Francia a una dimensione più prosaica.
Ordinò una birra e un guacamole alla cameriera lesbica. Ce n’erano due, una che sembrava un camionista appassionato di boxe e l’altra appena saltata giù da un poster di pin ups anni ’50, con tanto di cerchietti rosa sulle guance paffute.

All’angolo opposto del bar un negozio specializzato in pastis suggeriva di assaggiare la bevanda tipica della città. Secondo Izzo bisogna berne tre per apprezzarne il sapore; Gabriele era convinto che bisognasse fermarsi prima. A zero.
Due negozi di carabattole turistiche si affacciavano sulla strada, entrambi offrivano variazioni sul tema della sardina. Perché la sardina a Marsiglia è considerata così importante? Sardine marinate nel pastis, chissà se ci aveva mai pensato qualcuno. Sarebbe potuta essere la svolta.

Un uomo invecchiato male, il cui odore di anice lo identificava come cliente abituale del negozio di pastis, andò a sederglisi vicino. Aveva una camicia cachi troppo grande a sventolargli sul petto rinsecchito, pantaloncini della stessa tonalità e sandali. Sembra un reduce della Legione disidratato dal sole sahariano. Doveva essere del posto, la cameriera pin up lo chiamò per nome. Stette qualche minuto a osservare distratto la partita, con un calice in mano pieno di liquido giallino, poi si alzò e fece un giro fra gli avventori della terrazza. Trovato uno che gli piaceva ne occupò la sedia accanto, senza troppe cerimonie, e si mise a raccontargli le sue disavventure. Così, senza aspettarsi alcuna risposta, raccontava per buttare fuori. Il suo interlocutore era chiaramente un turista straniero, forse inglese a giudicare dalla scottatura del viso. Era a disagio, si sarebbe alzato e avrebbe cambiato tavolo, o più probabilmente città, se non fosse stato un gesto maleducato. Così stava lì a dissimulare naturalezza livello condannato al patibolo.

Gabriele si sentiva in sintonia ora con uno, ora con l’altro. Aveva anche lui voglia di acchiappare qualcuno per un braccio e raccontargli di essere venuto fin lì per praticare un esorcismo, farsi rassicurare sull’esito positivo di una pratica così pericolosa, magari trovare un’anima compassionevole disposta ad accollarsi tutta l’operazione, vedere Naïma, convincerla che c’è ancora una speranza, farla innamorare ancora, cancellare tutto quel tempo inutile della loro separazione. Lui sarebbe rimasto in albergo ad aspettare, avrebbero bussato e dietro la porta ci sarebbe stato il turista inglese insieme a lei. Gli avrebbe detto è tutto risolto, e l’avrebbe fatta entrare, chiudendosi la porta alle spalle mentre se ne andava. Ci sarebbe stato un sottofondo di pianoforte, ad un certo punto della storia.
La parte in cui si sentiva tremendamente a disagio occupava il resto del tempo in cui non si perdeva in fantasie ridicole.

Avrebbe voluto scriverle ora, rompere quel silenzio e dirle che era lì, chiederle di raggiungerlo. Esserle amico, se proprio non poteva essere il suo compagno. Era per quello che si era sobbarcato sette ore di pullman, no?
Solo pensarlo glielo rendeva impossibile. Nella solitudine del suo tavolino in mezzo a una terrazza piena di gente nella seconda città più popolosa di Francia dovette ammettere che rinunciare a qualcosa che volevano entrambi gli era inaccettabile. Vederla con un altro uomo gli tirava fuori dei giudizi che non voleva più dare. Era stufo di quella guerra senza senso, e allora meglio stare lontano, dove non poteva nuocere neanche a sé stesso.

Ho cercato di ucciderti sperando che mi facesse meno male, e mi sono trovato a combattere contro i miei stessi desideri.
Sono seduto al tavolino del tuo bar e ho gli occhi lucidi. Dimmi se si può andare in gita così.

Il senso di ragno empatico squillò come una sveglia nella testa dell’ubriacachi, che si voltò di scatto a guardare Gabriele. I loro sguardi si incrociarono, la preda e il predatore.
Ogni pomeriggio all’ora dell’aperitivo, a Marsiglia, un avventore del 13 Coins si sveglia e sa che dovrà correre più in fretta dell’ubriacone molesto se vuole restare vivo.

Gabriele finì in un sorso la birra e abbandonò il guacamole quasi intonso, lo avevano fatto con la maionese, quei barbari! Colpa sua, nel Panier devi ordinare l’hummus.
Si alzarono insieme, ma le sue gambe non erano appesantite dall’alcool come quelle dell’avversario, e riuscì a guadagnare la strada prima di essere catturato.
Era ora di cena, il quartiere era ricco di piccole trattorie caratteristiche che ricordavano molto i locali intorno a Montmartre e quelli nella Plaka. I ristoranti nei quartieri turistici si somigliano tutti in tutto il mondo, stanno a metà fra l’atelier del pittore e la cantina di paese, e il menu è pieno di cifre sopra il 15.

In Rue du Refuge un signore vestito da cuoco allestiva un piccolo tavolino, mentre la moglie scriveva i piatti del giorno su una lavagna. L’etnia della coppia rispecchiava la selezione dei cibi: quella sera tajine e tarte aux pommes.

“Non ho prenotato. Posso sedermi?”. Era l’unico cliente. Il cuoco ridacchiò e gli indicò il tavolino.

Non aveva mai mangiato un tajine così buono: i ceci gli scoppiavano sotto i denti e davano solidità al sapore incorporeo della curcuma e della cannella, che potevano invaderti la bocca mentre la lingua era distratta dal sapore dolce delle prugne. La salsa piccante nel piccolo piatto di terracotta che porta il medesimo nome garantiva la fuga dalla realtà. Non era più una cena, era una rapina a mano armata, impossibile opporre resistenza.
Tuttavia qualcosa lo tratteneva lì, come la sensazione di uno sguardo posato su di lui. Una luce calda che lo avvolgeva, un refolo di brezza fra i capelli, qualcosa di familiare.
Il respiro gli restò bloccato in gola, si voltò come tuffarsi in un lago, certo di cadere dritto negli occhi di Naïma.

L’uomo in cachi restò a fissarlo in silenzio, dando il tempo alla sua faccia di ricomporre un’espressione adeguata.

“Kadir, mi puoi portare un succo all’ananas, per favore?”
“Certo Pierre, con ghiaccio come al solito?”
“Da un arabo non puoi farti servire alcolici decenti”, spiegò a bassa voce a Gabriele, indicando la bottiglia di Cagole in mezzo al tavolo.
“Sbrigati a finire il tajine, ti porto in un posto migliore”

Attraversarono il Panier verso il porto, seguendo una strada diversa da quella dell’andata. Ebbe una fugace visione della piazza in cui aveva abitato Naïma, ma Pierre non gli dava il tempo di fermarsi a sospirare, aveva un passo da fondista difficile da seguire.
Sbucarono sulla Grand Rue che erano quasi le nove. La basilica sulla collina era rossa, come il luogo di culto di qualche romanzo sanguinario. Gli sarebbe piaciuto vedere la città da lì, ma forse dopo il tramonto ci praticavano sacrifici umani.
E comunque il suo anfitrione sembrava dirigersi altrove.
“Vite! Vite!”, gli intimava quando restava indietro.
Ma perché aveva seguito un matto del genere?

Perché non avevi altro da fare che stare seduto a piangere davanti a una massa di sconosciuti, e allora perfino la compagnia di un matto alcolista diventa un’alternativa migliore.
Ah già.

“Non per sapere i cazzi tuoi, ma dove stiamo andando?”
“Vers la vie”, rispose Pierre, indicando le case dall’altra parte del molo.
Se non altro il rischio di venire sbudellato dagli adepti di R’hllor sembrava scongiurato, pensò Gabriele buttando un occhio alla collina, che aveva assunto il colore del sangue secco.

La loro destinazione risultò essere una piazza lunga e stretta dietro il porto, dal nome troppo lungo per essere ricordato. Un lato era occupato da locali pieni di ragazzi, la vie di cui parlava Pierre; l’altro era senz’altro le sommeil, palazzi silenziosi uso ufficio. Anche la redazione della Marseillaise sembrava deserta.

Un trio composto da sax, susafono e batteria proponeva una selezione di ottimi standard jazz fuori da una pizzeria. Era il Peano.
Gabriele si chiese se con l’apertura al capitalismo anche la Bodeguita del Medio sarebbe diventata uno Starbucks.
Le vibrazioni negative riattivarono l’empatia del compagno, che lo prese per un braccio e lo mise a sedere davanti a un vodka tonic.

“Adesso ci ubriachiamo e mi racconti cosa ti è successo”
“Ma non mi conosci neanche, cosa ne sai che mi è successo qualcosa?”
“Ho fatto l’assistente sociale a Belle De Mai per vent’anni. Mi sono trovato davanti ogni tipo di disagio, mogli picchiate e minorenni che si prostituivano per pagarsi la droga. Ormai il dolore lo riconosco da lontano. Non so perché cerco ancora di aiutarvi, deformazione professionale, idealismo, che ne so. Ma vi vedo questo peso addosso e devo cercare di togliervelo. Fammi indovinare, lutto o divorzio?”
“Ma tu sei scemo.”
“Dai dimmelo, lutto o divorzio?”
“Omicidio preterintenzionale”
“Divorzio rancoroso! Lo sapevo! È il mio preferito, racconta!”

Erano passate solo poche ore da quando si era ripromesso di non diventare mai un depresso alcolizzato rompicazzo, e guardalo adesso. Era davvero così privo di dignità?
Quel che si uccide si diventa, diceva Pavese.
Raccontò.

“È una storia bellissima, mi fa venire da piangere! E piangerei, eh? Ma un ubriaco che piange è talmente banale.. Adesso cosa fai, la chiami?”
“Pensavo di no.”
“Ma come no? Sei venuto fin qui apposta!”

Era stata un’idea del cazzo. Quando Naïma era tornata a Genova per prendere le sue cose si erano incontrati, avevano litigato per ore. Lui le aveva riversato addosso una cisterna di liquame puzzolente, era andato via giurandole che l’avrebbe rivista mai più. Ci voleva una bella faccia per presentarsi di nuovo.

“Sono passati mesi. Una persona cambia opinione nel frattempo. Ragiona, capisce di avere avuto torto.”
“Ma io non lo so mica se ho avuto torto. Non vorrei più litigare, quello no, ma ho paura che se ci confrontassimo tornerebbero le ragioni per cui ci siamo scontrati la prima volta. Quelle sono sempre lì, e sono sempre vere. Non si può alternare carezze e bastonate, se prendi una posizione devi mantenerla.”
“Quindi preferisci essere coerente con un comportamento anche se sai che è sbagliato? Mi sembra stupido.”
“L’orgoglio è stupido.”

Pierre attirò la cameriera con un gesto troppo ampio e chiese un altro vodka tonic. Gesticolava un sacco, un paio di volte aveva scontrato il suo bicchiere, e non erano finiti a bagno solo perché era già vuoto. Gesticolava troppo e beveva veloce. E parlava, parlava..
Era convinto che il rapporto fra Gabriele e Naïma andasse ricucito ad ogni costo, non c’era equilibrio e secondo lui le cose prive di equilibrio richiedono un’energia enorme per impedire loro di cadere. Non sembrava interessargli il sentimento fra loro due, per lui l’importante era smettere di sprecare energia. Parlava come un attivista di Greenpeace a cui avessero modificato il vocabolario, sostituendo l’ecologia con termini più legati agli affari di cuore.

“Stai tenendo in mano una pietra da tirarle addosso, non sai se la userai o no, ma preferisci tenerla in caso di necessità. Alla fine è un peso inutile, buttala. Dici che le ragioni sono ancora lì, ma quali sarebbero?”
“Il tizio, Grimaldi. Non riesco ancora ad accettarlo.”
“Perché ti aspetti ancora qualcosa da lei, è quello l’errore. Devi fare pace per te stesso, non per ottenere qualcosa.”
“Non puoi obbligarti a non desiderare.”
“Puoi desiderare senza soffrire. È a quello che devi arrivare. Adesso scusa, ma devo andare a pisciare.”

Si alzò con una certa difficoltà e sparì in mezzo a un gruppetto, urtando una ragazza e proseguendo senza scusarsi.
Dieci minuti più tardi la cameriera si presentò al tavolo col conto.

“Non stiamo andando via, il mio amico è in bagno”, le spiegò lui.
“Il tuo amico se n’è andato dieci minuti fa.”
“Ma no, è in bagno, ti dico!”
“Ti ha fregato, lo fa sempre. Cosa ti ha raccontato? Quella dell’assistente sociale o quella del malato che vuole vivere fino in fondo?”

Gli piombò addosso una voglia feroce di tornare a casa, come se qualcuno gli avesse ficcato un sacco in testa e spento la luce. Se ci fosse stato un pullman a quell’ora sarebbe corso a prenderlo. Guardò sul telefono se fosse possibile spostare la prenotazione per l’indomani mattina, e come succede sempre nei viaggi particolarmente economici scoprì che la minima modifica imponeva il pagamento di penali più care del biglietto stesso.

Pazienza, domani farò un giro in città, magari salgo sulla collina. Faccio venire le tre e torno a casa. Io e le mie idee del cazzo.

Si incamminò in una strada silenziosa e in un paio di minuti si trovò davanti all’imponente prefettura. Non era un edificio granché interessante, somigliava ai tipici palazzi francesi del’800 che ti stufi di vedere girando per Parigi. L’illuminazione però era perfetta, lo trasformava in una bomboniera.
Forse è l’illuminazione sbagliata, pensò. Magari vedrei la mia situazione molto meglio di così se solo la illuminassi meglio. Aggiungo due faretti sui sabati sera in città ricche di fascino, ne tolgo uno agli incontri fortuiti e deleteri, lascio al buio le storie passate e tengo una lampada accesa per vedere dove sto andando, e la prospettiva cambia di colpo e divento un figo che vive avventure esotiche e si tiene lontano dalla tristezza.

Ricontrollò le condizioni di viaggio di Flixbus, magari gli era sfuggita la clausola “Modifica del contratto di acquisto in caso di manifesta incapacità di vivere”.

(continua)