Regnò dal 1385 al 1433, pur essendo il frutto illegittimo di un re e della figlia di un mercante, ma a quel tempo la situazione del trono era piuttosto complicata, ovunque ti girassi saltavano fuori fratellastri e brutte storie di corna, e insomma, quando mancano i cavalli corrono gli asini, come si dice.
Fu un sovrano istruito e amante delle arti, e i suoi figli non gli furono inferiori: Enrico Il Navigatore fu il promotore delle esplorazioni marittime che portarono alla colonizzazione delle Azzorre, sua figlia Eleonora scoprì il bosone di Higgs prima ancora che Higgs nascesse, e fu solo perché non aveva altri nomi da dargli che accantonò la scoperta e si fece monaca di clausura. E che dire di Beatrice D’Aviz, nata da una relazione extraconiugale con la figlia di un calzolaio? A diciannove anni si sposò e a ventinove restò vedova, ma si risposò a trenta, e poi di nuovo a 47 e, prima di morire di peste nera come tutta la sua fortunata famiglia, riuscì a scrivere una serie di fortunati romanzi rosa che vennero poi trasposti in un telefilm di incredibile successo dal titolo O Sexo E A Cidade.

João I è il nome della strada ripida che ti porta giù diritto alla Ribeira, proprio in mezzo ai tavolini del Chez Lapin, quando ti si stavano seccando gli occhi e avevi bisogno di posarli subito su un fiume, e sei sceso a passo svelto e in un attimo correvi, per l’eccitazione e per non cadere giù da quella scarpata di porfido, ed eccolo ai tuoi piedi, il Douro, i barconi carichi di botti, il gigante di ferro che ti guarda e sembra soddisfatto di rivederti, era sicuro che saresti tornato, la luce di quella città ti ha reso la sua falena, trovati un tavolino e facciamo due chiacchiere, ma il cameriere te lo chiamo io, lo sai come sono diffidenti verso gli stranieri.

Da un paio di giorni João è anche il nome di un affarino rosso, neanche due etti di pelo, un motorino sempre acceso che mi staziona sul braccio mentre scrivo, sulla tastiera quando cerco di leggere, sul cuscino quando dormo, e lo osservo passare con le sue zampe così grandi e la coda dritta, diretto all’esplorazione di qualche angolo della cucina. È regale nella postura, seduto sulla spalliera del divano o su una pila di libri, e quando si fa le unghie sui fumetti mi accende la stessa urgenza che sento quando penso a quella strada nel centro di Porto, e gli corro incontro in un florilegio di madonne che rappresenta un matrimonio laico con quel paese dove ho parcheggiato il cuore.

João I detto O Preguiçoso

Mi fa sorridere quando siamo tutti e tre sul divano, insieme a One Eyed Jack, tre mammiferi maschi ipertricotici, e nessuno ha voglia di alzarsi a mettere su il caffè, e allora ci guardiamo un film e dopo dieci minuti dormiamo abbracciati e non ci turba nè la pioggia nè l’inverno dietro la porta.

È un equilibrio pericoloso, perché si appoggia su una base larga come il divano, e non si muove neanche se la scrolli forte; è quella comfort zone che gli esperti ti dicono di non frequentare troppo, una bolla di plastica dove entra poca luce, ma anche pochi fastidi, dove è troppo facile chiudersi e non voler più uscire e dimenticarsi che la vita è fuori.

Forse scriverò un libro, forse compirò la definitiva trasformazione nel disadattato in tuta che spegne e riaccende la luce tredici volte di fila sennò finisce il mondo, forse i vicini verranno a vedere cos’è quella puzza che si sente fin dalla strada e l’indomani saremo tutti e tre sul giornale. Comunque andrà a finire, la strada passa da questo scricciolo lungo un palmo, capace di dormire in posizioni che farebbero sbiancare una contorsionista cinese. E da voi stronzi, che il sabato sera avete sempre qualcos’altro da fare.

Sarà che a noi i posti affollati non piacciono granché, o che la luce del Portogallo rende tutto più gradevole, fatto sta che ci siamo messi via due soldini e siamo partiti per un fine settimana nella città più portoghese di tutto il Portogallo, Porto.

Non era la prima volta, già due anni fa passammo una splendida settimana in giro per le strade ripide del suo centro storico, fra il lungofiume della Ribeira e i profumi del Mercado do Bolhão.

Il bagaglio è composto da due trolley, uno di abiti e roba che normalmente ci si porta in viaggio, l’altro contenente aggeggi elettronici e un asciugamano che non si sa mai, come insegna Douglas Adams. Chi dovesse fregarmelo si guadagnerebbe l’equivalente di uno stipendio. Alla Malpensa ci comunicano che dovrà essere caricato nella stiva, perché l’aereo è piccolissimo, tipo un apino con le ali, e il pilota ha già dovuto lasciare a terra il suo secondo per mettersi in cabina la valigia di una signora di Parma. Considerato che non ci penso neanche a mettere un computer, due macchine fotografiche e un lettore mp3 nelle mani dei portabagagli di Milano, finisco per tenere tutto in mano e lascio nella stiva un trolley vuoto. L’asciugamano me lo lego in testa tipo turbante.

L’apino con le ali della Tap Portugal

L’aereo è veramente minuscolo, trentasette posti a sedere, ma è comodo e non ti fanno le menate per il bagaglio a mano, come per esempio un’altra compagnia a caso con un’arpa disegnata sulla coda. E se proprio devo dirla tutta non ti rompono neanche il cazzo ogni cinque minuti per tutto il viaggio con annunci per comprare qualunque cosa,  dai grattaevinci (ma ti pare, i grattaevinci sull’aereo, e allora perché non mi metti anche due slotmachine al posto dei cessi) ai peluscini a forma di aereo con l’arpa disegnata sulla coda, ai biglietti del treno per Catanzaro.

Delle due hostess di bordo una sembra il cavallo di Guernica su cui un vandalo abbia disegnato un rossetto viola con un pennello cinghiale; ha questa macchia viola intorno alla bocca che le conferisce un aspetto da carnefice pop, e quando ti chiede se vuoi qualcosa da mangiare non puoi fare a meno di pensare a Warhol, o a Dalì; l’altra hostess è carina, ma ha uno scazzo cosmico, si vede che nella precedente occupazione faceva la cameriera.

Quando ci mostra le vie d’uscita lo fa di fretta, come se la cosa non la riguardasse e fosse solo lì a sostituire un’amica che è andata un momento in bagno. Il messaggio che trasmette non è “prestami attenzione se ti preme la vita”, è più “mi hanno detto che dovrebbe esserci un’uscita anche da quella parte”. In realtà non gliene frega niente, è stanca di vivere e ci odia tutti; probabilmente sta meditando di sabotare uno dei prossimi voli e schiantarsi sui Pirenei.

Sui voli Tap si mangia bene, il pranzo a bordo consiste di una ciotola di riso con pollo e pancetta, un panino, una porzione di burro salato e mezza mela a pezzetti, più una bevanda a scelta. Grazie al coraggioso sacrificio della mia amorevole fidanzata riesco a barattare un’altra porzione di riso con qualche pezzetto di mela, e innaffio tutto con una lattina di sagres. Avevo espresso il desiderio di celebrare il mio compleanno bevendone una, ma questa non vale, dal finestrino non si vede il Douro.

Dal finestrino non si vede niente, per la verità, giusto un po’ di azzurro in alto se strizzi gli occhi.

Poi all’improvviso le nuvole si diradano e sotto c’è il Portogallo. Scendiamo rapidi e riconosciamo i primi ponti, la Ribeira, il Dom Luis I. È un’emozione che francamente non mi aspettavo. Sono felicissimo di essere di nuovo qui.

Il meglio di Porto al finestrino: la Ribeira, la Sè, il ponte.

Atterriamo, recuperiamo il bagaglio in un momento e usciamo a prendere un taxi. L’aeroporto è piccolo e quasi deserto, perlomeno quando arriviamo noi. Il taxi è già lì che ci aspetta, gli spiego l’indirizzo e si parte. La periferia è squallida come tutte le periferie del mondo, ma già a Trindade si capisce che sta per succedere qualcosa. Girato l’angolo ci troviamo giù per la piazza di Aliados e i miei compagni di viaggio non trattengono un gemito di gioia. Io sono quasi commosso. È pazzesco quanto questa città mi sia rimasta nel cuore, davvero.

Davanti all’ostello ci congiungiamo agli altri due membri del gruppo, arrivati in mattinata, Paola e Antonio; sbrighiamo le formalità di reception e molliamo i bagagli. La camera è un buco di merda peggio di quella di Lisbona, ma dal terrazzino ti affacci su Rua das Flores, che è un bel vedere, con le sue case ricoperte di piastrelle. E poi sono solo due notti, chi se ne frega! Il tempo di posare le valigie e siamo di nuovo per strada ad affrontare la prima di innumerevoli salite.

Prima tappa alla Livraria Lello, che conosciamo per avere visto le foto su internet: è tutta di legno, un capolavoro di liberty, con una vetrata sul soffitto che noti solo se alzi gli occhi e poi ti chiedi perché non l’hai notata prima, e gli scaffali decorati e pieni di libri antichi, ma soprattutto una scala pazzesca che sale fino a metà, si raddoppia, torna indietro, si riunisce e risale, coi gradini arrotondati colorati di rosso, come un ruscello che venga giù da chissà dove in mezzo al negozio. Le foto sono proibite, e quasi è un sollievo, che non mi sento in grado di fermare tanta meraviglia nello spazio limitato di una cornice. Per compensare ciò che non potrò portarmi via tocco tutto, i corrimano, la balaustra, il corpo sinuoso della scala, ma non basta mica. Dovrei comprarmi un libro fotografico dedicato al negozio, solo che costano una fortuna, un semplice segnalibro te lo danno per due euri e mezzo, capace che per una pubblicazione di venti pagine ti partano quindici venti euri come niente. Senti Lello, hai un bel negozio, ma sei un avido, vaffanculo.

Dopo la cultura è il momento di riempirsi la pancia: il bar panificio pasticceria davanti alla Igreja dos Clerigos è ricolmo di meraviglie proprio come lo ricordavo. Due pasteis de nata e un bicchiere di succo d’arancia per me, quattro frittelline di carne per la fidanzata, una roba gigantesca e inquietante per gli ultimi aggregati, che sinceramente non so dove trovino il coraggio di mangiarla, io neanche ci avvicinerei le mani a una roba così, metti che mi morde.

È sufficiente un’immagine per convincere la BCE a cancellare il debito portoghese? In questo caso credo di si.

Ormai tra l’arrivo, la sosta in ostello e quel minimo di nutrimento non è più ora di fare i turisti, la giornata è praticamente agli sgoccioli, e poi Porto l’abbiamo già girata tutta nella visita precedente; molto meglio, perciò, dedicarsi subito allo shopping, e mi ricordo che c’era un bel negozietto appena fuori dal Mercado do Bolhao dove due anni fa comprammo la nostra bottiglia di porto.

C’è ancora, si chiama Comer E Chorar Por Mais, che è un modo di dire portoghese che sono sicuro che saprete tradurre anche da soli (me lo auguro, almeno, che io non ne sono capace). È un negozio fondato addirittura nel 1912, ma nel frattempo ha cambiato proprietario, e quello che ci offre assaggi di tutto quello che c’è in vendita non è una riproduzione locale della mummia di Tutankhamon, ma un simpatico signore sui sessanta. Cerchiamo di ripagare la sua gentilezza uscendo con una borsa di salami e formaggi da nutrirci per qualche mese, ma ci ho lasciato le pere secche, ne soffro un po’.

Ultima meta la Ribeira, che poi è la ragione principale per cui siamo tornati a Porto. Non esiste una sensazione altrettanto magica di guardare la zona del lungofiume dalla sponda di Gaia, con quelle case colorate ammassate una sull’altra e il ponte come un mostro di metallo pronto a mangiarsele.

Vabbè, si, quando ti portano il conto mentre stai riverso sul tavolo del ristorante a cercare di digerire la quantità spaventosa di pesce che ti sei cacciato in bocca, e scopri che hai speso poco più di dieci euri provi qualcosa che ci si avvicina molto.

Però è qui che desideravo bermi la mia sagres, seduto al tavolino di un baretto sovrastante il lungofiume, a guardare le barche, e il ponte, e Gaia dall’altra parte del fiume, e la gente che passeggia sotto di me, e ancora il ponte, e Gaia, ammazza se è brutta Gaia, e il ponte, che belin, è proprio imponente, e il cameriere che si fa i cazzi suoi e io intanto vorrei un’altra birra.
Non ci andiamo adesso a bere la sagres, che è quasi ora di cena: stiamo un po’ a ciondolare davanti al Douro, poi attraversiamo il ponte giusto in tempo per goderci il tramonto sulla città vecchia, e andiamo a cena da Casa Adao.

Il proprietario è un signore piccoletto con dei grossi occhiali e il fare un po’ burbero, molto disponibile e piuttosto divertente quando si mette a insegnare a Marzia la pronuncia corretta di não, per dire no invece di nave. Dopo averci servito un polpo grigliato da sfamarci una portaerei ci annega nella ginja e poi torna un’altra volta a servirci le ciliegie sciroppate da mangiarci insieme, solo che fa casino e le rovescia tutte addosso a Paola.

Usciamo gonfi come bibini, ma la notte è giovane, c’è ancora tempo per un caipirão, il liquore tipico portoghese, ci spiega il cameriere, e c’è da chiedersi come abbia fatto un popolo capace di eleggere a bevanda nazionale una roba che sa di fluimucil a non essersi ancora estinto.

(continua e finisce nel prossimo numero, come Martin Mystère)

Segunda feira de Lisboa

Atterriamo dieci minuti prima delle nove, ora locale, e già ci siamo rifatti gli occhi avvicinandoci alla città da est, lungo la via tortuosa del Tago, u Tejo come lo chiamano qui, fino a quando apre le sue sponde come braccia verso l’oceano. Lisbona è illuminata da migliaia di luci e riempie tutto il promontorio; una linea bianca spezzata si allontana verso l’altra sponda, è il ponte Vasco Da Gama.

Appena ritirata la valigia andiamo a cercare un mezzo di trasporto. Il marciapiede dove arrivano i taxi è affollato come alla biglietteria di un concerto, chiediamo come mai e ci sentiamo rispondere che il mezzo è particolarmente economico. Intanto che siamo lì che decidiamo dove andare arriva l’autobus e saliamo su quello insieme a pochi altri, mentre la maggior parte resta ad aspettare la navetta, che costa il doppio e ci mette lo stesso tempo.

Mi guardo in giro un po’ sperso, al buio le case che sfilano dai finestrini sembrano uguali a quelle di qualunque periferia italiana, con la sola differenza che capisco pochissimo di quel che dicono i miei vicini di posto.

Marzia mi indica un palazzo sulla sinistra e restiamo tutti e due ad ammirarlo, ma non è un raro gioiello di architettura moresca, è un casermone abbandonato che abbiamo visto su internet qualche tempo fa. La sua particolarità è di essere stato ricoperto dal murale più bello che possa ricordare, con un tizio grande come tutta la facciata che infila un braccio in una finestra e agguanta un’altra persona sulla parete di là. Quando torniamo a Lisbona veniamo a fotografarlo secco!

Scendiamo in Praça Dom Luis, a Rossio, e vengo travolto da un deja vu che mi fa tremare le ginocchia. Mi sento come se fossi già stato lì, riconosco ogni angolo, ogni vetrina, i ristoranti, la colonna al centro della piazza, mi oriento come se fossi lì da un mese più che da un minuto. Mi volto verso Marzia che ho le lacrime agli occhi per l’emozione di scoprirmi un veggente, ma lei mi guarda come se fossi sempre lo stesso cretino con cui vive da cinque anni.

“La conosci perché l’hai cercata su google maps, idiota! Dimmi dove dobbiamo andare e falla finita.”

Ah già, la tecnologia infida che mi ha fatto imparare a memoria la strada per l’albergo ma mi ha fatto scordare di mettere l’olio nella macchina.

Arriviamo alla reception del Poet’s Hostel con la sicurezza di un testimone di geova verso la casa dell’operaio che ha appena fatto la notte, scopriamo che si trova proprio dietro il bar di Pessoa, quello con la statua in bronzo seduta al tavolino a farsi fotografare da mezza Italia, tre quarti di Giappone e tutta la Francia, e scopriamo che la nostra camera è in un altro palazzo un po’ più in là, trecento metri sopra la fermata dell’autobus.

Per raggiungerlo attraversiamo quella parte di quartiere che sta fra la Baixa e il Barrio Alto, e ad ogni angolo svoltato faccio un verso stupito per la bellezza di quel che sto vedendo. Lisbona sembra disegnata, coi suoi pavimenti di porfido e i muri a piastrelle, le case basse, le piazzette a sorpresa, ci sono scorci da cartolina ad ogni angolo. Ci sono anche un casino di italiani, e la cosa mi infastidisce un po’, tanto che cerco di spacciarmi per straniero fra gli stranieri parlando genovese.

La camera è al terzo piano di una palazzina che mi ricorda il b&b di Londra dove ho lavorato, scale verticali in legno rivestito di moquette, strettissime e rumorosissime, ogni piano diverso dai precedenti. Siamo praticamente nel sottotetto, e la temperatura è quella di un solaio assolato, ma la stanza è caruccia, un letto sul pavimento, muri arancioni, un abat-jour rosso, quando spegni la luce sembra un boudoir, chissà che sogni che farò.

Scendiamo in piazza e ci vediamo con gli altri due sotto i pilastri del teatro Carlo Felice Lisbonese, gironzoliamo un po’ e andiamo a mangiare noi, bere loro, in fondo alla via del nostro albergo, orata e bacalau alla griglia. Da stramazzo, molto turistico, qualità discreta, un gran casino, il cameriere mi ha detto Cesare Prandelli, non ci torno più.

Andiamo a dormire nel lettino basso con le molle a vista e un caldo allucinante, ma appena mi addormento non ci sto neanche male. Sarà che sono stanco, ma tranne un paio di volte che mi sono sentito cadere sul pavimento sono stato da dio. Alle tre sono rientrati i nostri vicini di piano, e hanno fatto un gran casino, ma non me ne sono accorto.

17/08/2010 A cidade do Porto

“Allora ci alziamo alle sette, andiamo a far colazione e prendiamo la metro fino a Oriente, che è una bella stazione, saliamo sull’intercity delle otto, massimo nove e per le undici siamo a Porto, ochei? Ochei.”

Ci alziamo alle otto e ci vuol tutta, facciamo la cacca e usciamo. Colazione in un baretto in Praça Dietro Quella Do Teatro, dove ci rendiamo conto che non tutti i camerieri parlano la nostra lingua, questo non mi chiama Cesareprandelli, ma fatichiamo un po’ a spiegargli che Marzia non può mangiare niente col burro. Mangio il dolcetto nazionale portoghese, il pastel de nata, un bicchiere di sfoglia pieno di crema, piuttosto buono, ma Lucilla che me l’ha consigliato mi ha detto che il suo aveva la crema calda, così come lo mangio io è un po’ pesante. L’espresso è dignitoso, solo in Francia bevi quelle brode infami.

Per fare prima ci dirigiamo alla stazione di Santa Apolonia, una costruzione piuttosto semplice, pitturata di azzurro, poco affollata, dà un’impressione di spazio. Il bigliettaio ci dice di correre, che l’intercity sta per partire e quello dopo c’è molto più tardi. Lo prendiamo dopo una prova podistica con doppio zaino su pavimento scivoloso e andiamo a cercare il nostro posto. Anche qui un mucchio di italiani, principalmente romani. Li vediamo seduti qua e là per i vagoni, poi di nuovo sciamare verso i loro posti, che quelli dove si erano seduti appartenevano a qualcun altro.

Marzia non dice niente, osserva lo stato del treno col fervore mistico di chi vede la madonna. Quando dietro una porta troviamo la carrozza bar, col bancone e i tavolini, si fa venire le stimmate.

Il viaggio è tranquillo, ad un certo punto sale una grossa signora con un cesto pieno di pasticcini e prova a venderli. Griderebbe anche, ma ha il fiatone, ci vuol tutta che non stramazzi in corridoio.

Arriviamo a Porto e mi ricordo di nuovo tutta la strada fino all’albergo, dove si prende la metropolitana, dove si scende, dove si svolta usciti dalla stazione. L’unica cosa che non potevo sapere è che una volta in cima alle scale ti prende un odore di mare che a Lisbona manca del tutto.

Passiamo davanti al mercato, e vuoi non entrare? Basta un’occhiata per decidere che sarà la meta del nostro pranzo, ma prima l’ostello, che tanto è lì dietro.

Appena superato il portone ci accoglie una parata di locandine di Star Wars, e io decido che voglio venire a vivere lì. E dai, l’ostello di Lisbona era sacrificato, ma non te ne rendevi conto se non avevi niente con cui confrontarlo, appena ci provi diventa un buco merdoso.

Questo, oltre alle stanze a tema cinematografico molto accoglienti coi materassi che non si sentono le molle e col soffitto più alto di un metro e una temperatura che non ti fa sciogliere la maglietta addosso e senza quella cazzo di lampadina rossa e coi pavimenti che non scricchiolano al minimo respiro e i corridoi più larghi di quaranta centimetri ha pure una terrazza dove andare ad abbordare le olandesi completa di piscina, no dico, piscina, ha la playstation, ha una chitarra, ha un casino di libri, ha una spada laser buttata lì a disposizione del primo jedi che passa, e come se non bastasse ti rifanno la camera ogni giorno.

La nostra stanza è ispirata alla Sposa Cadavere di Tim Burton e si affaccia sul teatro Rivoli di marcata ispirazione fascista. Sono curioso di scoprire quale piega assurda prenderanno i miei sogni in un posto così, alla prima cena di bacalhao.

Se non fosse che abbiamo già pagato le restanti notti a Lisbona andrei a cercare un altro posto.

Ci sistemiamo e via secchi a pranzo al mercato do Bolhao.

C’è un tavolino libero dietro i banchi del pesce, gli altri sono tutti occupati da turisti e gente del luogo. Li riconosci, sono quelli che al posto della macchina fotografica hanno in mano una birra Super Bock.

Mentre aspettiamo di ordinare ci mettiamo a chiacchierare con un tizio pelato che sembra essere autoctono. Per farsi capire mescola parole portoghesi ad altre spagnole, Marzia gli risponde in spagnolo con qualche vocabolo portoghese pronunciato comunque in spagnolo, io gli parlo in italiano aggiungendo ‘inho’ in fondo ad ogni suono.

Parliamo a lungo, ma sinceramente non so di cosa: durante la giornata Marzia mi dice cose che ha saputo dal tizio, e la guardo come se mi recitasse a memoria l’opera omnia di Pessoa, comprese le pubblicazioni scritte con lo pseudonimo di Pietro Gambadilegno, che non conosce nessuno.

La cameriera invece è portoghese senza influenze estere, e quando ci presenta la lista dei piatti non capiamo un belino. Alla fine ci porta quello che ha ordinato il nostro vicino, sardine grigliate con un contorno abbondante di patate bollite, lattuga e pomodori.

Al tavolo accanto si siede una comitiva di vecchietti brasiliani, che fanno come il vicino portoghese e attaccano bottone. Nel frattempo il vicino se n’è andato e il suo posto l’hanno preso due ragazze spagnole con le quali attacchiamo bottone noi. Aggiungiamo la coppia francese seduta più in là che ci guarda e ridacchia ed è chiaro come col semplice aiuto di una brocca di vinho verde siamo riusciti a trasformare una trattoria all’aperto in un club internazionale di ittiofili.

I brasiliani continuano a chiamare la cameriera Maria, finché lei non rivela di chiamarsi Filippa. A quel punto siamo noi che la chiamiamo Maria, per pietà.

Terminato il pranzo ci scambiamo l’indirizzo email coi brasiliani e ce ne andiamo.

Il Douro

La visita della città comincia dal basso, per prima cosa andiamo a vedere la Ribeira, il quartiere che sta sul fiume, ma soprattutto la meraviglia del ponte di ferro Dom Luis I, costruito dalla zia di Gustave Eiffel coi pezzi avanzati della torre parigina.

Le strade del centro sono ripidissime, una casa su tre è in rovina, verrebbe da pensare che nelle giornate di pioggia gli abitanti siano soliti uscire dalla porta e scivolare giù fino al Douro.

Ed eccolo il fiume, lo vediamo appena oltre la distesa di ombrelloni di un ristorante. Dietro di lui Vila Nova De Gaia, la città gemella che sorge sull’altra sponda, solo Gaia per quelli di qui, e proprio nel mezzo il ponte, il Ferraccio, come lo chiama un portoghese tipico che mi sono appena inventato, ma che potrebbe benissimo essere un alter ego di Pessoa sconosciuto ai più, Pedro Gambadelenho.

È imponente, il ponte (anche Pedro Gambadelenho, ma non sto parlando di lui ora), due livelli a diverse altezze tenuti insieme da un arco gigantesco, su quello basso passano le macchine e ci si buttano i ragazzini per farsi fotografare dai turisti, quello alto è per i treni e ci si buttano gli adulti, ma a loro le foto non le fanno, tuttalpiù l’autopsia.

Non puoi far finta che non ci sia il ponte quando sei sul lungofiume, attira lo sguardo, è come un vecchio parente che sta lì affacciato a guardare le barche che gli passano sotto.

Non è l’unico ponte, in città ce ne sono altri quattro o cinque, dalla stazione di Campanhà alla foce, comunque ti volti ne vedi uno, ma non sono tutti belli come questo.

E il fiume, il fiume è vivo, non è come l’Arno, o il Tevere, che se ne stanno lì rinchiusi nei loro argini a farsi adocchiare dai passanti, questo è una piazza, c’è gente intorno, c’è gente in mezzo, ci sono i barconi che fanno su e giù a portare turisti a vedere i ponti per 10 euri, c’è il motoscafo che per una cifra più alta ti regala piroette, testacoda, un bagno fuori programma e la possibilità di vomitarti il pranzo sulle scarpe, c’è il solito coglione sulla moto d’acqua che impenna sulle scie dei barconi e va avanti e indietro e bzzzz e bzzzz e bzzzzz e ti verrebbe voglia di affittare il motoscafo e speronarlo una volta per tutte, ci sono i vecchi battelli che portavano le botti, tutti ricostruiti belli uguali ormeggiati davanti a Gaia e a quelli che corrono o vanno in bici o prendono il sole sui prati di fronte alle cantine del porto.

Raggiungiamo il ponte, ma non lo attraversiamo subito, prima ci arrampichiamo su per un vicoletto tutto a scale, ripidissimo, per passare di là dal lato superiore e goderci il panorama. Ci sono dei gatti, Marzia perde ogni dignità inseguendoli tutti nella speranza di poterne toccare almeno uno; fa dei versi che la gente si volta e ci guarda e scuote la testa, micimicimici mimiminininipipipipi, io indosso dei baffi finti, non si sa mai.

Il ponte dall’alto non è affascinante come il suo piano inferiore, e ci tira anche un vento che d’inverno ti ci voglio vedere, ma la vista è magnifica, Porto dall’alto è un capolavoro di tetti e pareti colorate, con questa cornice d’acqua a sottolinearne ogni screpolatura, ogni vicolo.

Scendiamo verso Gaia e incrociamo un tizio con un grosso grifone sulla maglietta, e ti pare che non gli dico niente? Ci scambiamo le solite formalità da turisti all’estero, da quanto tempo siete qui, vi piace la città, abbiamo comprato nessuno nel frattempo, e ci salutiamo.

Il lungofiume di Vila Nova De Gaia è bello soleggiato, c’è meno casino che di fronte, anche perché i ristoranti sono tutti sulla strada alle nostre spalle, qui c’è un prato a separare la passeggiata dalle barche; la vista di Porto è da cartolina, sembra una città olandese del ‘500, faccio un centinaio di foto in venti minuti, ne avrò da scremare parecchie al mio ritorno a casa.

Non ci spingiamo tanto in là, ripercorriamo il ponte passando di sotto e prendiamo la via dell’ostello col passo della salita.

In una stradina appena fuori la Ribeira ci imbattiamo nell’Adega São Nicolau, un ristorante suggerito dalla Guida Giorgia, la sorella di Marzia che va ad abbuffarsi in giro per il mondo e non si trova bene in nessun posto. Se è piaciuto a lei vuol dire che merita, così torniamo in camera a cambiarci, che quando va giù il sole il termometro scende parecchio, e usciamo con lo stomaco a farci da navigatore.

C’è una strana folla sulle scale accanto al ristorante, e non tardiamo a scoprire perché: sono tutti in coda per un tavolo! Abbiamo un mancamento, forse è il caso di scegliere un’altra meta per la cena. Una coppia italiana che sta cenando fuori ci suggerisce di aspettare, che merita, e allora vabbè, aspettiamo.

Una mezz’oretta più tardi ci sediamo, facciamo sparire le polpette di baccalà che arrivano per antipasto e ci buttiamo sulla portata principale come ciclisti sull’ultimo chilometro: cernia grigliata e polpo in una maniera che non ricordo, ma che poi è fritto col riso. Finisco il mio e quello della mia compagna, che ha uno stomaco da principiante, tanto con le salite che ci sono in città puoi ingozzarti quanto vuoi e andare a dormire sempre bello leggero.

E siccome le scale non sono mai abbastanza vuoi mica negarti il piacere di arrampicarti fino sul tetto del palazzo per visitare la fantomatica terrazza, sede di tutte le feste più fighe della città, dove c’è addirittura la piscina e si vedono le torri di Isengard e Mordor, vuoi mica negartelo?

Saliamo ancora i due piani che restano e telalì la terrazza, piena di ragazzotti che confabulano in molteplici lingue, ma che quando limonano ne usano solo due per volta, nella più classica tradizione degli ostelli, compreso quello di Hostel, ma senza che ti ammazzino dopo.

Io per la verità un po’ fifa di essere ammazzato nel cuore della notte ce l’ho, che un posto così bello senza controindicazioni non mi sembra vero. O ci ammazzano tutti e due o ci svegliamo alle quattro in mezzo a un rave in camera e non c’è più verso di chiudere occhio.