Vai a comprare le cipolle e intanto che sei al supermercato a girare per gli scaffali pieni di confezioni colorate e cartellini segnaprezzo che dovrebbero stare in gioielleria e non certo sul banco del macellaio ti viene in mente di comprare anche un po’ di macinato, che magari domani fai le polpette col coriandolo, e questo ti ricorda che sei rimasto senza peperoncino, e da un po’ non ti fai una bella aglio olio torrida, tipo quelle che improvvisavi con gli amici il sabato sera tardi, un po’ alticci dalle serate nei locali, più per fame di spirito che di stomaco. Nello scaffale delle spezie ci sono un sacco di bottiglini dai nomi sconosciuti, sembra il laboratorio dell’alchimista, vorresti comprarli tutti per sentire che sapore hanno, ma farebbero la fine del dragoncello nella credenza, ancora fasciato nel cellophane, non dico la pietra filosofale, ma un pesce magari ce lo potevi anche condire da quando l’hai comprato l’anno scorso. Alla fine esci dal supermercato con una borsa piena di roba, verdure, pane, merendine, cose di cui non avevi veramente bisogno finché non ci sei capitato davanti, ma è solo a casa che realizzerai che alla fine le cipolle non le hai mica comprate.

Dimenticare.

Il cervello è più evoluto di un computer, può fare miliardi di calcoli in un tempo così breve che neanche ci accorgiamo di averli fatti, può collegare il profumo di una donna che ti incrocia nel parcheggio con quello del glicine in fiore sulla strada che percorrevi per andare a scuola in terza elementare, in un paesino di campagna perso centinaia di chilometri di anni fa, ti sveglia in piena notte col ritornello della canzone più stupida e odiosa di quest’estate troppo calda e breve, e poi non ti avvisa che stai uscendo dal negozio senza la cosa che eri partito per comprare. Non ti dice che è il compleanno della tua ragazza fino a cinque minuti dopo l’orario di chiusura dei negozi. Ti confonde il nome della persona che ti ferma per strada con un sorriso da qui a lì e che ti grida “Ma che sorpreeesaaa! Da quanto teeempooo!” con quello di una vecchia conoscente morta sei sette anni prima, e resti lì a chiederti se sia il caso di spararle in testa prima che ti divori, ma no, gli zombi non parlano, soprattutto non così tanto, ma non ci sta mai zitta questa? Forse sarebbe il caso di spararle comunque. È totalmente inaffidabile il cervello, non puoi assegnargli neanche il compito più semplice quando non ha voglia di lavorare, non c’è verso.
E poi una sera sei in giro e ti fermi a guardare un paio di scarpe in una vetrina, un paio di scarpe talmente assurde che è difficile immaginarci i piedi di qualcuno dentro, e ai margini del tuo occhio una figura di donna ti scivola accanto, sbucata all’improvviso dal vicolo, e si allontana, e non devi neanche alzare gli occhi da quelle suole verde acido per sapere chi era, la macchina perfetta che ti si annida fra le orecchie ti ricorda in un attimo il suo nome, i suoi occhi curiosi, e poi la voce incazzata che aveva l’ultima volta che ti ha parlato, saranno otto anni fa, quando ti ha sbattuto il telefono in faccia ed è uscita una volta per tutte dalla tua vita. O così credevi, una volta per tutte è un periodo di tempo troppo breve, a quanto pare. Oppure non era lei, la storia che si era trasferita in America e aveva cambiato sesso e si era candidata coi repubblicani ed era diventata governatore della California poteva anche essere vera, un’occhiata fugace è poco per riconoscere qualcuno, chissà chi hai visto passare, magari era una che le somigliava soltanto. E poi questa portava gli occhiali, lei mica li ha mai messi. Si, è vero che non ci vedeva un cazzo e ne avrebbe avuto bisogno, ma con quella montatura così pesante? Beh che c’è? Sono di moda, fanno hipster. Cos’è che fanno? Hipster. Si, vabbò, e le scarpe di plastica color anniottanta fanno schifo, cosa dobbiamo, accamparci davanti a questa vetrina? Metti che passa qualcuno che ci conosce e pensa che ce le vogliamo comprare.
Metti che qualcuno che conosciamo sia già passato.

Litigare col proprio cervello è una cosa che nessuno dovrebbe mettersi a fare per strada, gesticolare da soli è già bizzarro quando hai un auricolare all’orecchio. E poi non riesci mai ad aver ragione quando litighi col tuo cervello, ce l’ha sempre vinta lui, ma per forza, noi siamo il nostro cervello, tutta questa struttura di ossa e muscoli e occhi e capelli e denti e odori è solo un abito che indossiamo per portarci in giro, perciò alla fine è il cervello che ci dice cosa dobbiamo rispondere alle sue insinuazioni, e così ci frega. Bel bastardo il cervello, ci credo che tanti alla fine scelgono di dar retta al cuore.
Non è che voglio dar loro torto, ma ci sono momenti e momenti, c’è la volta che devi lasciarti andare e agire d’istinto fregandotene di tutto e c’è il caso in cui è meglio riflettere un momento, magari lasciar sbollire la rabbia, ingoiarla se è il caso, perché non è che puoi andare dal tuo capo e sputargli in faccia e dirgli che è un omino e pretendere di non perdere neanche il posto, mentre è consigliabile non stare a ragionarci troppo quando la ragazza che tampini da mesi ti sussurra nell’orecchio di accompagnarla a casa, anche se puzza di alcool da far lacrimare gli occhi.
Una via di mezzo sarebbe l’ideale, ma non sembra essere stata mai presa seriamente in considerazione, sennò lo avresti sentito dire almeno una volta nella vita, segui il polmone, e cos’è, una campagna contro il fumo? Ascolta il tuo rene, e pigliati ‘sto diuretico.

No, dai, veramente, voglio una terza via che metta d’accordo la testa e il cuore, che ragioni il tempo necessario e poi prenda la decisione più istintiva fra quelle che il tecnico del piano superiore ha tenuto dopo il primo setaccio, non importa che sia quella giusta, basta che non mi lasci dopo a rosicchiarmi le dita e sperare che qualcuno inventi la macchina del tempo nei prossimi cinque minuti. Che potrebbero essere anche i prossimi cinquecento anni per quel che me ne frega, montata su una DeLorean o su una vasca da bagno liberty, l’importante è che compaia qui ora e mi permetta di riparare il casino che ho appena combinato. Sarà possibile abbordare una macchina del tempo?
Tipo che compare all’improvviso un cronoturista, magari uno che voleva visitare l’Egitto dei faraoni e ha sbagliato a digitare le coordinate, immagino che sia un casino guidare una macchina del tempo, o magari voleva proprio venire qui, che nel futuro sarò rivalutato dopo la mia morte atroce in un incidente stradale fra un pullman di malati terminali e uno di leghisti, e non voglio sapere su quale dei due mi trovavo, e il cronoturista voleva conoscermi per sapere chi era Pablo Renzi per davvero, che le biografie nel futuro le scriverà tutte Pansa. Cosa faccio, gli mollo una gomitata nei denti, gli frego la cronovespetta e via? Non fa fico da fare a un fan in fieri, meglio considerarlo un turista farai-da-te.
Lo sradico dal sedile, rimetto in moto prima che abbia il tempo di dire macheccacchio e via, indietro il tempo necessario a fare quel che devo fare, la soluzione perfetta che ti viene solo dopo, quando il cervello ha potuto elaborare tutte le soluzioni possibili anche se ormai non c’era più niente da fare, solo per far passare il tempo e tenersi impegnato in azioni diverse dall’implodere, che il cervello o elabora o implode, non ha altre funzioni, se potesse anche giocare a tetris mi vedreste appoggiato a un muro con lo sguardo perso nel vuoto a canticchiare una musichetta di ispirazione sovietica, inerte al mondo, forse è meglio così; poi il cervello ha passato al cuore le strategie più valide, con una nota allegata che diceva “vedi un po’ tu cosa ne pensi, le altre facevano tutte schifo o avevano come conseguenza diversi anni di carcere” e anche lui si è messo lì, ha tirato un sospirone e ha detto vabbè, andiamo avanti, le ha vagliate tutte e ha scelto l’unica possibile, la soluzione che mette d’accordo il cuore e la mente.
Solo con la cronovespa puoi farlo, ti è stata data la possibilità unica di cambiare il corso della tua vita, hai quell’unica finestra temporale per tornare indietro e modificare il passato, rimettere d’accordo il te stesso di ieri con quello di oggi, una cosa che tutti sognano e nessuno sa.

E allora torno indietro a quella sera davanti a quella vetrina, parcheggio sul marciapiede, che voglio vederli i vigili a risalire al proprietario del veicolo, e stavolta entro nel negozio e vado dritto dal commesso e mi ci piazzo davanti e glielo dico cazzo, glielo dico, gli dico ma chi le compra delle scarpe di plastica rosa con la suola verde acido, eh? Le tue scarpe fanno cagarissimo! E poi me ne vado, risalgo sul cronomotorino e torno da dove sono venuto, mi scuso col turista che è ancora lì a massaggiarsi la bocca e gli offro il caffè e l’ammazzamedesimo, e poi riprendo a vivere la mia vita, padrone di un nuovo equilibrio interiore che mi fa vedere le giornate sotto un altro aspetto.
Fine, titoli di coda, si accendono le luci in sala e il pubblico esce sollevando il mento e spingendo le labbra all’infuori, nel gesto internazionale della perplessità. L’avranno anche candidato a Cannes, ma secondo me era meglio se andavamo a vedere l’uomoragno.

E la tizia di prima, mi chiederete? Vedete, il fatto è che il nostro cervello è una macchina straordinaria che può riportare alla luce volti e profumi lontani ere geologiche come se fossero stati lasciati lì un minuto prima, e certe volte quando succede riceviamo delle sberle da farci traballare, ma alla fine lo sa anche lui come funziona il tempo, e si adegua. Gli orologi vanno sempre avanti, e se non lo fanno sono da riparare, e questa che sembra una banalità è invece una regola fondamentale per vivere serenamente. Perché anche noi siamo creature unidirezionali, non possiamo saltare avanti e indietro come ci pare, dobbiamo essere coerenti col nostro destino e lasciare i ricordi ad ammuffire dove meritano, in qualche angolo del cuore, sui vecchi diari, in una foto spiegazzata o per la strada. È anche una forma di rispetto verso la via che abbiamo percorso, che a cambiarla continuamente finisci per non arrivare mai da nessuna parte. Ed è una dimostrazione di maturità, che non ce l’hai più vent’anni, prendi una direzione e che sia quella, cristodiundio. Insomma, va bene sgranare gli occhi e smettere un secondo di respirare, ma a meno che non ti sia venuto un ictus poi devi ricominciare e fare come se, e non è fingere che sia come se, è proprio così, per il discorso di prima, e tutto il resto sai cosa? Meh.

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La seconda parte della vacanza comincia alla piazza Charles De Gaulle, quando esci dalla metropolitana e ti trovi di fronte all'Arco di Trionfo.

 

 

È una bella abitudine questa dei parigini, di costruire i monumenti proprio all'uscita delle metro, che arrivi in cima alle scale e ci resti basito, come gli avventori al bar di Amèlie.

Che poi a me l'arcdetrionf neanche piace, così napoleonico, aquile dappertutto foglie fasci edere gentechesinchina, è più fascista dell'architettura fascista, che quella un po' mi piace, così squadrata e priva di gusto da finire per essere la caricatura di uno stile, o forse è perché mi ricorda gli sfondi dei fumetti di Krazy Kat.

Veniamo giù per gli Champs Elysèes con la ferma intenzione di visitare le Galeries Lafayettes prima di entrare al Louvre, che Marzia se non vede due scarpe non quieta.

Eccoci all'Elysèe, non c'è traccia dei grandi magazzini né di Carlà, proviamo ad andare avanti.

Questo è il Grand Palais, dove è allestita la mostra di Monet di cui sono andati esauriti i biglietti appena è cominciata. E i Lafayettes? Saranno dopo.

Ecco il Petit Palais, che i marinai considerano molto più importante del fratello maggiore perché una delle stelle che lo compongono indica sempre il nord. Ma i grandi magazzini non ci sono. E si vede che sono più avanti.

Ed eccoci in Place De La Concorde, e di gallerie lafaiette neanche l'ombra,nè di Carlà, né delle sue scarpe. Marzia è inferocita, ha appena scoperto sulla mappa che si trovano tutti in Boulevard Haussmann, a due passi dall'Opèra, c'eravamo ieri, stronzo!Vorrebbe farmi ripercorrere gli Sciampi di Elisa a calci in culo fino all'Etoile, ma ha male a un piede e c'è da visitare il Louvre.

Il Louvre in breve è impossibile, ma ci si prova. Intanto salti la coda facendo il biglietto alla FNAC, ed è più di un'ora risparmiata. Poi decidi che non vedrai alcune sezioni, fa male ma è necessario. Ho visto uomini più forti di me smarrire la ragione e aggirarsi per la Grande Galerie alla ricerca di un tabacchino, un altro ha aspettato tanto di trovarsi al cospetto della Gioconda che per sopravvivere si è mangiato i figli e poi si è venduto i loro iPod, e voi state ancora al Conte Ugolino.

Del Louvre mi è piaciuto:

  • la risata della signorina al ristorante quando mi ha elencato i contorni: “riz, frites..” e le ho risposto preparatissimo: “Oui, riz frite est parfait!”;

  • l'emozione di trovarmi da solo di fronte a un capolavoro assoluto: Fulmine Divino Contro Il Terribile Uomo Talpa;

  • le scale per accedere ai piani superiori, da cui un tempo scendevano donne dalle gonne ampie e la pelle d'oca, che riscaldare un palazzo di quelle dimensioni non era impresa da poco;

  • la ressa pazzesca davanti alla Gioconda non mi è piaciuta, ma mi ha permesso di godermi un paio di quadri nella stessa stanza senza turisti a sgomitarsi la prima fila, quindi alla fine mi è piaciuta anche lei;

  • le due tele di Gericault e Delacroix, la Zattera della Medusa e soprattutto La Libertà Che Guida Il Popolo, una accanto all'altra per ragioni che la mia professoressa di arte saprebbe spiegare meglio di me, io mi limito a starci davanti e sospirare;

  • la competenza della mia guida, di fronte alla quale ho saputo solo mostrare le mie doti di cazzaro descrivendo “Gesù Alza Le Mani Su Un Tizio”, che fra l'altro non è neanche mia;

  • la vetrina con le armature dei gladiatori, che mi hanno riportato ai fumetti di Asterix, e voi tenetevi pure Bisteccone Rasselcrò;

  • la cortesia della signora che mi ha ricordato che per usare il cavalletto occorre un'autorizzazione apposita. Ochei, però erano già due ore che me lo portavo appresso per le sale e almeno dieci minuti che stavo lì a misurare le distanze fra me e la Venere di Milo, avrei avuto tutto il tempo di andare là e staccarle la testa, mi pare che il Louvre in quanto a misure di sicurezza lasci un po' a desiderare.
    Ti controllano all'ingresso, neanche troppo, giusto lo zaino nello scanner come all'aeroporto, ma se hai dell'acquaragia nella bottiglia d'acqua non gli frega, e intanto dentro l'unica opera davvero sorvegliata è la Gioconda, se volessi buttare giù a spallate il Codice di Hammurabi non so se riuscirebbero ad impedirmelo. Si vede che i vandali di solito ambiscono solo all'eccellenza.

Del Louvre non mi è piaciuto:

  • la gente che fa le foto col flash sbattendosene dei divieti. Le tele si deteriorano, e siccome le tele esposte sono di tutti sono un po' anche mie, ed è quindi normale che ogni volta mi venga voglia di ficcarla in gola al proprietario, la macchina fotografica;

  • quelli che si mettono in posa davanti alle opere. Li schifo in generale, ma specialmente le donne, che si mettono di tre quarti e fanno la faccia maliziosa, sfoggiano sorrisi sornioni come se ti mostrassero il completino sexy appena comprato a Pigalle, mentre alle loro spalle accade di tutto: Giuditta decapita Oloferne, eserciti si sbudellano, crollano imperi, si versano fiumi di sangue, si compiono tragedie inenarrabili, e loro sempre lì, con l'espressione più ambigua che sanno inventare.
    Sono dappertutto, al cimitero appoggiate alla tomba di Baudelaire, al museo davanti a Marat assassinato nella vasca, agli Invalides sotto il sarcofago di Napoleone, sono sempre presenti e cercano sempre di sedurre il fotografo. Si vede che lui si eccita solo così.

  • Ma anche quelli che non ci si mettono, in posa, e stanno così, amorfi, le braccia lungo i fianchi e la faccia inespressiva, e ricordano certi pescioni tenuti per la branchia dal pescatore sorridente davanti all'obiettivo.
    Anche loro sono stati pescati, in un certo senso. Il quadro è il pescatore col cappello verde pieno di ami, che sorride al fotografo, e loro non possono che starsene appesi a bocca aperta e occhio vitreo, al limite domandare alla fine “com'è venuta?”.


Il simbolo di Parigi ce lo siamo tenuto per ultimo.

Spassky consiglia di scendere al Trocadero e svoltare l'angolo per trovarsela di fronte tutta in una volta, bellissima e orribile e bellissima.

Anche la prima volta mio padre mi fece fare lo stesso percorso, e anche allora era una mattina appena dopo la pioggia. Ho svoltato l'angolo e sono piombato in un ricordo vecchio venticinque anni, solo che stavolta da Dante sono diventato Virgilio.

Spassky consiglia anche di portarsi in vacanza una compagna di viaggio che non soffra di vertigini, perché se per salire in ascensore bisogna farsi ore di coda è possibile affrontare le scale a chiocciola senza alcuna attesa, ma solo con qualcuno che non tema le altezze.
Già che ci siete ricordatevi di portare con voi antiinfiammatori e analgesici, che a camminare tanto si rischia la tendinite, ma non mi lamento, abbiamo fatto più strada dei fanti in Russia, un'altra avrebbe ceduto e sarebbe tornata in albergo.

L'Hotel des Invalides da solo non vale il biglietto d'ingresso, che se Napoleone aveva manie di grandezza mica da ridere Luigi XIV ne aveva il doppio, e se non ti interessa visitare il Musèe de l'Armèe (notevole, peraltro) finisci per pagare il biglietto solo per la tomba di Napoleone, un grosso muffin pettinato come il cugino fortunato di Paperino, o la testa di Betty Boop, e una volta che sei entrato e l'hai vista e hai notato la ragazza che ci sta in posa davanti con l'espressione sorniona non c'è più molto da fare. Resti lì dieci minuti, ti guardi il plastico dell'edificio, scendi nella cripta per riguardarla da sotto, noti un'altra ragazza in posa languida, al limite ti siedi e ascolti quel continuo rimbombo che arriva da qualche parte lì intorno e ti chiedi cosa sia. Booom! Booom! Sembrano salve di cannone, sarà mezzogiorno? Booom! Booom! Continuano, irregolari, forse è una sezione del museo lì accanto che proietta dei filmati, o qualcosa del genere.

Quando stai per uscire fermati un attimo all'ingresso e svelerai il mistero: è la porta a molla, quando si chiude sbatte, e il rimbombo viene amplificato dalla cupola della cappella. Suggestivo.

Da lì alla Gare d'Orsay non ci vuole molto, si fa tranquillamente a piedi, e si arriva al museo degli impressionisti dal retro, dove si trova un chiosco di giornali. Vende anche i biglietti d'ingresso senza sovrapprezzo, solo che non lo sa nessuno, ma non nessuno tipo che ci trovi una decina di turisti, nessuno tipo nessuno, tipo che arrivi e c'è lui che sbadiglia, e tu ti paghi i tuoi otto euri ed entri davanti al guardaroba, saltando la biscia chilometrica di persone che aspettano fuori al freddo.

Dal museo degli impressionisti usciamo scarsamente impressionati, tutto Monet è stato spostato al Grand Palais per una mostra di cui non si trovano biglietti da due anni prima dell'apertura, e anche gli altri capolavori sono sparsi per tutto il mondo. Vale comunque una visita, ma è un museo zoppo, ce lo giriamo in un'ora e mezza e abbiamo ancora il tempo di andare a fare shopping nei dintorni dell'hotel.

Due tre recensioni che neanche la Lonliplène:

HOTEL DU MOULIN: Piccolo albergo gestito da una famiglia di coreani, serve essenzialmente clienti di quella parte di mondo, tanto che le indicazioni nelle camere sono scritte in francese e in ideogrammi. Se siete di poche pretese il posto è molto pulito e il personale gentile, e Rue des Abbesses è una base fantastica per girare la città, con due fermate della metro a disposizione, o per rilassarsi fra brasseries e negozietti. È una strada frequentata più che altro da parigini, senza l'invasione di turisti e botteghe di souvenirs che trovate appena più in alto, nei pressi della Basilique du Sacre Coeur, o di sexy shop e locali ambigui che stanno appena sotto, in Boulevard de Clichy, in piena Pigalle.

L'unico neo dell'hotel è la temperatura delle camere, sempre che non vi disturbi svegliarvi di notte con le lenzuola che fumano.

Dopo alcuni giorni realizziamo che i servizi offerti dall'albergo non si discostano dall'essenziale: il personale non ha adattatori per la corrente (le prese francesi non hanno il terzo foro centrale), se ti senti male non hanno termometri per misurarti la febbre, non puoi mangiare in camera a meno che tu non stia morendo e non puoi mangiare nella saletta colazioni perché disturbi i clienti coreani che hanno pagato per la pensione completa.
Dovessi tornare a Parigi sceglierei sicuramente la stessa via, ma forse mi orienterei verso un altra sistemazione, tanto c'è abbondanza.

LES DIX VINS: Piccolissimo ristorante nella via che corre fra Rue des Abbesses e Boulevard de Clichy, di cui però non ricordo il nome. Lo staff è simpaticissimo, ed è composto dal cuoco, dal cameriere, dal barista e dal maitre di sala, tutti in un unico signore rotondetto che ride sempre. Il menu è identico tutte le sere, con 17.50 euri puoi scegliere fra quattro cinque entrèes, quattro cinque pietanze e altrettanti dolci, niente di elaborato, ma molto gustosi e ben presentati. L'esiguità del personale limita il numero dei clienti ammessi, se ci sono solo due persone entrate pure, se ce n'è una a un tavolo più un gruppo di dieci seduto un po' più in là lasciate perdere perché vi manda via, anche se gli altri tavoli sono tutti liberi.

LE RELAIS GASCON: Le insalate giganti piene di roba non sono un piatto che ordino spesso, in genere ti riempiono subito ma dopo un quarto d'ora hai più fame di prima, ma in questo ristorante specializzato in cucina del sud-ovest ne preparano certe veramente sostanziose, traboccanti di ingredienti e coperte da uno strato di patatine fritte tagliate à la Lucilla (a rondelle invece che a bastoncino). Se non amate la verdura potete provare uno dei numerosi piatti di carne, non so dirvi, ma a vederli passare sembravano ottimi.

IMPORTANTISSIMO! Non ordinate il gateau basque!

Può capitare che vi venga voglia di assaggiare quello che ritenete essere un dolce tipico della cucina basca, non ne sapete nulla e avete già mangiato parecchio, ma la curiosità è più grande dello stomaco. Può capitare che mentre aspettate vediate passare dolci carichi di panna montata, quelle fettazze che quando ti scendono nell'esofago sono letali come slavine, e vi sentiate male all'idea di doverne affrontare una.
Può capitare, però, che la cameriera vi metta davanti un dolce composto solo da fette di mela cotta, e che la sua vista vi rincuori e lo attacchiate subito con vigorose cucchiaiate.
A questo punto può capitare che l'altro cameriere, quello indiano, si accorga che vi è stata servita la tarte tatin al posto del dolce basco, e cerchi di rimediare togliendovi il piatto da sotto, ma il gateau basque è una di quelle cose micidiali di prima, e non volete mica morire in un ristorante parigino, e poi avete già cominciato a mangiarlo e giurate al cameriere che va benissimo così.

Il cameriere, come detto, è indiano, ma in lui batte un cuore indipendentista, e accoglie il vostro rifiuto come un'oltraggio alla causa dei suoi fratelli baschi.
Oltretutto la tarte tatin costa 50 centesimi più dell'altra, stai a vedere che la differenza ce la deve mettere lui.
L'incidente diplomatico è evitato quando accettate di pagare voi il sovrapprezzo, ma ormai vi siete fatti un nemico in sala: vi butta davanti il conto senza chiedervi se vi vada un caffè, e dopo aver preso i soldi quasi il resto ve lo tira addosso.
Per fortuna dopo il dolce non vi rimane che uscire, se foste stati al primo rischiavate di farvi sputare nel piatto per tutta la cena.

LES DEUX MOULINS: Questo bistrot in Rue Lepic è meta di pellegrinaggio dall'uscita del film Il Meraviglioso Mondo Di Amèlie, girato in buona parte lì dentro, ma nonostante l'afflusso continuo di persone un posto a sedere si trova sempre.
La cucina è sufficiente, niente di memorabile, il cameriere è distratto e sbaglia quasi tutte le ordinazioni.

La vera delusione però è la crème brulèe, che traccia un solco profondo fra l'illusione della pellicola e la brutalità della realtà. Per appassionati.

E qui le foto:
 

Paris 2011