Come sempre la mia vita è un’altalena continua fra la più depressa routine e un’attività tanto frenetica da sfiorare il disturbo psichico. Trascorro settimane senza scrivere una riga, perché non c’è una sola riga da riempire col racconto delle mie giornate, e di colpo ne devo dire tante che non so da dove cominciare.

Parlo di quel calcio che col calcio ha sempre meno a che vedere? Ne avrei da raccontare, dai tre punti che ci hanno finalmente tolto, alla vittoria straordinaria col Monza, all’altrettanto straordinaria sconfitta con la Sambenedettese che ci porta diretti a giocarci la promozione nei play off. Potrei infierire sulla dignità di certi giocatori, che qui non si parla di condizione fisica o di qualità tecniche, ma solo della dignità richiesta per indossare una maglia così importante, e di come sia triste, per non dire meschino, centellinare il proprio impegno in campo a seconda dei casi. Ma non vado oltre, che davvero non ne vale la pena. Spero di vederli tutti indagati, prima o poi.

O racconto delle vacanze di Pasqua, dei pranzi sui monti, delle abbuffate con gli amici, delle foto propagandistiche dell’Ejercito Cadigattista, della mia personale Marcia Su Roma?

Facciamo così, vi racconto una storia che parla di treni. Comincia un venerdì pomeriggio, dalla stazione di Genova Brignole, quando due ragazzi con una borsa trovano il loro posto in uno scompartimento dell’intercity Torino-Salerno. Inutile descrivere i due ragazzi, siamo naturalmente il Subcomandante Marzia ed io, ma posso parlare degli altri personaggi che popolano lo scompartimento: tre di essi sono avvocati, lo deduco dai loro discorsi. Stanno andando all’Isola D’Elba per una vacanza, ma non riescono a sganciarsi del tutto dalla propria occupazione, e fino a Livorno li sentiamo parlare di giurie, procedure, cavilli che alzano polvere solo a parlarne. Poi c’è una signora silenziosa, di cui non si può dire nulla, tanto è stata accurata nel non lasciare ricordi di sé. Sta seduta nel suo angolo, con un giornale anonimo davanti, non guarda nessuno, non parla a nessuno, aspetta la sua fermata con muta rassegnazione.

(Muta rassegnazione è un termine un po’ abusato, lo so, ma non sono uno scrittore, mi limito a pigiare sui tasti, e la differenza si vede. La prossima volta scriverò gelido inverno, e potrete insultarmi)

Lo scompartimento è freddo, o così sembra a noi, che siamo seduti davanti alle bocchette dell’aria condizionata, e indossiamo il minimo indispensabile per non essere denunciati per oltraggio al pudore. Come già raccontato la scorsa estate esiste una bizzarra regolamentazione riguardo all’aria condizionata sugli intercity, che ci obbliga a congelare. Potrei chedere delucidazione ai tre legulei, ma non si curano né di noi né della temperatura, sono tutti presi da “La Settimana Giuristica”, il giornale di giochi ed enigmi per laureati in giurisprudenza che uno di essi ha estratto dalla valigia. Stanno discutendo sul 13 orizzontale, “Lo dice chi rifiuta di rispondere all’interrogatorio”. La signora all’angolo non parla, non respira, forse è impagliata, forse già in avanzato stato di ibernazione, chissà.

Quando siamo dalle parti della Zona Tumultuosa, un luogo non meglio identificato fra Livorno e il Burkina Faso, decido che il supplemento intercity non è abbastanza economico per farmi accettare una bronchite senza lottare, e vado a spegnere l’aria condizionata.

Le mie straordinarie doti narrative avranno a questo punto acceso un grosso punto interrogativo nella testa di ognuno di voi cari lettori, e sono certo che vi starete domandando come fa un riconosciuto incapace come me a saper disattivare l’aria condizionata su un intercity, azione che richiede straordinaria abilità scassinatoria per aprire la serratura a brugola del pannello degli interruttori, eccezionale capacità mimetica per non farsi beccare dal controllore, elevata concentrazione per non scambiare il simbolo del refrigeratore con quello dell’autodistruzione. Io non so neanche vincere a bimbumbà perché mi do regolarmente dei pugni in faccia, non riesco a coordinarmi neanche per mettermi le dita nel naso, e cosa ne posso sapere di disattivare l’aria condizionata di un intercity, materia d’esame delle spie GLG-20, quelle impiegate per recuperare le testate nucleari sulla strada per Duschambe.

Ricordate quello che vi avevo raccontato lo scorso agosto, delle mie vacanze in Sicilia? Se siete di quelli che capitano qui cercando Brigata Speloncia, sicuramente no, ma gli altri forse rammentano delle mie disavventure con l’aria condizionata sui treni. Ebbene, nel viaggio di ritorno si presentò lo stesso problema, e già stavamo accendendo un falò nello scompartimento, quando un intraprendente professore palermitano, uno che sembrava più un rapinatore di diligenze che un insegnante di storia dell’arte, mi introdusse ai segreti del chiavistello.

(“Mi introdusse ai segreti del chiavistello” starebbe benissimo in un racconto erotico, se qualcuno volesse scriverne uno sarò lieto di cedergli il copyright)

Mi raccontò della scuola della strada che ebbe a imparare nel suo quartiere malfamato, di quando un giorno si e uno anche gli entravano i ladri in casa, e dopo aver rubato tutto il rubabile presero a sfotterlo cambiandogli la serratura mentre era fuori. Venni a sapere delle difficoltà a farsi allacciare abusivamente acqua, gas, elettricità e tv via cavo, tanto che fu costretto a farlo da sé, e di come tutte queste esperienze l’avessero reso un Arsenio Lupin de noatri.
Ascoltavo il mio mentore e assorbivo tutte quelle nozioni che sapevo un giorno mi sarebbero tornate utili. Lo accompagnai al pannello elettrico e studiai minuziosamente i rapidi movimenti con cui vinse la resistenza della diabolica brugola, imparai la sottile differenza fra il simbolo dell’aria condizionata e quello della dispersione di sostanze tossiche all’interno del vagone, compresi i movimenti ciclici dei controllori di tutta la rete trenitalia, sempre gli stessi, e di come sia possibile rivolgerli a proprio vantaggio per tutta una serie di portogheserie.

Ecco perché venerdì pomeriggio non sono schiattato di freddo, e ho potuto raggiungere la stazione di Roma Termini in tenuta estiva e non vestito come un inuit, acclamato dai miei compagni di viaggio come si conviene a un salvatore, braccato dalle forze dell’ordine su rotaia come il più accanito dei rivoluzionari, osservato con sospetto dall’ambigua categoria dei cuccettisti, che non si sa bene da che parte stiano.

Nel viaggio di ritorno non c’è stato bisogno di ricorrere all’antica arte della manomissione, i nostri posti erano verso il corridoio, non risentivamo del nefasto effetto del condizionatore.
In compenso siamo stati torturati per cinque ore da un altoparlante da concerto rock, che ci ricordava a ogni fermata che stavamo arrivando a destinazione con cinque minuti di ritardo, che la coincidenza con Trondidio arriverà e partirà dal binario 47 anziché 2, che l’intercity per Milano sta messo peggio di noi perché è dietro e non lo facciamo passare così impara haha.
Purtroppo il mio insegnante di illecitudini mi spiegò solo come disattivare l’aria condizionata, per preservarmi i timpani non ho potuto fare altro che infilarmi un giornale arrotolato nelle orecchie.

“Ho visto che il 18 settembre c’è la Notte Bianca a Roma, ci andiamo?”, mi propone Lorenzo da una panchina dei giardinetti di Busalla, mentre intorno a noi risuonano le note dell’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri. Sono i festeggiamenti del Nome di Maria, ogni anno la seconda settimana di settembre i Busallesi si interrogano su quale possa mai essere il nome di Maria, forse Giovanna? Forse Lucrezia? E mentre se lo chiedono fanno festa, che per i Busallesi sedersi a un tavolo e pensare è noioso, molto meglio scendere in strada e far cagnara.

“Non so”, gli rispondo. “Sono senza soldi, sennò stasera invece che al Nome di Maria me ne andavo al Nome di un locale qualsiasi di Genova e mi prendevo la vecchia ciucca del venerdì sera, che è un’abitudine che ho un po’ perso.”

“Se fossi andato al Nome di un altro locale di Genova non avresti incontrato noi e avresti perso questa fantastica opportunità di andare a Roma alla Notte Bianca sabato prossimo!”, mi risponde Pino.

Pino è un amico di Lorenzo, il mio amico Lentese che ho incontrato ieri sera a Busalla. Ci conosciamo da poco anche con lui, non è un tipo cattivo, dice che se conoscessi sua zia cambierei idea.

“Sai cos’è? Che la Notte Bianca mi piace poco, ho delle esperienze strane riguardo quella notte lì, non è che mi vada tanto di parteciparvi”.

“Racconta”, mi dice Pino, “Racconta”, mi dice anche Lorenzo. Racconto.

L’anno scorso si tenne per la prima volta a Roma la Notte Bianca, spettacoli, negozi, musei aperti tutta la notte, mezzi pubblici a profusione, una grande iniziativa da non perdere. Solo che Roma non è Ronco, o Lento, che se fanno spettacoli tutta la notte e tengono aperti i negozi le strade si riempiono di un migliaio di persone e c’è vita e son tutti contenti e incontri gli amici e andate a bere e ci si passa tutti una bella serata. A Roma se fai una cosa così intasi la città, soprattutto se poi si mette a piovere, e soprattutto se da qualche parte un albero cade sull’unico traliccio che rifornisce tutta la penisola, e l’intero Paese resta al buio.

Io quella notte ero al Milk, che inaugurava la stagione, e mi stavo divertendo un casino. Era un periodo strano quello, avevo da poco ripreso i contatti con una ragazza, stavamo cercando di riprendere un certo discorso, era molto delicato, e proprio in quei giorni lì era andata a Roma per lavoro, e non l’avevo più sentita. Era viva? Era morta? Chissà.

“Non vi sto a raccontare tutto il preambolo sennò arriviamo a domenica e ci perdiamo i fuochi, che sarebbe anche una bella cosa, visto che i fuochi di Busalla fanno pena”, dico loro, e proseguo col mio racconto. Lorenzo e Pino sono interessati, la panchina è confortevole, l’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri attacca il suo cavallo di battaglia, La Cesarina, e i vecchietti fan la ola.

Stavo ballando su un vecchio pezzo di Iggy Pop quando accadde. La musica si fermò di colpo, e il locale si illuminò delle luci sinistre dei riflettori di emergenza. “Già finita la serata?”, si chiedeva Andrea, “Già saltato l’impianto?”, mi chiedevo io, “Che chiusure di merda, era meglio il digei dell’anno scorso!”, borbottava un habitué del locale.

Visto che la musica non accennava a ripartire dichiarammo chiusa la serata Milk e uscimmo in cerca di nuove avventure, e fu allora che si potè avere chiara l’entità dei danni. Tutta la città era al buio, gli amplificatori del Milk avevano mandato in corto l’impianto elettrico dell’intera Genova.

“Ma no, è Pericu che non ha pagato la bolletta!”, mi spiegò Andrea, sempre più informato di me su queste cose cittadine.

Poco più tardi, seduti su un muretto a guardare uno dei più bei cieli stellati che mi ricordi, riflettevamo sui grandi misteri della vita.

“La morte e l’aldilà?”, mi chiede Lorenzo. “La figa”, gli risponde Pino che ha già capito.

“Niente, non c’è molto altro da raccontare, la luce è tornata il giorno dopo, la ragazza in questione ancora dopo, il Milk ha ripreso a funzionare regolarmente..”

“E con la ragazza com’è andata a finire?”, mi chiede Pino.

“E’ andata a finire”, gli rispondo. “Probabilmente il giro di boa l’abbiamo fatto chissà quando, magari in una parola detta al telefono, uno di quei momenti che passano del tutto inosservati, ma mi piace credere che sia stata quella sera lì, la sera del black out, ad avere spento la luce su noi due. Da lì in avanti stavamo già scrivendo un’altra pagina, eravamo già i protagonisti di due racconti diversi”.

“Sei bravo a raccontare le storie”, mi dice Lorenzo. “Dammi un altro bicchiere di sangria e vedi cosa ti invento!”, gli rispondo, e abbandoniamo la panchina per tornare al bar del Diplodoco, mentre dietro di noi, l’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri attacca la Polka della Gigia.

Era così giunto il venerdì, e con esso la fine degli obblighi settimanali di Don Pablotte verso i suoi orribili datori di lavoro.

Per prima cosa, appena giunse a casa, il nobile cavaliere provvide a un’accurata toletta della sua persona, per liberarsi d’ogni residuo di impurità della pelle e dell’animo.

Come sempre accade quando un corpo è immerso in un liquido, fin dai tempi in cui Archimede ne studiò cause ed effetti, e fors’anche da qualche giorno prima, ma non tanti, che mi ricordo era andato a trovarlo suo zio sarà stato martedì mercoledì al massimo e gli aveva portato una frittata di zucchine dell’orto dietro casa, suonò il telefono.

L’audace protagonista di questo libro e anche del prossimo e se Feltrinelli me li pubblica gliene scrivo minimo altri cinque, non si perse d’animo, e come un sol uomo qual era ma più grosso sennò non si capisce il paragone, balzò fuori dal bagno e afferrò la cornetta mentre stava esalando l’ultimo squillo, si capiva che era l’ultimo perché finiva col punto invece che con la virgola.

“Pronto”, pronunciò il prode protagonista della presente.

Un gelido alito di morte si alzò dall’apparecchio, e una voce gorgogliò dall’oltretomba:

“Ciao, sono Francesco, sono a Ronco, ci sei stasera?”

era Francesco, era a Ronco, gli chiedeva se c’era stasera.

Era costui un amico del nostro eroe, fedele compagno nelle più improbabili avventure, come quando avevano battuto a scacchi l’Uomo Supplì nella Terra degli Svaccopelisti, o avevano comprato Playboy in greco attratti dalle giunoniche forme della modella in copertina ed erano rimasti fregati perché anche le foto erano in greco e non si capiva più quali erano le tette.

Alcuni anni prima del tempo in cui si svolgevano le avventure ivi narrate, il tetro Francesco si era trasferito a Roma, dove aveva commesso villania con una ragazza del luogo ed era stato costretto dai genitori di lei a un matrimonio riparatore. Da allora le avventure insieme si erano diradate, ma era in programma un’ultima memorabile impresa, le loro gesta sarebbero state ricordate in eterno e i nomi dei due eroi incisi per sempre negli albi della Storia, o almeno si sperava non in quelli della Questura.

Quella sera si sarebbero discussi i dettagli del fantastico viaggio, tipo la spesa la facciamo di nuovo dai tedeschi o stavolta possiamo permetterci qualcosa di più delle solite buste di risotti da un euro?

L’audace Cavaliere Dalla Tirchia Figura acconsentì a incontrare l’amico in serata, si dilungò negli ampollosi rituali di saluto che l’etichetta impone quando ci si rivolge a persone della levatura sociale di Francesco che, non lo abbiamo ancora rivelato, ricopriva il prestigioso e assai invidiato ruolo di Primo Castrato Pontificio, professione che era sempre più difficile mantenere celata alla moglie, che lo credeva impiegato all’INPS e lo torchiava affinché gli facesse il sacro dono di un erede da battezzare con nome cristianissimo et improponibilissimo, e ritornò ciabattando al bagno, il nostro eroe, non Francesco, che era a casa sua con la moglie, capisco che con tutte le subordinate che ho aperto qualcuno dei lettori meno attenti non ci capisca più un cazzo.

A essi consiglio la lettura di un blog più lineare, quello di Rossano Segalerba, che lui è uno studiato che sa scrivere bene e dice un sacco di cose colte.

Per quelli invece che son rimasti a leggere vado avanti, che la cosa si fa interessante.

Era giunto in quel momento in casa il padre di Don Pablotte, Don Giovanni Renzi da Villavieja, il quale, notando come il pavimento fosse disseminato di pozzanghere come se invece di un cane l’animale domestico fosse stata una foca, formulò all’istante due soluzioni per quel bizzarro fenomeno: la prima, che l’appartamento fosse stato svaligiato dall’Uomo di Atlantide, sembrò anche a lui come a noi scarsamente credibile, in quanto detto supereroe erede indiscusso del Batman di Adam West era poco avvezzo al furto, perché a differenza del suo grigio e panciuto predecessore non aveva mantelli o bislacche automobili in cui celare la refurtiva, ma girava esclusivamente in mutande, arrecando notevole imbarazzo alle feste dei vip, dove dopo un po’ smisero di invitarlo, gli preferirono il più brillante Automan, e fu l’inizio del suo declino.

La seconda soluzione che trovò il genitore del nostro fu una perdita alle tubature, e per verificarne la veridicità si dedicò a un’esplorazione della rete idrica domestica.

Nel frattempo il Cavaliere Dall’Irsuta Figura aveva terminato la propria abluzione, e fu con una certa sorpresa che, uscendo dal bagno, si imbattè nel corpo senza testa di un uomo, chino sul pavimento, davanti al lavandino della cucina.

Per maggiore orrore l’inquietante figura agitava le braccia ed emetteva con voce cavernosa parole che non osiamo neppure ricordare figuriamoci poi ripeterle, tanta angoscia provocano nei nostri animi non avvezzi a cotali avventure, che mica cavalieri siamo noi, solo poveri e indegni cronisti di vicende che mai più si ripeteranno nei secoli a venire, che mai piedi così temerari calcheranno più suolo terrestre, forse se arrivasse dallo spazio Goldrake, ma ne dubitiamo.

Don Pablotte si chiese per quale portento un corpo senza testa spuntava da sotto il suo lavandino scotendo le membra come invasato e seminando improperi, contro la natura di ogni corpo senza testa che si rispetti, che in genere si limita a ciondolare un po’ in giro con le braccia tese in avanti o tuttalpiù va a cavallo a spaventare i Padri Pellegrini.

Simili stregonerie avvengono soltanto nei poemi cavallereschi, o su Dylan Dog, e manifestano sempre la presenza del Demonio, finché non vengono “ricacciati nell’inferno da dove sono venuti” con una formula magica o una pistolettata in testa.

Cavaliere era, ma senz’arme né armature, né scudieri baffuti al seguito che gliene lanciassero in caso di bisogna, e dovette ripassare a mente le formule magiche che conosceva, ed erano invero poche, che anche come uomo di arti magiche e stregonesche lasciava parecchio a desiderare, a scuola nei compiti in classe di incantesimi e incantagioni copiava sempre dal vicino di banco.

Silvan e Tony Binarelli erano maghi da conigli nel cappello, inadatti a frangenti rischiosi come quello, e meno male, perché Sim Sala Bim passi, ma Tiki Tiki gli era sempre sembrata una formula magica stronzissima.

“Klaatu Barada Nikto!” gridò il Cavaliere Dall’Harrypotteresca Figura, e come per incanto la testa del già presentato di lui genitore ricomparve da sotto il lavandino e il corpo, nuovamente integro, si sollevò in tutta la sua austera figura e lo apostrofò:

“Allora sei tu che hai allagato la cucina, non si è rotto un tubo!”

“No, è che è suonato il telefono e sono andato a rispondere, era Francesco che mi chiedeva se stasera esco perché..”

“Cosa ti porti da mangiare domani?”

“Domani è sabato, non lavoro”

“Lunedì lavori?”

“Si, lunedì lavoro, è l’ultima settimana, poi sono in ferie, e infatti stasera mi vedo con Francesco perché vorremmo andare..”

“Cosa ti porti da mangiare lunedì?”

“Non lo so, credo che ci penserò lunedì..”

“Stasera mangi qua o da tua mamma?”

“Appunto, pensavo di vedermi con Francesco per decidere se partire..”

“Domani?”

“Cosa?”

“Mangi qui o dalla mamma?”

“Non.. Non so.. Forse.. Qui?”

“Allora per domani c’è della verdura che ho fatto bollire, è tutta verdura dell’orto, ci ho messo patate, peperoni, piselli, pomodori..”

“..Ma forse vado via prima di pranzo..”

“..cavoli, carote, cavolfiori..”

“..andiamo a fare un’escursione in moto..”

“..ravanelli, radicchio, rape..”

“Vabbè, devo andare, ciao”

“..radici, rucola, rabarbaro..”