Venerdì 10 agosto.

Stavolta ci riesco, mi alzo in tempo e vado diretto in piazza a vedere il morto. 

In realtà sono indeciso se visitare il mausoleo di Mao, la coda per l’accesso alla piazza sotto questo sole scoraggerebbe un cammello. In alternativa potrei infilarmi al Museo Nazionale: l’ho già visitato la volta scorsa, ma le esibizioni temporanee cambiano spesso, e al momento dovrebbe esserci qualcosa sull’arte primitiva australiana.
Una volta uscito dalla metropolitana realizzo che in ogni caso l’ingresso di entrambe le strutture è al di là della tonnara al posto di controllo, bisogna rassegnarsi.

Fa così caldo che dopo dieci minuti la mia camicia è passata dallo stato solido a quello liquido.
C’è una signora che si infila nella calca per vendere gelati, un’altra bottiglie d’acqua, la terza defibrillatori. Ma solo io sudo così tanto? I cinesi appaiono più rilassati, oppure smadonnano come me, ma nella loro lingua non li so capire.

Una volta superata l’estenuante trafila burocratica vado a vedere come si entra al mausoleo, che oramai sono qui e a dire la verità dell’arte aborigena mi frega pochino.

La coda è lunghissima, e si piega e ripiega su tutta la superficie della piazza. E stiamo parlando di una distesa ampia come la Città del Vaticano. Nonostante la lunghezza sembra scorrevole, le persone all’inizio della fila camminano abbastanza lentamente, ma camminano, e quelle all’estremità opposta vanno molto più veloci. Calcolo mezz’oretta al massimo di attesa. Dai, ce la faccio. Mi inserisco anch’io nel lungo serpentone di questo incredibile rito collettivo.
È pazzesco vedere persone arrivate da ogni angolo della Cina che si mettono in fila sotto il sole per rendere omaggio alla figura che incarna.. boh, il loro ideale? Il loro sogno di un Paese migliore? Lo stato sociale solido in cui vivono? Cos’è che rappresenta Mao per i cinesi, esattamente?

A leggere la sua biografia viene fuori una figura potente, capace di riforme che hanno aiutato la Cina a diventare quel colosso economico che è oggi. Ha combattuto e vinto le guerre interne contro i cospiratori che avrebbero infranto questo suo grande sogno, e per farlo ha compiuto imprese leggendarie, come attraversare a piedi 9600 km in testa alla sua armata, combattendo l’esercito del Kuomintang, per lanciare una controffensiva che si sarebbe rivelata vincente. Ha sconfitto l’analfabetismo, rilanciato l’economia, restituito la terra ai contadini.

Solo che la sua biografia l’ha scritta lo stesso partito che oggi governa il Paese senza elezioni né opposizione, e riduce a silenzio i dissidenti semplicemente facendoli sparire. Perseguendo la stessa politica cinica e violenta adottata dal Grande Timoniere Mao.

Il “Grande balzo in avanti”, la riforma epocale che avrebbe dovuto trasformare la Cina in una potenza economica, provocò la più grande carestia nella storia del Paese, lasciando sul terreno fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda di chi te lo racconta. E quando, in seguito a questo fallimento, il partito decise di estrometterlo dalla carica, Mao lanciò la Grande rivoluzione culturale, un’insurrezione popolare che gli permise di liberarsi di tutti i suoi oppositori politici, e che ebbe, fra gli altri effetti, quello di distruggere gran parte della memoria storica dello stato.

Se oggi visiti una città qualunque della Cina sono pochi gli edifici più vecchi degli anni ’70, considerati in quel periodo che va dal 1966 al 1969 (ma pare che in realtà sia continuato fino alla morte del dittatore, dieci anni più tardi) un “retaggio della borghesia”.

A dirla tutta anche i grandi risultati ottenuti prima di sbarellare vengono considerati modesti, se paragonati a quelli, per esempio, di Taiwan, che è riuscita a ottenere gli stessi risultati senza ammazzare nessuno, o dell’India.

La Cina di Mao, dal 1949 al 1979, ha perso un numero di abitanti che a seconda delle stime varia da 20 a 80 milioni, fra carestie, epurazioni e guerre. I suoi successori hanno portato avanti le stesse politiche repressive, e ad oggi la Cina non può considerarsi un Paese libero né democratico, nelle sue prigioni si pratica ampiamente la tortura e gli attivisti per i diritti umani sono fra le vittime preferite della polizia.

Un centocinquantesimo della coda

Alla luce di queste considerazioni viene da chiedersi che cazzo abbiano i cinesi da riconoscere a questo tizio. Poi mi viene in mente un’altra cosa.

Il tasso di alfabetizzazione totale è di oltre il 96%, le città sono enormi monumenti al progresso, ma se esci dai grossi centri urbani la situazione cambia drasticamente, e non so quanto sia facile per l’abitante di un villaggio dello Xinjiang avere accesso a un’informazione diversa da quella ufficiale. Intendo un abitante di etnia Han, la più diffusa, perché se sei un uiguro non hai accesso a un cazzo di niente tranne giusto un campo di rieducazione.

Quindi tu sei un cinese che vive in qualche città di secondo piano, hai una discreta occupazione che ti permette di tenerti al riparo da sfratti improvvisi e un reddito sufficiente da permetterti qualche viaggio nella capitale. Dal tuo punto di vista la Cina post imperiale era una terra di briganti finché non è arrivato Mao a salvarla, ha cacciato i giapponesi, ha cacciato il kuomintang, ha dato il via a un processo di crescita che ti ha portato oggi a essere la più grande potenza economica al mondo.

E cosa fai, non lo vai a ringraziare uno così?

In effetti i Pechinesi non ci vanno a rendere omaggio a Mao, te ne rendi conto all’imbocco dei sottopassi e agli attraversamenti pedonali, dove stanno i tizi in divisa che gestiscono la fiumana di persone: ci sono sempre gruppetti di turisti che chiedono informazioni, qualcuno che si infila nel sottopasso contromano e fa smadonnare qualche centinaio di locali (sull’incapacità dei cinesi di stare al mondo dovrei aprire un capitolo a parte, ma non lo farò per gentilezza. Ci tornerò spesso,comunque), famiglie di sei sette individui che ciondolano con aria smarrita in mezzo alla piazza. Sono i cinesi di provincia, gli stessi che mi si avvicinano nei luoghi turistici e mi chiedono di fare una foto con loro perché non hanno mai visto un occidentale, perlomeno uno così peloso.

appena prima di entrare

Gli occidentali in coda non li ho visti, giusto una ragazza bionda piuttosto sgamata, che alla seconda curva aveva già superato tutti e si allontanava fendendo la folla. In compenso ogni genere di umanità dagli occhi a mandorla e i vestiti assurdi: durante l’ora e mezza di coda (la mia stima iniziale si è rivelata fin troppo ottimistica) mi sono transitati davanti come su una passerella alla Settimana della Moda Scrausa tizi vestiti da cowboy, magliette in un inglese improbabile, marche italiane taroccatissime, mamme con prole al guinzaglio e una nonna d’assalto che trainava il passeggino col nipote dentro.

A mano a mano che ci si avvicinava all’ingresso il passo si faceva più lento, fino a fermarsi del tutto in prossimità del cancello. Qui siamo stati divisi in due file e invitati a entrare in un piccolo edificio, dove vengono controllati i documenti e ritirate le bottiglie d’acqua. Di lì in avanti sarebbe vietato fare foto, ma almeno fino all’ingresso del mausoleo vero e proprio il massimo che ricevi è un richiamo verbale.

Al di là del recinto sei ancora in coda, e ci resterai fino all’uscita: il pellegrinaggio alla tomba di Mao non prevede soste, stai intruppato nella tua versione ridotta della Lunga Marcia fino alla fine. Lungo l’ultimo tratto del percorso alcuni venditori ti offrono un giglio con cui omaggiare la salma.Costa 3 RMB, 37 centesimi di euro. Molti lo prendono e una volta all’ingresso lo vanno a depositare nella prima sala, su un tavolo che ne è già pieno.

Considerato che sono stati comprati venti metri prima e sono ancora tutti confezionati intatti non mi stupirei se ogni tanto gli inservienti li facessero su e tornassero a venderli a quelli ancora in coda fuori.

Il resto della sala è composto da una statua di Mao benedicente circondata da vasi (quelli no, non li portano i fedeli). Qui fare le foto ti costa molto più di un richiamo: un tizio davanti a me è stato fermato, gli hanno controllato il telefono e cancellato lo scatto incriminato.

appena fuori

Poi si entra nella seconda sala, quella del sarcofago. Due lunghe file scivolano silenziose ai lati della teca di vetro che conserva la salma. La luce è bassa, ma il cadavere è illuminato a sufficienza. Ha la pelle di un colore che non è più quello dei vivi e non è mai diventato quello dei defunti, lucida come quella delle statue di cera. In effetti nessuno ti garantisce che la figura nel sarcofago di vetro sia mai stata viva, né hai modo di capirlo di persona, dato che ci passi parecchio distante e senza poterti neanche fermare. Ma tanto, per quel che mi riguarda, l’unico metodo che conosco per scoprire se un cadavere è vero o di cera è quello di aspettare l’apocalisse zombi e vedere se si risveglia. A quel punto gli spari in testa: se diventa uno zombi lo uccidi di nuovo, sennò gli metti uno stoppino nel buco in fronte e ci fai la candela più invidiata dai vicini.

Cinque minuti dopo sono fuori, sul retro del mausoleo. Davanti a me la porta di Qianmen e diverse bancarelle di souvenirs, che vendono gli stessi prodotti di quelle all’ingresso del santuario di Lourdes, solo con un personaggio diverso.

Per un paio di euri mi faccio una scorta di spillette con la bandiera cinese, la faccia di Mao e tante altre comunistezze su sfondo rosso.

Stanco ma appagato torno a casa, che c’è da chiudere la valigia. Stasera si parte per la Cina più profonda!

Piove, uggia, trista. Il tempo migliore per andare a vedere Yíhé Yuán (頤和園),il Palazzo D’Estate dell’imperatore. Quello vero però, non la copia scrausa dell’altra volta.

Che poi sarebbe dell’imperatrice, visto che venne fatto costruire dalla vedova Cixi come residenza estiva, ma non mi metterò a raccontare la storia del sito, che è lunga e si trova su wikipedia.

Esco di casa e scopro con gioia che la temperatura si è abbassata notevolmente, ora invece di avere un phon che ti soffia in faccia ti sembra solo di stare nello spogliatoio della piscina.

Prendo la metro e scendo alla fermata giusta, da lì seguo la folla fino all’ingresso Nord, poco più avanti.

Il biglietto comprende diverse attrazioni, ma non ho capito quali siano; forse la mia Lonely Planet lo spiegherebbe anche, ma non ho voglia di leggere, le do solo qualche occhiata ogni tanto. Sarà perché ho comprato la versione inglese, l’unica approfondita su questa città; in italiano trovi solo una National Geographic striminzita su Pechino e Shanghai o un volume enorme che copre tutta la Cina. Mi sto impigrendo, leggo malvolentieri in inglese, non spiccico una parola di cinese e quando mi puntano una pistola in faccia gli do direttamente il portafogli senza sbattermi a contrattare. Di questo passo dove andremo a finire? È tutta colpa dei social, secondo me. Vabbè, faccio il biglietto e passo i cancelli.

La visita inizia subito in salita, perché c’è un bordello di gente e perché è, in effetti, in salita: superato il ponte sul fiume, che scavalca un porticciolo grazioso, inizia la scalata alla Collina della Longevità, il cui nome fa intuire che non sarà certo sui suoi tre milioni di scalini ripidissimi che ti schianterai, vai avanti impavido!

Come la maggior parte dei palazzi cinesi anche questo è composto da diversi edifici che fungono da porte. Salendo ne attraversi diverse, alcune sobrie in cima alle mura di una specie di fortezza, altre più decorate.

In cima alla collina c’è un tempio con le pareti ricoperte di piccoli Budda scolpiti, qualche bancarella di souvenirs e tre ragazzini che in un ottimo inglese mi hanno chiesto di fare una foto con loro.

Poi sono sceso dall’altra parte attraverso un bosco, giù per un sentiero reso scivolosissimo dagli aghi di pino e dall’umidità, e ho raggiunto il lago.

Come tutti i palazzi imperiali anche questo è pieno di colori, resi ancora più vividi dal contrasto con la vegetazione scura. I templi spuntano fra gli alberi, la collina restituisce un aspetto più vivace della monotonia pianeggiante offerta dalla Città Proibita. E il lago è enorme e pieno di barche. La maggior parte sono traghetti che fanno la spola da un lato all’altro, li riconosci dalla prua a forma di drago, ma ci sono anche tantissimi pedalò in affitto. Con questo caldo, madonna.

Prima di salire a vedere la torre, l’elemento più appariscente del complesso, prendo il traghetto per fare un giro del lago, ma non è un battello per giri panoramici, è un servizio di trasporto vero e proprio, e mi molla dall’altra parte di questa superficie enorme. Col cazzo che torno a piedi, vado a vedere un altro tempio su un isolotto al di là di un ponte parecchio imponente e poi rifaccio la fila per tornare da dove sono partito. Nel frattempo faccio la foto alla statua di un bue di bronzo: dopo il toro di New York la mia collezione di bovini metallici si va allargando.

Sul traghetto del ritorno una ragazza mi si siede accanto e mi domanda una foto insieme. Certo, rispondo, ma ne voglio una in cambio sennò i miei amici dicono che tutte questi ammiratori me li sono inventati.

Per quella sul suo telefono usa un filtro scemo che ci disegna le orecchie da coniglio. Ma perché le asiatiche si abbandonano tutte a questi atteggiamenti infantili? Non credo che potrei mai stare con una di loro.. oh wait…

Sbarcato nuovamente da dove ero partito mi sembra l’ora giusta per abbandonare il complesso, così risalgo a fatica la collina passando per la torre, vado a visitare il tempio coi budda scolpiti sulle pareti e ne trovo un altro gigantesco all’interno, quindi ridiscendo dall’altra parte più che soddisfatto della visita e me ne vado a prendere la metropolitana.

Mi fermo solo per visitare il porticciolo sotto il primo ponte, che non è niente di speciale, giusto una passeggiata senza protezioni su un molo strettissimo per vedere negozi di qualunque genere di pacchianeria turistica.

Scoprirò solo molto più tardi di avere saltato tutta la parte riservata alle stanze dell’imperatrice, con gli arredi, i mobili e quelle cose che ti fanno capire come vivevano in un posto del genere, e che fin dal mio primo viaggio in Cina mi sono domandato perché non ci fossero mai: di solito visiti una di queste strutture e passi da un tempio all’altro, da una sala del trono all’altra; i cartelli ti spiegano che lì dove adesso c’è un negozio di souvenirs prima stavano i sacerdoti di questo e quell’altro, e laggiù dove sono appesi tutti quei pannelli con la storia della ricostruzione del palazzo una volta si conservavano i fagioli. Vabbè, mi sono chiesto, ma i mobili? Tipo l’imperatore dove mangiava? La sua camera da letto si può vedere? All’interno della Città Proibita non lo so, nella metà che ho visitato non c’era niente, ma qui si può, sta tutto in quella parte di struttura a destra del lago, guardando il palazzo. Quella che non mi sono cagato.

La sera andiamo al Temple Bar, il locale di musica dal vivo che somiglia a quello che frequentavo a Genova quand’ero pischello. Ci avevamo fatto un salto la sera di Natale, ma non c’era nessuno. Stasera suona un gruppo italiano milanese, gli Octopuss, con due esse.

Non ho capito come abbia fatto un trio funk rock milanese a finire in una tournèe cinese, ma a quanto pare da queste parti hanno un discreto seguito, non è la loro prima volta, e leggendo in giro ho scoperto che partecipano a una sorta di scambio culturale fra Italia e Cina. La loro pagina su youtube è piena di esibizioni nelle principali città del Paese.

Sono bravi, meriterebbero più pubblico di questi quattro gatti, me e fidanzata compresi. Shasha mi chiede se voglio andare a salutarli, ma non mi va di farmi riconoscere come italiano, non saprei cos’altro dire tranne “ehi bravi, sapete, sono italiano anch’io”. Estigrancazzi. Poi penso che la maglietta di Emergency che sto indossando mi identifica fin troppo bene, rivelando oltre alla cittadinanza anche le simpatie politiche.

Giovedì 9 agosto

La regola, quando sei in vacanza, è che ti alzi un po’ quando ti pare. Questo diventa ancora più vero quando la tua fidanzata, che non è in vacanza, si alza alle sette per andare a lavorare e di colpo è l’ora di punta in metropolitana: accende tutte le luci di casa, sbatte tutti gli sportelli e ti parla a voce altissima come se invece che sotto le coperte con gli occhi chiusi e la bolla al naso fossi in cucina a prepararle la colazione. L’unica differenza fra la camera da letto e la fermata di Sanlitun è che sono ancora orizzontale e in mutande.

Chiaro che appena se ne va rispengo la luce e mi rimetto a dormire.

Il piano al risveglio sarebbe di andare a vedere la tomba di Mao. Shasha non capisce questo mio interesse per i morti imbalsamati, già a Natale ho tentato di visitare il mausoleo e ho trovato chiuso, mi chiede se ho un problema di necrofilia. Le dico che no, sono solo curioso di vedere un cadavere imbalsamato, specie se è quello di un leader mondiale. E poi mi affascina la venerazione che gli tributano i cinesi, come se fosse un santo laico.

Insomma mi preparo, esco e, come tutte le volte, finisco imbottigliato all’ingresso di piazza Tiān’ānmén, dove devi sempre esibire il documento e si creano delle code allucinanti.

Chiaro che al momento di entrare nel mausoleo è passato mezzogiorno e hanno già sbaraccato. Anche la salma di Mao rispetta degli orari, quando stacca se ne torna a casa o si ferma a un baretto lì dietro a farsi un bicchiere con gli amici. Dicono che sia più simpatico di quel che sembra sul lavoro.

Vabbè, vado a Qianmen, appena lì dietro, e provo a ordinare il lu zhu huo shao. Però non dal tizio ostile, magari vado da un altro. Ma magari provo a mangiare un’altra cosa.

se mangi qui e sopravvivi diventi immortale, pare

Insomma, sono finito nel solito buco infame, sporchissimo, gestito da due donne di cui una lavava i piatti e l’altra sputava per terra, a mangiare i mian tiao meno invitanti della mia vita.

Non sono stato male, quindi almeno la cucina era pulita, oppure la cuoca non soffriva di malattie trasmissibili con la saliva.

Sulla via del ritorno mi perdo intorno alla solita piazza, trovo un grosso ufo, che poi sarebbe il teatro dell’opera, e lentamente ritorno verso l’hotel di Shasha, che mi aspetta per cena.

Finiamo la serata con una zuppa senza infamia né lode.

Lunedì 6 agosto

Ho chiaramente un problema coi parchi cinesi. L’anno scorso volevo visitare lo Yong he Gong (雍和宮), il tempio dei Lama, e nonostante si trovi proprio all’uscita della metropolitana, ben visibile, ho tirato dritto e mi sono infilato nel parco Ditan (地坛公园), poco più avanti. Per me i templi stanno nei parchi, facile.

Quest’anno l’ho rifatto, dopo una scrupolosa indagine su quale fermata della metro avrei dovuto prendere per visitare il Palazzo Estivo dell’Imperatore, e chiaramente senza chiedere aiuto a Shasha perché uomo no chiede informazione, uomo arrangia, ho deciso che la fermata giusta era Yuanmingyuan (圆明园) invece di Beigongmen (北宫门), la fermata successiva.

Quest’estate a Pechino andavano tantissimo le maniche separate dalla maglietta.


Poco male, una sola fermata di differenza cosa vuoi che cambi?

Cambia che se non sai leggere le indicazioni in cinese paghi il biglietto ed entri nel Parco delle rovine del vecchio palazzo estivo (圆明园遗址公园), che sta proprio accanto all’altro.



E come avrei potuto accorgermene? Secondo la Lonely Planet c’è un lago, e questo è chiaramente un lago, ma dove dovrebbe esserci un palazzo c’è quello che con palazzo fa rima. Tre ore a camminare nella giungla insieme a un milione e mezzo di cinesi rumorosissimi e altrettanto rumorosissime cicale, che però in proporzione sono dieci volte tanto.

A quel punto, chiarito l’equivoco, sarei potuto uscire e andare a visitare il parco giusto, ma mi ci sarebbero volute altre tre ore, così ho proseguito la visita fingendo di trovare davvero molto interessante l’area su cui sorgeva il Palazzo prima che, nel 1860, durante la Seconda Guerra dell’Oppio, l’esercito inglese lo distruggesse.

A capo dell’operazione fu Lord Thomas Bruce, conte di Elgin, Alto Commissario britannico in Cina, che colse l’occasione per depredare le rovine di tutto quello che gli capitò sottomano. Non è un caso che la stessa persona fu responsabile della spoliazione dei marmi del Partenone, e adesso se vuoi vedere il tempio greco nella sua interezza devi farti un viaggio ad Atene e uno a Londra.

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La maggior parte degli edifici era fatta di legno su una base di pietra, per questo la stragrande maggioranza di ciò che resta sono le fondamenta degli antichi padiglioni, alte un metro, in mezzo all’erba. Uno dei più curiosi, almeno per noi occidentali, è quello a forma di svastica che sorge su uno dei laghetti. Non si tratta del simbolo nazista, ma del più antico simbolo religioso, coi bracci prolungati verso sinistra, in senso antiorario. Per poterne cogliere la forma è necessario arrampicarsi su una delle collinette che circondano lo specchio d’acqua e aguzzare la vista. Ben poca soddisfazione per uno che voleva vedere la principale attrazione cittadina dopo la Città Proibita.

“Fortuna – Biella – Italia”, con la F del logo Fila

Terminata la visita, fingendo di esserne rimasto molto soddisfatto, sono tornato in centro e con la mia fidanzata ho raggiunto il quartiere di Qianmen, dove sorge l’imponente Porta Zhèngyángmén.

Situata sul lato sud di Piazza Tiān’ānmén, questo massiccio edificio è ciò che resta degli antichi bastioni che circondavano l’area, insieme alla Torre degli Arcieri che le sta di fronte.

Non so se i due edifici siano visitabili, non ho visto persone entrarci, ma non ero granché interessato: stavamo andando da Siji Minfu a mangiare l’anatra alla pechinese, il mio stomaco aveva tutta la mia attenzione.

Dalla Torre degli Arcieri parte Qianmen Street, la classica strada pedonale su cui si affacciano negozi delle principali marche straniere e locali. Un po’ più interessante è una delle strade che la attraversa, Dashilar, dove le marche occidentali non trovano spazio ed è tutto un susseguirsi di scarpe taroccate e roba da mangiare. Oppure i vicoli, che poi è dove ci siamo diretti noi, dato che Siji Minfu sta in uno di questi. Ha anche un ristorante più grande e figo, ma questo costa meno.


lu zhu huo shao dovrebbe significare “bollito e cotto”, ma non fidatevi del mio cinese

Prima dell’anatra ci fermiamo in una bettola dove servono il lu zhu huo shao (卤煮火烧) uno stufato di maiale dove al posto della carnazza mangi polmoni, trippa, intestino, fegato e tofu. Mi faccio spiegare bene come si chiama perché voglio tornarci e ordinarlo da solo. Shasha mi spiega che è facile, in questo posto è l’unico piatto: c’è un grosso pentolone all’ingresso, tu ti siedi e al cameriere dici “uno”, lui se ne va e torna con una tazza fumante.

Gli avventori ci osservano con una certa ostilità, il cuoco dietro al pentolone non vuole che gli faccia la foto. Magari se torno da solo scelgo un altro locale, tanto qui intorno c’è pieno.

Sull’anatra di Siji Minfu ho poco da dire, mi è piaciuta di più quella di Natale al Made In China per il servizio, ma eravamo in un hotel a 5 stelle, ci mancherebbe che il servizio fosse ordinario. Questa comunque vale l’attesa, se vi piace l’anatra alla pechinese.

Neanche le zampe abbiamo lasciato!

Martedì 7 agosto

Mi lascio convincere che i pechinesi in macchina non sono pericolosi come sembra, e decido di fare un giro con la bici della mia fidanzata, molto migliore degli scassoni che puoi affittare in giro.

Perché a Pechino le bici le trovi ovunque, te le tirano proprio dietro. Hai un’applicazione sul telefono con cui sblocchi il lucchetto digitando un codice e inizi a pedalare. Quando non ti serve più la molli, possibilmente in un parcheggio per biciclette, ma il più delle volte dove capita. Ho visto bici nelle aiuole, ricoperte dai rampicanti o inglobate dalle siepi.

Le aziende che noleggiano bici a Pechino sono due, Ofo, che abbiamo anche qui, e l’altra che non mi ricordo. Cercando su google ho trovato quest’articolo che mi suggerisce Mobike, e parla di un terzo fornitore da poco sul mercato in città, ma non mi pare né il nome giusto né di avere visto altre marche in giro. Sono tutte bici da passeggio dall’aspetto pesante: le Ofo costano di più e hanno le ruote più grandi, mentre le altre, di cui posso fornire testimonianza diretta, sono delle Grazielle più goffe, e per fare un chilometro devi sudare come a una tappa montana del Giro d’Italia.

La bici di Shasha appartiene a una categoria decisamente superiore, col telaio leggero e le ruote da corsa, ti permette di coprire lunghe distanze senza faticare. Essendo priva di rapporti è un po’ limitata quando cominci a prendere velocità, ma tutto sommato è un bene: su quelle piste ciclabili lunghissime e larghissime rischieresti di piantarti al primo incrocio.

La bici aveva bisogno di una gonfiata alle gomme, perciò mi sono fatto spiegare da Google come si dice “gonfiare le gomme” in cinese e sono partito verso Chongwenmen, che mi sembrava una zona abbastanza affollata da avere un’officina per le biciclette.

Non ne ho trovate, e quando pronunciavo la mia frase a memoria ricevevo risposte che non ero in grado di capire, non avendo imparato anche le possibili risposte.

Un signore sotto l’ombrellone mi ha indicato una strada e ha fatto un gesto con le braccia che poteva significare “grande” oppure “mongolfiera”. Ho pensato che in entrambi i casi sarebbe stato qualcosa di molto visibile, e sono partito in quella direzione.

Sono tornato verso casa, l’ho superata e ho continuato a pedalare nella direzione opposta, ma di officine neanche l’ombra. E neanche di mongolfiere.

Mentre ero fermo a consultare la mappa sul telefono due uomini dal marciapiede mi hanno detto qualcosa, così ho risposto “gonfiare le gomme”.

Si sono consultati un attimo, poi hanno indicato un punto più avanti, mi hanno spiegato che avrei dovuto svoltare a destra, ma non alla prima, alla seconda.

Mi sembravano parecchio sicuri di sé, e poi cos’avevo da perdere?

Dopo avere svoltato alla seconda mi sono trovato in un hutong, a sorpresa. Non sapevo che ce ne fosse uno così vicino a casa. Ho proseguito e sono finito davanti a una baracca di lamiera, senza porta e priva di una parete, dove degli uomini molto sporchi stavano armeggiando intorno a pezzi di motorino.

Ho sparato la mia frase, di cui ormai mi sentivo sicurissimo, e questi hanno fatto cenno di sì. Finalmente!

Da dietro la baracca è spuntato Bilbo Baggins, una creatura dall’aspetto di un bambino di dieci anni ma coi baffi, e ha attaccato a pompare con vigore olimpico, mentre gli altri guardavano me e la bici e commentavano cose irripetibili (non che fossero cose brutte, è che proprio non le saprei ripetere). Quando ha finito ho ringraziato e me ne sono andato. Nessuno mi ha urlato dietro ladro fermati, quindi deduco che in Cina farsi gonfiare le gomme nella tana degli hobbit è gratis.

Sono uscito dall’hutong di fronte all’incrocio di Chongwenmen, dov’ero già arrivato prima, ed essendo già sulla strada giusta ho proseguito verso nord, per arrivare all’hotel di Shasha. Non sono entrato perché a quel punto avevo già la maglietta zuppa di sudore, stavo facendo attività fisica a un tasso di umidità tropicale, e ho proseguito infilandomi in una strada appena lì dietro.

Era un ospedale. Immaginate un cortile di ospedale, coi barellieri, le ambulanze, gli infermieri in camice, i parenti in visita e uno scemo in bici che cerca di levarsi dalle balle il prima possibile.

Andare in bici a Pechino ti permette di capire qualcosa di più di questa città e della gente che la abita. A Pechino non importa se hai la precedenza, se il semaforo ti dice che puoi passare e se sei su una pista ciclabile: qui queste regole sono considerate semplici suggerimenti dati da qualcuno che pretende di saperne più di te.

Ogni strada è affiancata da una corsia per le bici larga abbastanza da consentire il passaggio di un’automobile, e da un marciapiede, spesso ancora più largo. Le macchine passano più che altro sulla corsia a loro dedicata, ma ogni tanto si infilano nella ciclabile, se devono posteggiare, se devono svoltare a destra, se hanno fretta, se non gliene frega un cazzo; le moto sono rare, i Pechinesi vanno tutti in giro sui motorini elettrici, che non richiedono l’uso del casco, e occupano abbastanza equamente la corsia ciclabile e il marciapiede. Qualcuno ogni tanto passa per la strada carrozzabile, ma viene guardato con sospetto e di solito dopo un po’ smette.

I pedoni camminano sul marciapiede e sulla pista ciclabile senza notare alcuna differenza. È difficile capire se lo facciano per rappresaglia verso i motociclisti invasori o se siano i motociclisti ad aver reagito al comportamento invadente dei camminanti, ma ad oggi sembrano aver trovato una convivenza pacifica in entrambe le corsie: se cammini sulla ciclabile dopo un po’ qualche apino ti arriva dietro e ti suona, ma finisce lì. Sul marciapiede una volta sono stato investito da un motociclista che guardava il cellulare, ma a parte le mie bestemmie in una lingua a lui sconosciuta non ci sono state conseguenze. D’altronde funziona così dappertutto, vai piano e stai attento, perché chiunque all’improvviso potrebbe tagliarti la strada.

Anche agli incroci, naturalmente, è il caos. Tranne quelli sui viali più trafficati, dove degli addetti in divisa regolano gli attraversamenti di pedoni e mezzi a due ruote grazie a bassi cancelletti che si aprono a fisarmonica e ai loro modi bruschi, in tutti gli altri casi fai un po’ come ti pare. Se sei un pedone puoi finalmente avere la tua rivincita, aspettando che scatti di nuovo il rosso per attraversare in tutta calma: una volta ho provato l’ebbrezza di fermare un taxi che stava ripartendo mettendogli una mano sul cofano.

La mia fidanzata mi ha spiegato che nessun automobilista è sceso a picchiarmi solo perché in quanto straniero godo di quella strana immunità figlia dell’ignoranza linguistica e di una specie di imbarazzo, ma se fossi stato cinese sarebbe scorso il sangue. Le ho risposto che ho deciso di attraversare dopo aver visto buttarsi in strada un uomo che ne spingeva un altro su una sedia a rotelle.

“Stava cercando di farlo investire! I portatori di handicap sono un peso per la società!”

Il mio giro in bici attraverso la città è stato interessante, lungo, e mi ha permesso di scoprire quartieri che non conoscevo, come Sanlitun, dove i palazzi moderni ospitano un sacco di negozi e ristoranti esattamente come i palazzi più vecchi e come grossomodo la maggior parte delle aree cittadine, ma sono parecchio più fighi; sono passato per il quartiere residenziale delle ambasciate, dove davanti a ogni villetta c’è una guardia armata e un cancello corazzato; ho scoperto come si vive dietro i viali, con le ruspe che tirano giù palazzine per ricostruire edifici stilosi, e persone che escono in ciabatte per comprare la verdura sotto casa; mi sono bullato ai semafori coi ciclisti cinesi, che arrancavano sulle loro bici a noleggio per attraversare l’incrocio, mentre io in due pedalate ero fuori dalla loro vista; ho scoperto che d’estate, sotto ogni ombrellone aperto in strada c’è qualcuno che ti vende bibite fresche, che le guardie al Soho Galaxy indossano una pettorina con scritto “Secuity” perché l’inglese in Cina lo parlano davvero in pochissimi, che certe volte per attraversare un viale particolarmente trafficato ti conviene caricarti la bici in spalla e prendere la passerella sopraelevata, che in giro per la città ci sono certi palazzi costruiti in quello stile austero e pesante della Russia brutalista che mi fanno venire voglia di vedere tutto, fotografare tutto, e poi organizzare un viaggio in Russia e poi comprarmi l’orologio a cucù più figo del mondo.

Quando torno a casa ho giusto il tempo di fare una doccia e raggiungere Shasha fuori dall’hotel, che andiamo a cena da Din Tai Fung a mangiare gli xiao long bao più buoni del mondo.