Sarà che a noi i posti affollati non piacciono granché, o che la luce del Portogallo rende tutto più gradevole, fatto sta che ci siamo messi via due soldini e siamo partiti per un fine settimana nella città più portoghese di tutto il Portogallo, Porto.

Non era la prima volta, già due anni fa passammo una splendida settimana in giro per le strade ripide del suo centro storico, fra il lungofiume della Ribeira e i profumi del Mercado do Bolhão.

Il bagaglio è composto da due trolley, uno di abiti e roba che normalmente ci si porta in viaggio, l’altro contenente aggeggi elettronici e un asciugamano che non si sa mai, come insegna Douglas Adams. Chi dovesse fregarmelo si guadagnerebbe l’equivalente di uno stipendio. Alla Malpensa ci comunicano che dovrà essere caricato nella stiva, perché l’aereo è piccolissimo, tipo un apino con le ali, e il pilota ha già dovuto lasciare a terra il suo secondo per mettersi in cabina la valigia di una signora di Parma. Considerato che non ci penso neanche a mettere un computer, due macchine fotografiche e un lettore mp3 nelle mani dei portabagagli di Milano, finisco per tenere tutto in mano e lascio nella stiva un trolley vuoto. L’asciugamano me lo lego in testa tipo turbante.

L’apino con le ali della Tap Portugal

L’aereo è veramente minuscolo, trentasette posti a sedere, ma è comodo e non ti fanno le menate per il bagaglio a mano, come per esempio un’altra compagnia a caso con un’arpa disegnata sulla coda. E se proprio devo dirla tutta non ti rompono neanche il cazzo ogni cinque minuti per tutto il viaggio con annunci per comprare qualunque cosa,  dai grattaevinci (ma ti pare, i grattaevinci sull’aereo, e allora perché non mi metti anche due slotmachine al posto dei cessi) ai peluscini a forma di aereo con l’arpa disegnata sulla coda, ai biglietti del treno per Catanzaro.

Delle due hostess di bordo una sembra il cavallo di Guernica su cui un vandalo abbia disegnato un rossetto viola con un pennello cinghiale; ha questa macchia viola intorno alla bocca che le conferisce un aspetto da carnefice pop, e quando ti chiede se vuoi qualcosa da mangiare non puoi fare a meno di pensare a Warhol, o a Dalì; l’altra hostess è carina, ma ha uno scazzo cosmico, si vede che nella precedente occupazione faceva la cameriera.

Quando ci mostra le vie d’uscita lo fa di fretta, come se la cosa non la riguardasse e fosse solo lì a sostituire un’amica che è andata un momento in bagno. Il messaggio che trasmette non è “prestami attenzione se ti preme la vita”, è più “mi hanno detto che dovrebbe esserci un’uscita anche da quella parte”. In realtà non gliene frega niente, è stanca di vivere e ci odia tutti; probabilmente sta meditando di sabotare uno dei prossimi voli e schiantarsi sui Pirenei.

Sui voli Tap si mangia bene, il pranzo a bordo consiste di una ciotola di riso con pollo e pancetta, un panino, una porzione di burro salato e mezza mela a pezzetti, più una bevanda a scelta. Grazie al coraggioso sacrificio della mia amorevole fidanzata riesco a barattare un’altra porzione di riso con qualche pezzetto di mela, e innaffio tutto con una lattina di sagres. Avevo espresso il desiderio di celebrare il mio compleanno bevendone una, ma questa non vale, dal finestrino non si vede il Douro.

Dal finestrino non si vede niente, per la verità, giusto un po’ di azzurro in alto se strizzi gli occhi.

Poi all’improvviso le nuvole si diradano e sotto c’è il Portogallo. Scendiamo rapidi e riconosciamo i primi ponti, la Ribeira, il Dom Luis I. È un’emozione che francamente non mi aspettavo. Sono felicissimo di essere di nuovo qui.

Il meglio di Porto al finestrino: la Ribeira, la Sè, il ponte.

Atterriamo, recuperiamo il bagaglio in un momento e usciamo a prendere un taxi. L’aeroporto è piccolo e quasi deserto, perlomeno quando arriviamo noi. Il taxi è già lì che ci aspetta, gli spiego l’indirizzo e si parte. La periferia è squallida come tutte le periferie del mondo, ma già a Trindade si capisce che sta per succedere qualcosa. Girato l’angolo ci troviamo giù per la piazza di Aliados e i miei compagni di viaggio non trattengono un gemito di gioia. Io sono quasi commosso. È pazzesco quanto questa città mi sia rimasta nel cuore, davvero.

Davanti all’ostello ci congiungiamo agli altri due membri del gruppo, arrivati in mattinata, Paola e Antonio; sbrighiamo le formalità di reception e molliamo i bagagli. La camera è un buco di merda peggio di quella di Lisbona, ma dal terrazzino ti affacci su Rua das Flores, che è un bel vedere, con le sue case ricoperte di piastrelle. E poi sono solo due notti, chi se ne frega! Il tempo di posare le valigie e siamo di nuovo per strada ad affrontare la prima di innumerevoli salite.

Prima tappa alla Livraria Lello, che conosciamo per avere visto le foto su internet: è tutta di legno, un capolavoro di liberty, con una vetrata sul soffitto che noti solo se alzi gli occhi e poi ti chiedi perché non l’hai notata prima, e gli scaffali decorati e pieni di libri antichi, ma soprattutto una scala pazzesca che sale fino a metà, si raddoppia, torna indietro, si riunisce e risale, coi gradini arrotondati colorati di rosso, come un ruscello che venga giù da chissà dove in mezzo al negozio. Le foto sono proibite, e quasi è un sollievo, che non mi sento in grado di fermare tanta meraviglia nello spazio limitato di una cornice. Per compensare ciò che non potrò portarmi via tocco tutto, i corrimano, la balaustra, il corpo sinuoso della scala, ma non basta mica. Dovrei comprarmi un libro fotografico dedicato al negozio, solo che costano una fortuna, un semplice segnalibro te lo danno per due euri e mezzo, capace che per una pubblicazione di venti pagine ti partano quindici venti euri come niente. Senti Lello, hai un bel negozio, ma sei un avido, vaffanculo.

Dopo la cultura è il momento di riempirsi la pancia: il bar panificio pasticceria davanti alla Igreja dos Clerigos è ricolmo di meraviglie proprio come lo ricordavo. Due pasteis de nata e un bicchiere di succo d’arancia per me, quattro frittelline di carne per la fidanzata, una roba gigantesca e inquietante per gli ultimi aggregati, che sinceramente non so dove trovino il coraggio di mangiarla, io neanche ci avvicinerei le mani a una roba così, metti che mi morde.

È sufficiente un’immagine per convincere la BCE a cancellare il debito portoghese? In questo caso credo di si.

Ormai tra l’arrivo, la sosta in ostello e quel minimo di nutrimento non è più ora di fare i turisti, la giornata è praticamente agli sgoccioli, e poi Porto l’abbiamo già girata tutta nella visita precedente; molto meglio, perciò, dedicarsi subito allo shopping, e mi ricordo che c’era un bel negozietto appena fuori dal Mercado do Bolhao dove due anni fa comprammo la nostra bottiglia di porto.

C’è ancora, si chiama Comer E Chorar Por Mais, che è un modo di dire portoghese che sono sicuro che saprete tradurre anche da soli (me lo auguro, almeno, che io non ne sono capace). È un negozio fondato addirittura nel 1912, ma nel frattempo ha cambiato proprietario, e quello che ci offre assaggi di tutto quello che c’è in vendita non è una riproduzione locale della mummia di Tutankhamon, ma un simpatico signore sui sessanta. Cerchiamo di ripagare la sua gentilezza uscendo con una borsa di salami e formaggi da nutrirci per qualche mese, ma ci ho lasciato le pere secche, ne soffro un po’.

Ultima meta la Ribeira, che poi è la ragione principale per cui siamo tornati a Porto. Non esiste una sensazione altrettanto magica di guardare la zona del lungofiume dalla sponda di Gaia, con quelle case colorate ammassate una sull’altra e il ponte come un mostro di metallo pronto a mangiarsele.

Vabbè, si, quando ti portano il conto mentre stai riverso sul tavolo del ristorante a cercare di digerire la quantità spaventosa di pesce che ti sei cacciato in bocca, e scopri che hai speso poco più di dieci euri provi qualcosa che ci si avvicina molto.

Però è qui che desideravo bermi la mia sagres, seduto al tavolino di un baretto sovrastante il lungofiume, a guardare le barche, e il ponte, e Gaia dall’altra parte del fiume, e la gente che passeggia sotto di me, e ancora il ponte, e Gaia, ammazza se è brutta Gaia, e il ponte, che belin, è proprio imponente, e il cameriere che si fa i cazzi suoi e io intanto vorrei un’altra birra.
Non ci andiamo adesso a bere la sagres, che è quasi ora di cena: stiamo un po’ a ciondolare davanti al Douro, poi attraversiamo il ponte giusto in tempo per goderci il tramonto sulla città vecchia, e andiamo a cena da Casa Adao.

Il proprietario è un signore piccoletto con dei grossi occhiali e il fare un po’ burbero, molto disponibile e piuttosto divertente quando si mette a insegnare a Marzia la pronuncia corretta di não, per dire no invece di nave. Dopo averci servito un polpo grigliato da sfamarci una portaerei ci annega nella ginja e poi torna un’altra volta a servirci le ciliegie sciroppate da mangiarci insieme, solo che fa casino e le rovescia tutte addosso a Paola.

Usciamo gonfi come bibini, ma la notte è giovane, c’è ancora tempo per un caipirão, il liquore tipico portoghese, ci spiega il cameriere, e c’è da chiedersi come abbia fatto un popolo capace di eleggere a bevanda nazionale una roba che sa di fluimucil a non essersi ancora estinto.

(continua e finisce nel prossimo numero, come Martin Mystère)

18/08/2010 Colazioni
Mi risvegliai di soprassalto con qualcosa che mi stava sbattendo sulla faccia, ma non era l’ascia di un albergatore portoghese pazzo, era un raggio di sole infilatosi di soppiatto fra le tende. Eravamo sopravvissuti, l’ostello non aveva davvero niente di negativo. Accanto a me Marzia dormiva ancora, se c’erano dei criminali assetati di sangue in giro per i corridoi avevano risparmiato anche lei. Forse pensandoci meglio qualcosa di negativo quel posto ce l’aveva..

C’era qualcosa di strano in me quella mattina, ma non mi riusciva di capire cosa fosse. In bagno mi scrutai a lungo nello specchio, senza trovare nulla di diverso, tuttalpiù qualche nuovo capello bianco, un po’ di stanchezza negli occhi forse. Eppure..

La hall della colazione era accogliente come la sera prima, facce assonnate ci salutarono in diverse lingue, tranne le due ancora impegnate a limonare. Ma non avevano ancora smesso? Mi riempii la tazza di latte e fiocchi d’avena, un bicchiere di spremuta d’arancia e misi due fette di pane a tostare, quindi mi rivolsi alla mia compagna:

Non per canzonarti, ma stanotte hai emesso uno squassante e forte peto, mi sono risvegliato di soprassalto!”
A parte che non ti ho svegliato io, ma un raggio di sole infilatosi di soppiatto fra le tende, lo hai scritto tu nella seconda riga, stamattina non ti sei lavato la faccia, vero? Hai una prosa da romanzo. Brutto, peraltro. Fila a lavarti la faccia!”

E così feci.

Poi sono tornato e abbiamo fatto colazione, terminata la quale ci siamo gettati a capofitto nelle meraviglie cittadine.

Appena varcata la soglia dell’ostello, svoltando a sinistra, si finisce in Avenida Dos Aliados, un viale in salita che col suo gemello di fronte che poi è sempre lui ma in discesa, racchiude il centro cittadino, una piazza lunga chiamata Praça Da Liberdade. In cima c’è il municipio con la sua torre a punta in mezzo alla facciata, in fondo una colonna con sopra Dom Pedro IV a cavallo.

Un sacco di begli edifici si affacciano su questa piazza, quasi tutti famosi: così al volo riconosco il Palazzo dei Papi, la Basilica di San Marco, il Partenone e il mausoleo di Lenin. La Tour Eiffel è in stato di abbandono, ed è un vero peccato, però dentro il Deposito di Zio Paperone ci hanno aperto un Mecdonalz. All’improvviso il destino della Tour Eiffel mi sembra meno drammatico.

In fondo alla piazza, ignorato dai passanti, un venditore di giornali fuso nel ferro non conosce orari, maltempo e festività e ogni giorno lo trovi lì appoggiato alla cassetta delle lettere, con la bocca spalancata e il quotidiano davanti. Sbircio il giornale, ma non lo compro, è vecchio di parecchi anni.

Andiamo a fare la seconda colazione in una grossa pasteleria sulla salita che conduce alla Igreja de los Clerigos, e qui ci sarebbe da dire un paio di cose su questi panifici portoghesi, che entri per comprarti due rosette e rimani basito di fronte a una quantità di dolci da far ingrassare anche un fantasma. Ci sono i già citati pasteis de nata, ci sono delle bombe di krapfen uguali ai nostri ma grandi almeno il doppio, con un ripieno di crema pasticciera talmente spesso che all’inizio l’ho scambiato per una fetta di pesca sciroppata; ci sono delle fettazze di torta fatte di panna e canditi, come se avessero incrociato una cassata siciliana con un pandoro Bauli; ci sono delle sfogliate monumentali, delle dimensioni di un guantone da baseball, ci sono anche dolci piccoli, spacciati per miniature degli altri, ma sono grandi come un dolce dei nostri, un po’ come se spacciassero l’IPhone per un IPad nano, chi ci crede?

Come fanno i portoghesi a mangiare così tanti dolci e non subire drastiche metamorfosi del proprio corpo? È inspiegabile..

Due donnone con un culo che sembra scolpito in un autobus mi caracollano incontro dall’alto, con un movimento troppo simile a una slavina perché possa star lì a farmi ipnotizzare dal movimento sussultorio delle loro cicce; mi infilo nella pasteleria e la smetto di farmi certe domande, che poi non apprezzo le risposte.

Prendo un tortino che sotto ha la stessa sfoglia del pastel de nata, ma sopra è ricoperto da una misteriosa sostanza filacciosa appiccicaticcia dolciastra. Bava di Alien caramellata? Non lo so, però non è male. Essendoci anche i tavolini e il bar aggiungo un bicchierone di succo d’arancia e un caffè, mentre Marzia si tiene il suo espressino e piange. Per consolarsi ci mette sei bustine di zucchero, ma si vede che il confronto non regge.

Usciamo prima che si suicidi col cucchiaino, che è di quelli di plastica che quando si rompono fanno le schegge, metti che si tagli, e completiamo la scalata della collina fino all’Igreja De Los Clerigos. Ci giriamo tutto intorno, che l’ingresso è sul lato, e prima di entrare faccio un paio di foto al nostro primo tram portoghese.

Vabbè, ma vedrai che a Lisbona ti toglierai la voglia di foto ai tram!”, mi dice la mia saggia fidanzata. Solo che non c’è molto altro da fotografare, giusto la vetrina di una bottiglieria, poi entriamo.

Cibo per lo spirto
Nell’Igreja de los Clerigos si adora il Signor Morto, che non so se sia la gioiosa statua del Cristo cadavere pieno di ferite sanguinanti che sta vicino alle panche o quel simpatico teschio autentico che mi sorride da dentro all’altare. Non c’è il tabernacolo, forse le ostie gliele infilano in bocca.
Da come se la ghigna non so se ritroveranno il vin santo.

C’è questo rapporto che hanno i portoghesi col dolore.. sembra una parte fondamentale della loro esistenza, la sfoggiano come una medaglia. Se dovessi arrampicarmi tutti i giorni in corda doppia per tornare a casa e rischiassi di morire ogni volta che piove e ho finito il sale, probabilmente vivrei il mio rapporto con la sofferenza nella stessa maniera, ma a vederlo dall’esterno è una cosa quasi esagerata. Nella religione, poi, ci vanno giù belli pesanti. Sensi di colpa, cadaveri esposti, ossari ad ogni angolo, la nostra guida trabocca sangue più del Necronomicon. Poi per forza impari a conviverci, io me l’immagino la mamma, dopo la messa, passare davanti all’altare e dire al figlioletto: “Mariolino saluta il Signor Morto, che andiamo!”.

Dopo la chiesa saliamo in cima alla torre per le foto panoramiche, e quando torno giù mi sono perso la fidanzata. Penso subito al peggio, ma quando torno indietro a controllare non c’è nessuno a litigare col prete seduto alla cassa.

Dopo un po’ la vedo arrivare placida, mi dice che aveva capito “foto segnaletiche”, così si è fermata al piano ammezzato a sputare ai passanti finché non è arrivato un gendarme ad arrestarla. Torna or ora dalla stazione di polizia, mi dice fiera, mostrandomi le foto di profilo.

Dal sagrato della chiesa, svoltando a sinistra rispetto alla strada per cui siamo arrivati, capitiamo davanti al Palazzo delle Esposizioni, in realtà non sono sicuro che si chiami Palazzo delle Esposizioni, forse è un nome che mi sto inventando ora, ma quando ci siamo arrivati davanti c’erano in effetti delle esposizioni di fotografia, quindi direi che come nome va bene. Domani scrivo al Comune di Porto perché provvedano a sostituire l’insegna.

C’è una mostra fotografica che Marzia giudica interessante: Immagini della Resistenza Portoghese dal 1891 al 1974. Io non sono convinto, una mostra sull’evoluzione del materiale elettrico nella Penisola Iberica mi sembra una noia mortale. Le suggerisco di tenercela per un giorno di pioggia, che è come dire aspettiamo il prossimo terremoto, e andiamo via.

Scendendo nuovamente verso il Douro c’è una chiesa che da fuori sembra fighissima, potrebbe essere quella che la guida definisce “un capolavoro dell’arte barocca, una roba da non sapere dove posare lo sguardo a meno che non ci sia una devota con una camicetta scollata inginocchiata su una panca, accaldata dal fervore mistico, il tessuto incollato alle sue forme generose”, ma la guida è nello zaino, lo zaino è sulle spalle, si fa prima ad entrare noi dentro che a tirare lei fuori.

Per entrare si paga, come nella chiesa precedente. Se là ho rischiato di vedere Marzia azzannare il sacrestano qui potrebbe succedere di peggio. Le impongo di rimettere i sampietrini nel selciato.

A parte un paio di azulejos e dei grossi lampadari la chiesa è di uno squallore inverecondo. Quando usciamo ci regalano anche una busta contenente delle bellissime cartoline di santi, c’è la Madonna Del Motorino Che Non Parte, quella al mare e anche il preziosissimo Cristo Della Gamba Di Tavolino Sull’Alluce Quando Ti Alzi Di Notte Che Hai Sete.

Mi porto via un crocefisso di legno, più perché Marzia me lo pianta nella schiena che per reale interesse, e scendiamo in strada per risalire un’altra volta verso la , la cattedrale della città, che è da ieri che la vediamo lassù e non siamo ancora saliti a scoprirne le meraviglie.

Un’altra chiesa? Ma cosa c’hai nella testa? Io lì dentro non ci vengo!”
Ma è la Sé, la cattedrale della città! Che è da ieri che la vediamo lassù e non siamo ancora saliti a scoprirne le meraviglie!”
Per me può anche tenersele le sue meraviglie, io altri soldi al clero non glieli do!”
Vabbè, senti, facciamo che arriviamo su e ci limitiamo a guardarla da fuori, va bene?”
E non entriamo?”
No, la guardiamo un po’ dall’esterno e poi andiamo a pranzo.”
Sicuro? Non è che poi ti viene voglia di vedere il chiostro..”
Solo l’esterno, giuro.”
Ochei, andiamo.”

La cattedrale è in cima a un quartiere che sembra più vecchio degli altri, sebbene altrettanto decadente. Ci sono delle terrazze panoramiche molto gradevoli, da una vediamo un lavatoio pubblico con due donne che chiacchierano, e Marzia si fa prendere dalla nostalgia. Si vede che stare tanto tempo senza fare una lavatrice l’ha scossa. Cercherò di venirle incontro sporcando più vestiti possibile.

Ma no, cretino, pensavo ai lavatoi che c’erano quando era ragazza mia nonna!”
Ehi, non puoi ritrattare adesso! Io ormai mi sono macchiato la maglietta!”
Coosa? Qui? Ora? E con cosa l’hai macchiata, se eri in piedi vicino a me e non hai niente in mano!”
Tsk tsk, noi sporcatori professionisti non abbiamo bisogno di agenti esterni per macchiarci gli abiti, quelli li lasciamo ai dilettanti!”
Cazzi tuoi, te la tieni macchiata per il resto della vacanza, io lavatrici non ne faccio!”

In cima alla collina la cattedrale è imponente, ma dentro non c’è granché, giusto una signora che ti chiede soldi per visitare il chiostro e un gruppo di italiani che celebrano messa col parroco che officia nella nostra lingua troppo bene per non essere un connazionale. Si vede che per i parroci funziona un po’ come per il caffè, se non ti fidi di quello locale ti porti appresso il tuo. Marzia mi tira via di peso e torniamo fuori, davanti a una specie di colonna tutta arabescata, che qualcuno dice essere l’antica gogna. Non lo so, io con la Gogna ci andavo a scuola alle medie e non era così piena di roba manuelina.

Torniamo giù per un altro vicolo e finiamo dritti in mezzo a Marciopoli, una piazzetta stracolma di tossici, sugli scalini delle case, sui muretti, in equilibrio precario in mezzo al passaggio, stesi per terra coi cani. Ci sono tutte le categorie che ho imparato a riconoscere, dai fumati con un po’ di scazzo agli isterici in coca, dai pancabbestia col cane borchiato agli eroinomani che si grattano la faccia. È come Pufflandia, solo che i funghi se li sono calati loro quando hanno finito il crack. Stanno aspettando qualcuno che evidentemente non siamo noi, visto che ci lasciano passare senza degnarci di uno sguardo. Probabilmente sarà Gargamella con le dosi, vai a sapere.

Cibo cibo
Torniamo sulla Ribeira, che tanto sempre lì finisci, e andiamo a mangiare da Filha Da Mae Preta, un posto suggerito anche dalla Santa Guida, che nei ristoranti ci acchiappa sempre. Lo troviamo per caso esplorando un vicolo dove non eravamo mai passati, è un buco di quelli che piacciono a noi, con tre tavolini di plastica fuori, perché dentro non ci sta neanche uno sgabello.

Scopriremo poi che il ristorante indicato dalla guida non è quello, ma la sua versione spendacciona sul lungofiume, traboccante di turisti e coi prezzi ritoccati verso l’alto; noi evidentemente siamo finiti nell’hard discount.
Il cameriere è lo stesso per entrambi i locali, e deve farsi un culo non indifferente. Somiglia a Cristiano Ronaldo, solo un po’ meno buliccio.

Mangiamo bacalhau à moda de Braga lei e polvo con molho verde io.
Il primo è un pasticcio di baccalà, pomodori, peperoni, olive, gatti randagi e un copertone di Lada Niva parecchio consunto, tutto adagiato su un letto di patatine fritte tagliate a rondelle. Marzia emette un sospiro come di chi è chiamato a sostenere una prova difficile, io uno simile, ma come di chi ha capito di avere ordinato il piatto sbagliato. Il mio è un po’ meno monumentale, polpo al prezzemolo annegato nell’aceto finché non ha rivelato il nascondiglio del bottino. E a me l’aceto neanche piace. Lo mangio perché è comunque molto buono, ma non sono soddisfatto, e annego i dispiaceri in una bottiglia di vinho verde Boca De Sapo, più buono di quello servito al mercato. Marzia si cala anche una birra, che qui non hanno la Super Bock, ma la sua diretta concorrente, la Sagres, un po’ più dolce.

Per non farci mancare niente ci facciamo anche un giro di porto Offley, e alla fine siamo da dito puntato tutti e due.

Lo puntiamo sugli invitanti prati al di là del fiume, per un’oretta buona ci scordiamo di fare i turisti e collassiamo al venticello fresco di Gaia.