Drusilla ha ventisette anni e gli occhi colore del lago in cui mi tuffavo da bambino. Porta la maglietta a righe d’ordinanza Estate 2016, e la presunzione della sua giovane età la tiene in bilico sulla punta del naso, che mi agita davanti come un fioretto quando si volta a chiedermi “Ma li hai visti?”

Si riferisce alla coppia male assortita che, davanti ai nostri sguardi attoniti, si è esibita in un numero di solitudine acrobatica livello SuperPro.

“Quelli che si sono fatti la foto?”
“Sì! Hai visto che espressione schifata aveva lei quando si è messa in posa?”
“Le mancava la didascalia – Facciamo contento questo povero fesso – ”
“Ma è pazzesco! Come fanno a esistere coppie così? Ma meglio da soli, dai!”

La classica frase da Drusilla che sa sempre quello che vuole e non accetta compromessi. Vorrei possederla io la sua sicurezza, mi permetterebbe di mantenere la rotta e smettere di incagliarmi nelle secche in cui finisco con la regolarità di un temporale nel fine settimana.

Siamo a giugno, due anni che è morto il mio unico grande infinito amore, il mio canarino Chico Buarque, la sola creatura che abbia mai amato.
Non sono una preda facile per i sentimenti, quasi tutte le mie ex mi hanno lasciato dopo pochi mesi lamentandosi dei miei rari slanci affettivi. Sono uno che quando la ragazza gli dice seria al telefono “Sto mettendo in discussione il nostro rapporto” le risponde “Va bene, fammi sapere domani cos’hai deciso, buonanotte”.

Con Chico Buarque era stato diverso fin dall’inizio. Intanto non mi aveva chiesto nessuna attenzione particolare, giusto un po’ di becchime e dell’acqua fresca, e poi la riconoscenza con cui rispondeva alle mie premure! Ogni mattina si metteva a cantare, e la sua gioia mi contagiava, uscivo di casa dimentico di ogni problema e andavo a lavorare alla miniera di carbone col cuore leggero.

Fra noi era stato un avvicinamento graduale, nessuna pressione, solo il piacere di stare insieme giorno dopo giorno. Lentamente il nostro rapporto si era consolidato fino a diventare qualcosa di indistruttibile, cui non avrei più saputo rinunciare. Non l’avevo mai vissuta una storia così intensa. Per festeggiare il nostro primo anniversario eravamo andati alle Canarie a conoscere i suoi genitori. Non lo avevamo detto a nessuno, ma quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da fidanzati, avevamo intenzione di sposarci. Magari non in Italia, dove i matrimoni fra uomini e canarini non sono ammessi.

Due mesi dopo era morto. Una rara malattia chiamata gatto dei vicini lo aveva stroncato all’improvviso.

È stato come se mi avessero sostituito il cuore con un sacchetto di ghiaia, ho rinunciato alla speranza. Tutto ciò che è arrivato dopo mi è scivolato addosso senza lasciare traccia.
Solo una volta ho provato una specie di emozione, ma non è durata molto: era una gracula religiosa, ci eravamo trovati molto bene all’inizio e sembrava che potesse funzionare, ma presto si era rivelata una gran scassacazzi. E poi parlava sempre a vanvera.

In questi due anni non ho fatto che passare dall’allegria a una depressione improvvisa, come un ballerino di tip tap in un campo minato. I miei amici hanno preso le distanze, le relazioni si sono diradate, anche quelle impostate sulla mercificazione sentimentale, tipo “tu mi caghi io ti trombo va bene così”. Sono diventato uno di quei matti con la felpa stropicciata che portano in giro il cane la mattina presto, quando non corrono il rischio di incontrare altri esseri umani con cui dover interagire.

Per convincermi a stirarmi la maglietta e affrontare questa trasferta bolognese c’è voluta la giovane scapestrata Drusilla. È lei che mi allontana le nuvole dalla testa, e quando il canto di un uccello lontano mi riporta alla mente pensieri cupi è rapida ad intercettarli e abbatterli con un dito nodoso sulle reni. Oppure mi viene vicino e mi spinge da dietro, mi colpisce con un giornale, mi abbranca per un braccio e mi trascina davanti alle scarpe più ridicole mai esposte in una vetrina.
È bello averla vicino, certe volte mi chiedo se non dovrei abbandonare questa mia ritrosia e darle un bel morso, per vedere che succede.
Poi mi ricordo di Chico Buarque e che il mondo fa schifo e dobbiamo tutti morire soli, compresa Drusilla, e vado ad addentare un panino al prosciutto.

A Palazzo Fava è allestita la mostra di Edward Hopper, forse l’unico luogo in cui essere tristi rappresenta un beneficio, invece che un handicap.

Perché il pittore di Nyack è un artista malinconico, apre finestre sulla solitudine che hai dentro e la costringe ad affacciarsi. Il modo migliore per apprezzare le sue opere è di avere l’anima dissodata di fresco. È come annusare certi fiori prima di assaggiare un vino di qualità.
È così. Mi aggiro per le sale lasciandomi travolgere dalla desolazione dei suoi paesaggi e delle persone che li abitano.
Quando mi trovo di fronte a Soir Bleu mi tremano le gambe. La faccia del clown, il contrasto col suo abito e ciò che rappresenta. La donna in piedi è una prostituta, un corpo in vendita, eppure è altera e distante come un pianeta inaccessibile.

“Questo si intitola Carnevale Sull’Enterprise. Il capitano Picard, al centro del  quadro, si è vestito da clown convinto di vincere il premio per la maschera migliore, ma verrà battuto dall’androide Data, che truccato da donna risulta davvero irriconoscibile”.
“Scema, non ti ci porto più alle mostre! Che figure mi fai fare?”
“Usciamo? Qui vicino c’è una mostra fotografica su Jeff Buckley con cui puoi torturarti ancora un po’”
“Ma tu come fai ad essere sempre così imperturbabile? Non c’è niente che ti pesa addosso, un ricordo, una speranza? Io sono eccessivo nel mio malessere, certo, ma tu così impermeabile alle emozioni sei sicura di essere normale?”
“Chi ti dice che sia imperturbabile? Magari non mi va di mostrarlo come fai tu”
“Cosa ti ha lasciato questa mostra?”
“Ansia. La stessa che mi mettono i racconti di Carver. Credo che il mondo che descrivono sia lo stesso, uno racconta cosa succede nelle case dipinte dall’altro. L’anziano seduto al sole, con la moglie che gli grida dalla finestra, quando si alzerà saprai che sta per succedere qualcosa di brutto. La donna in piedi sulla porta ha visto qualcosa che non vuoi sentirti raccontare. La vita che trapela dall’opera di Carver è difficile, di quella che ti ci vuole una bottiglia vicino per reggerla, ma Hopper va oltre, dove la bottiglia non basta più. Uno è dolore, l’altro rassegnazione. E a me la rassegnazione mette ansia più del pericolo.”

Guarda qua. Neanche trent’anni di roba. Una che non ha mai conosciuto la Cortina di Ferro, il Patto di Varsavia, Berlino Est. Una che girava in pannolone mentre i Nirvana scardinavano la musica e il gusto per le camicie.
Una fottuta hipster.
E mi lascia muto, inadeguato e ammirato.

Io a 27 anni stavo a Londra, dormivo per terra e spendevo tutto lo stipendio da Reckless Records. A 27 anni scoprivo Jimi Hendrix, manco sapevo chi erano Hopper e Carver. Ed è questo che separa inesorabilmente il mio mondo dal suo e ci porta ad imboccare strade che finiranno per allontanarci sempre di più, fino a perderci di vista. Perché un giorno lei sarà un avvocato inserito nel sistema e leggerà Marcuse per credersi anticonformista, sposerà un ricco ingegnere appassionato di mobili antichi e farà la borghese radical chic, mentre io sarò fuori da casa sua a fregarle le gomme della mercedes, che rivenderò per una dose della mia ultima scoperta, l’eroina.

(continua)

Oggi, nel 2002, moriva Joe Strummer, il cantante dei Clash.

Tre anni prima lavoravo in un piccolo bed & breakfast londinese come portiere di notte, occupazione che mi lasciava tutti i pomeriggi liberi e un bel po’ di sterline da scialacquare in cidi. Abitavo in albergo, in una stanza condivisa con un ragazzo francese di nome Arno, pessimo cuoco e tenace suonatore di chitarra. Era anche uno schiavo del pop, ascoltava tutto il tempo una orribile stazione che trasmetteva canzoni punzapunza e negre melodiche scosciatissime, e quando tornavo in camera lo beccavo spesso ad esercitarsi su cantanti del suo paese, ma non quelli fighi tipo Brassens, macché, lui conosceva dei musicisti che oltre a violentare il pentagramma amavano stuprare anche le lingue straniere, e cantavano questi pezzi in anglese, che sarebbe l’inglese pronunciato da un francese, che insomma è una roba che se non l’hai sentita è difficile anche spiegarla, ma fa schifo forte. Tutte le volte che lo sentivo biascicare “lovmì, ai sgiast uontiù intù mai arrmz” mettevo su un cidi di Jimi Hendrix e gli mostravo il dito medio, e alla lunga avevo finito per conquistarlo, tanto che un giorno mi chiese di accompagnarlo in un negozio a comprare quella raccolta, che la voleva anche lui e io di sicuro non gli avrei prestato la mia, che poi me la restituiva tutta sporca di rane.
Il mio negozio preferito si trovava in una traversa di Oxford Street, resa famosa in tutto il pianeta per essere finita sulla copertina di un disco degli Oasis, e si chiamava Reckless Records. Non era l’unico negozio, la parte alta della via è piena di botteghe per le orecchie, mentre quella bassa appaga gli istinti ad altezza mutanda: sexy shop e locali ambigui, per capirci. Cominciammo il giro dall’alto, tenendoci il meglio per ultimo, e nella prima rivendita Arno si presentò alla cassa con un cidi di Ricky Martin. Glielo strappai di mano, nella mia vita avevo sopportato abbastanza a lungo i Gipsy Kings per riuscire a reggere qualunque altro latino che non fosse Ovidio, e gli misi davanti Are You Experienced?, del capellone di cui sopra.

La scena si ripeté in ogni altro negozio che visitammo, lui cercava di comprare i Boyzone, io gli proponevo i Rolling Stones, lui ci provava con Britney Spears e io rilanciavo di Etta James. Sulla porta di Reckless Records trovammo un compromesso per una roba dei Blur che conosceva lui, e ci accingevamo ad entrare, quando venne fuori un tizio in giubbino di pelle e capelli tirati indietro. Sembrava un nostalgico del rock’n’roll, ma quel naso a becco era inconfondibile: dal mio negozio preferito era appena uscito Joe Strummer.

Arno non lo degnò di uno sguardo e fece per entrare, ma lo agguantai per un braccio, e quando fui di nuovo in grado di parlare gli indicai l’uomo che si stava allontanando. “Ma lo sai chi è quello? Joe Strummer!!”

Gli avessi detto Evaristo Bartolazzi sarebbe stato uguale.

“Il cantante dei Clash!”.
Nessuna reazione.
“London Calling! The Guns Of Brixton!”.
Encefalogramma piatto.

Sospirai e gli canticchiai un pezzo di Should I Stay Or Should I Go, e ovviamente Arno strabuzzò gli occhi, da quella puttana da classifica che era, e gridò “Joe Strummer!!”, e gli corse incontro.
Il leader dei Clash si era voltato, sentendosi chiamare, e se ne stava lì a guardarci. Arno lo raggiunse trafelato e gli mostrò la più incredibile delle facce da culo: “Mr. Strummèr! Mr. Strummèr! Vi ar big fansoviù, mai frrend herre ès olloviorrrecòrrz!”

Mi aspettavo già lo sfanculo, e invece il vecchio punk rocker ci salutò e ci chiese da dove venivamo, ci strinse la mano e poi vide il sacchetto di Arno e gli chiese cos’aveva comprato.
Il paraculo tirò fuori il cidi di Hendrix che gli avevo regalato io, “Ze second best arrtist in ze worrld, afterr iù!”
“Good boy”, gli ghignò l’altro di rimando, poi se ne andò con le mani in tasca. “Take care”, ci disse.

Il giorno dopo il mio coinquilino si presenta in camera con una raccolta dei Clash e mi dice che sì, quella canzone è bella, ma le altre sono un po’ una merda, e riattacca coi suoi pipponi in anglese sconosciuto.
Se domani incontro Sgianrenò non ti dico un cazzo, crepa.

Aggiornamento rapido:
Combinazione oggi è morto un altro Joe, quello con le orecchie da Cocker e la barba ispida, cui avrei voluto rendere omaggio con un altro post, ma non lo faccio non perché sono uno snob di merda, ma perché lo conoscevo molto meno e l’unica cosa positiva che mi verrebbe da dire di lui è che non è mai stato Zucchero. Finirò la bottiglia di vino in omaggio a entrambi.