Sono felice, partiamo da lì.
E sono rintronato da tutti i baci e i morsi e le parole e le carezze, e drogato dal profumo della tua pelle e dalla sensazione che mi lascia sotto le dita, e abbronzato dal calore e dalla luce che emanano i tuoi occhi quando sorridi, e divertito da tutte le cretinate che ci siamo detti, che riempiono gli spazi e mi fanno pensare di avere trovato un altro pezzo di me perduto chissà quando.

Ho voglia di averti vicino domani, dopodomani, fra un anno, tirarti i capelli e lasciarti segni sul collo e baciarti per strada e metterti a letto e addormentarmi appoggiato alla tua spalla.
Succederà, e non sarà neanche la cosa più bella fra di noi.
Non siamo una cosa di passaggio, l’ombra su un muro di qualcosa che oh ma cos’era giurerei che fosse un volo di rondini impossibile non è stagione, siamo una formula scritta su un libro polveroso nascosto in una biblioteca celata nelle segrete di un castello sepolto dai rovi nel mezzo di una foresta cresciuta in mezzo a una valle che sta alla fine di un viaggio lunghissimo fra le montagne di una terra dove nessuno parla la tua lingua e quando provi a chiedere informazioni
si incazzano pure. Una cosa che quando la trovi diventi ricchissimo, tipo l’ingrediente segreto della cocacola che trasforma l’oro in piombo delle otturazioni nello studio del dentista.

Scusa, non ce la faccio a rimanere serio troppo a lungo, ma questa cosa la sento davvero, sei il tesoro dei pirati, la bella addormentata e tutto quello che ho sognato di trovare alla fine di un’avventura fin da quand’ero bambino. Non te ne andare.

Sei così bella da fare male, dove per male intendo quella cosa che mi invade quando mi sei così vicina e non posso toccarti.
È lo stesso disagio del ladro di opere d’arte, quello che vuole portarsi a casa la Gioconda per guardarsela tutto il giorno stravaccato sul divano. Che non sarebbe granché come piaga sociale, basterebbe permettergli di portarsi il divano al Louvre, ma la direzione non ne ha mai voluto sapere. I cavalletti per macchine fotografiche si, i divani no, e vagli a spiegare che con un cavalletto puoi martellare le statue più facilmente che con un divano.
Per esempio prima che lo visitassi io l’Atena Nike aveva anche la testa.

Se dovessi scegliere un quadro che ti rappresenti non vorrei accostarti a un Klimt, che il giallo e il rosso che vi accomuna sono un paragone facile, e tu facile non lo sei per niente.
Anche questa, a voler guardare, è una cosa che avete in comune, nessuno dei due si lascia scoprire a una prima occhiata, bisogna sedervisi davanti e studiare tutti i dettagli per mesi, e ogni volta scoprirne di nuovi; bisogna vincere la ritrosia e gli sguardi bassi, tuoi e del quadro, perché anche un quadro sa essere timido e sfuggente, e se non impari a starci davanti rischi di perdere tutta quella meraviglia che tiene nascosta fra i segni del pennello.

Io non lo so ancora che quadro mi ricordi, ho trovato il tuo viso in alcune poesie e ci sono tante canzoni che mi ricordano il tuo modo di sorridere, ma per il dipinto devi aspettare, è un processo lungo, devo frequentarti per un sacco di tempo, scoprire chi sei e come ti muovi e parli e l’effetto che mi danno le mie mani sulla tua schiena.

Certo che non sembrano cose legate fra loro e do l’impressione di cercare solo scuse futili per starti vicino, ma ti assicuro che importanti studi scientifici hanno dimostrato l’importanza del contatto fisico nella ricerca dell’ispirazione artistica.
E non cominciare a puntualizzare che non ti devo mica dipingere, ma solo associarti a un quadro, e allora casomai bisognerebbe conoscere i quadri e non solo per dargli dei titoli cretini; io non so dipingere, sei tu la pittrice fra noi, perciò casomai sarai tu che dovrai scoprire chi sono e come mi muovo e l’effetto che danno le tue mani sulla mia schiena.

Ecco, qui mi fermo un attimo e riprendo fiato, che ho appena avuto una visione pochissimo religiosa, ma mistica non hai idea quanto.

Stamattina mi sono alzato presto, se le otto e mezza possono definirsi presto, e come ogni mattina ho dovuto, per prima cosa, vestirmi e portare Jack a fare due passi. C’era una luce strana, schermata dalla foschia che avvolgeva il fiume, che accentuava il giallo delle foglie, quelle sugli alberi e le prime già in terra, e sfumava i bordi alle cose; dava l’impressione di trovarsi in un quadro di Monet, sebbene non ne ricordi uno ambientato in un viale autunnale, ma cosa vuoi farci, da quando non faccio più ARTErnativa i dipinti si sono mescolati come prima di uscire dal tubetto dei colori, e l’alzheimer non mi aiuta affatto.

Comunque succede che mi sono trovato a pensare a una conversazione con un amico avuta ieri sera, nella mia prima uscita da quando siamo stati colpiti dalla recessione (perlomeno la prima senza il piattino in mano a chiedere spicci ai passanti): eravamo in Piazza Delle Erbe a lamentarci di come dovrebbe chiamarsi Striminzito Marciapiede Delle Erbe, essendo stato tutto lo spazio al centro ingoiato dagli ombrelloni e dai tavolini, quando ti incontro un altro amico, che poi è quello con cui ho avuto la conversazione, che mi dice che vuole andare a vivere da solo e trasferirsi in centro.

Ci avevo pensato anch’io tanto tempo fa, quando dividevo gli angusti spazi di Castello Renzi con Renzi Senior e la buonanima di Mario, e tutti i miei amici vivevano a Genova, e soprattutto stavo lottando con tutte le mie forze per entrare nelle mutande di una tizia che appunto in centro abitava.

Ora che ho realizzato che per le sue mutande sono passati più uomini che alla fermata del 18 barrato, che ho abbandonato la Tenuta Renzi, che ho conosciuto la futura nonna dei miei nipotini, che sono entrato nelle fila rivoluzionarie dell’Ejercito Cadigattista Di Liberaciòn Nacional, che vivo in una casa col riscaldamento a legna, che mi vado a tagliare la legna nei campi, certe malinconie me le sono fatte passare con gioia. E li compatisco un po’ quegli amici che vogliono abbandonare la praticità della delegazione per trasferirsi nel casino del centro, col rumore costante, l’impossibilità di trovare posteggio e tutto il resto.
Che poi uno che sta a Bolzaneto non se la gode davvero granché la lontananza dalla città, subisce gli stessi disagi e non ha neanche i locali sotto casa dove andare a distruggersi, e allora tanto vale..

Però io l’altra mattina nel vialetto sotto la ferrovia, quando ancora la luce era bassa, ho incontrato una famiglia di cinghiali, e uno dei piccoli è venuto ad annusare Jack a neanche un metro dai miei piedi, ed è qualcosa che nei vicoli non ti succederebbe mai. Tuttalpiù potresti imbatterti in una famiglia di spazzini alla fine del turno, e ammetterai che non è proprio la stessa cosa, che oltretutto non hanno neanche il caratteristico manto a strisce.