Forse non diventai un accattone seriale. Forse lo ero sempre stato, inconsapevolmente.

Sul pianerottolo di casa mia c’è uno scatolone in cui conservo i sacchi di plastica vuoti del pellet. Sono belli grandi, li posso utilizzare comodamente per la differenziata: lì ci metto il vetro, in questo la plastica, in quello la carta e in questo ci butto la sabbia usata dal gatto.
Acanto allo scatolone c’è la scarpiera, l’asse da stiro, la scopa, la paletta, lo spazzolone, scarpe buttate a caso, un secchio. Se arrivi al mio pianerottolo è normale pensare qui ci abita uno di quei matti che si portano a casa ogni pattume possibile perché prima o poi può servire, e chissà come sarà dentro preferisco non scoprirlo mai ciao.

Sono dappertutto, li riconosci per strada dai vestiti a pezzi, tenuti insieme con pezzetti di filo elettrico o stringhe colorate o scotch da pacchi. Hanno sempre qualcosa in mano, una busta di plastica verdina contenente chissà quale tesoro, uno sgabello quasi intero, degli elastici.
Le tasche pendono sull’oblio, attaccate alla giacca per un paio di punti. Sbatacchiano incerte se lasciarsi andare al marciapiede o tornare a casa e rimandare la fine a domani, dopodomani al massimo. E così la loro vita perduta, di cui non si curano granché, prima o poi la rimetteranno a posto, si tratta solo di trovare il tempo e il filo del colore giusto.
Attraversano il giorno come falene, attratti dalla luce di un oggetto abbandonato davanti a un portone, una cicca seminuova, un giornale stropicciato. Non sanno cosa succederà domani, il loro orizzonte arriva alla soglia di casa che non riescono più ad aprire per tutte le scatole colme di promesse che ci hanno accumulato dietro. La loro esistenza è votata a quella ricchezza momentanea in cui infilano nella tasca sfondata una scatoletta di plastica e si sentono padroni del mondo. È facile quando il tuo mondo si è ridotto a un quadrato di strada intorno al bidone della spazzatura.

Il mio primo trofeo è stato un sasso. Un pezzo di granito levigato raccolto nel greto di un torrente, in Trentino. L’ho messo accanto alla tastiera del computer insieme a un pupazzetto di Snoopy che scrive a macchina.
Nessuna utilità, solo un valore sentimentale, come lo scontrino del Balebuste, i biglietti dei concerti, una vecchia maglietta slabbrata che fa sciatto anche come pigiama ma tant’è non ce la fai a buttarla.
Ho videocassette e floppy disk e caricabatterie per cellulari di cui non esiste più neanche l’azienda.
I libri che non leggerò mai mi ricattano con l’immagine di Montag il pompiere, i biglietti nascosti nei libri mi imprigionano a ricordi di cui non voglio sbarazzarmi. In fondo, per diventare un accumulatore seriale, serve solo una scusa plausibile.

“Non è proprio come lo volevo io, ma ne ho urgenza, per adesso me lo faccio andare bene”. E torni a casa con una fidanzata o un comodino senza gambe.
“Arriva l’inverno e il piumone non basta, ho trovato questa coperta ammuffita che basta lasciarla un po’ all’aria per levarle la puzza. E se la rivolti neanche si vede la macchia”. E ti sei trovata un’alternativa ai sabati sera con tua madre.

Dopo due settimane dalla mia svolta collezionistica stazionavo fisso davanti alla discarica comunale, in attesa di bottino, fischiettando con indifferenza. Dopo quattro settimane avevo perso ogni inibizione e mi infilavo in pieno giorno nel bidone dello staccapanni.

Non è vero che gli oggetti ti possiedono, sei tu che hai talmente bisogno di ancorarti a una certezza che quando non hai più nessuno, neanche te stesso, va bene anche la lavatrice:
“Vorrei andarmene da questa casa che odio, ma se smonto la cucina non sarò più capace di rimontarla, e allora è meglio se resto qui”.

Basta un attimo, una curva sbagliata, e non ti riprendi più.
Tre anni fa oggi vivevo in un’altra casa, avevo una fidanzata, un cane e tre gatti. Andavamo in vacanza due volte l’anno, vedevo la mia vita su un binario, dovevo solo preoccuparmi di mettere carbone e il resto del tempo era mio, per farne ciò che volevo.
Ero felice? Ero sereno, mi sembrava un compromesso accettabile.

Tre anni più tardi sono infilato a metà in un bidone buio, mi sto slogando una spalla per raggiungere con la punta delle dita quello che sembra un cappotto da donna in buone condizioni. Non lo indosserò mai, ma magari qualcosa di buono ci ricavo, l’importante è riuscire a pinzarlo fra l’indice e il medio e mantenere la presa mentre riporto il peso sul bacino e mi tiro fuori da questa trappola senza luce né aria.

Il cappotto è troppo pesante, mi sfugge dalle dita. Arraffo al volo qualcosa e mi tiro fuori.

C’è un uomo che mi guarda, a un metro. Ha gli occhi del colore dei miei e i capelli bianchi, è un po’ più alto, un po’ più vecchio, ma da lontano potrei essere io.
Mi ha visto infilato e ha pensato che fossi in pericolo, ma ora che capisce le mie reali intenzioni ha assunto un’espressione preoccupata e delusa. Più delusa che preoccupata, e questo mi mette a disagio.
Attraverso i suoi occhi vedo gli stracci che indosso e quelli che tengo fra le mani sporche, mi specchio nella miseria che sono diventato, mi sento male.
L’ho fatto di nuovo. Ho cercato di adeguarmi all’immagine che vedevo di me, ma è una battaglia persa, a diventare giudici di sé stessi non esiste nessuna clemenza.

È quella la mia vita per sottrazione, una corsa verso il basso a sentirmi adeguato senza riuscirci. Non posso riuscirci, per quanto tiri via dalla mia condizione, per quanto cerchi di semplificarmi le cose, di puntare a qualcosa alla mia altezza, è sempre tutto troppo difficile, troppo in alto. Non sarò mai abbastanza perché non è nella mia vita che non mi trovo, è in questi occhi che adesso mi stanno davanti.

Tutti i rifiuti, tutte le paure, il mostro nell’armadio e l’incapacità di muovermi. È sempre stato lui.

Vorrei dirgli che mi dispiace, chiedergli scusa per non essere stato il figlio che voleva, per averlo deluso. Non immagina quanto sia difficile portarsi sulla schiena un peso del genere.

Mi manca tutti i giorni, vorrei abbracciarlo e confessargli che mi sento solo, ma non capirebbe, e peggio, mi respingerebbe, e questa certezza mi toglie il respiro.

Mi limito a restare fermo davanti a lui senza guardarlo, in silenzio.
No, non in silenzio. Sto singhiozzando, e non me ne sono accorto.

Il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di psicanalisi, sebbene non fosse iscritto all’albo. Diamine, il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di qualunque cosa, era la mia wikipedia personale, se avevo bisogno di scoprire quale specie di scarafaggio infestasse la città di New York e quale quartiere ne fosse maggiormente colpito non avevo che da chiedere a lui: mi avrebbe fornito tabelle, filmati e interviste ai cittadini e agli scarafaggi.
Solo che di uno psicanalista non iscritto all’albo non sapevo che fare, a me ne serviva uno in grado di prescrivermi il farmaco con cui andare in overdose e farla finita con questa vita di merda.

Però il professor Delbruck aveva una copia delle mie chiavi di casa, che al momento stavano in cima alla lista delle priorità.

L’ho trovato seduto sulla finestra con la chitarra in mano che cercava di suonare Io Sono Fatto Di Neve. Non si è accorto di me, e me ne sono stato un po’ lì ad ascoltare questa canzone triste che mi stringeva lo stomaco e irradiava alcaloidi saturi di rancore.

Una volta una ragazza mi aveva dedicato una canzone di questo gruppo, un po’ di tempo dopo che ci eravamo lasciati. Si intitolava Una Palude, e parlava di come dopo la fine di una storia il cantante si sentisse di merda. L’avevo interpretato come un tentativo di ricostruire il rapporto fra di noi, ma mi sbagliavo. C’ero anche rimasto male, che scherzo del cazzo, ma vabbè, magari per lei il testo significava tutt’altro, non era molto brava ad interpretare le canzoni dei Ministri.
Mi ricordo che considerava Lei Non Deve Stare Male Mai come l’emblema della devozione cieca che un uomo deve avere verso la donna che ama, e io obiettavo che dietro quella venerazione veniva mostrato l’annullamento dell’individuo, e insomma, mi sembrava un rapporto parecchio egoista, ma la ragazza voleva quel tipo di relazione lì, non ci eravamo lasciati benissimo.

Da allora “cercare con estrema cura possibili compagni di avventura” era diventata una regola ferrea, per evitare sorprese.
Però mi spiaceva non averle dedicato anch’io una canzone, è un gesto che unisce la passione per la musica alla necessità di mandare un messaggio, ed è la cosa più pratica se non possiedi talento artistico, né una casa discografica, uno studio di registrazione e un album in uscita entro breve.
Scrivere un racconto non è altrettanto efficace, magari lei non legge racconti. Magari l’ultimo libro che ha letto è il libretto del dvd di Beyoncè che regalava TV Sorrisi E Canzoni. Magari è una capra. Ci sta di innamorarsi di una capra, le capre hanno belle tette e uno sguardo intelligente nel loro viso semita.
Chiedilo a Saba, quante cose trovi nel suo belato.

Ecco, con una canzone queste cose non succedono. Arriva dappertutto, la passa la radio.
Pensa a quando Tom Waits ha scritto Who Are You, pensa alla donna cui era dedicata. Pensa a come dev’essersi sentita ogni volta che la ascoltava alla radio e sapeva di essere lei quella che continua a scappare dalle finestre in abiti costosi.
Dio, come avrei voluto una ex stronza a cui dedicare Who Are You di Tom Waits.

Un rapido conteggio sulla punta delle dita mi ha fatto realizzare che ex stronze non ne avevo neanche una. Al limite squallide, ma non valevano la pena di essere ricordate.
Il pensiero mi ha gettato addosso nuovo sconforto, che mi ha riacceso l’ipofisi, che mi ha aiutato a sopportare il dolore, che mi ha reso di umore migliore, che mi ha quasi fatto desistere dal piano autodistruttivo.
Ma è stato solo un momento, ormai la decisione era presa. Mi sono mostrato al professor Delbruck e gli ho chiesto le chiavi di casa e un cocktail di barbiturici.
Mi ha dato solo le prime. Per l’altro ha detto di non volersi assumere la responsabilità. Però conosceva un buon analista in grado di aiutarmi.

Tempo una settimana e stavo seduto in uno studiolo a fissare una signora in pile coi capelli brizzolati, divisi nel mezzo in un taglio piuttosto mascolino. Più che una psicoterapeuta sembrava una guida alpina. Mi è venuto da chiederle se le piacevano le capre.

“Mi parli del suo rapporto con suo padre”

Ma che gliene frega a questa del mio rapporto con mio padre?

“Lei non si è sentito amato da bambino e sta inseguendo l’approvazione di suo padre”

Ma non mi può prescrivere del temazepam e lasciarmi abbracciare il mio destino senza tante menate?

“Mi descriva il rapporto con sua madre utilizzando solo aggettivi di tre sillabe”

Maledetti altruisti devoti alla salvezza dell’umanità, ma perché non vi salvate fra voi e ci lasciate in pace?

“Sua madre è stata iperprotettiva e le ha fatto perdere il valore della gratificazione. Perciò adesso lei si sente inadeguato qualunque cosa faccia.”

Il giuramento di Ippocrate comprenderebbe anche il rifiuto a operare i calcoli renali, se vogliamo essere coerenti fino in fondo.

Poi mi ha messo in mano dei fogli e una matita.

“Disegni il suo posto nel mondo, come si vede e come la vedono gli altri. Disegni le cose importanti per lei, disegni sé stesso mentre compie la sua azione preferita.”

L’ho guardata, ho guardato il foglio. Non so disegnare neanche l’omino stecco, mi viene tutto sproporzionato. L’ho guardata di nuovo.

“Se glielo mimassi?”

Mi ha fissato in silenzio.

Il figurativo era oltre le mie capacità, ho improvvisato un’opera astratta.
Mondrian, per esempio, coi suoi spazi regolari avrebbe rappresentato al meglio il mio bisogno di equilibrio, e di dare una forma a tutto ciò che vedo.
Non è facile andare dritti senza un righello, mi tremavano le mani per l’ansia da prestazione, e il prodotto finale sembrava più un Mirò. Ho cercato di aggiustarlo, ma ogni tratto di matita non faceva che peggiorare il lavoro. Alla fine ho consegnato un Pollock.

“Interessante. Lei dovrebbe imparare a valorizzarsi di più, vincere le sue paure ed essere più indulgente verso sé stesso. Si ricordi che i fallimenti fanno parte del gioco, e sono indispensabili per potersi migliorare, pertanto vanno accolti, e non demonizzati.”

“Va bene. Adesso potrei avere le mie pastiglie, per cortesia?”

“Mi spiace, io sono freudiana, credo nella guarigione attraverso una lenta e dolorosa presa di coscienza. Se vuole la strada facile deve rivolgersi a quei cazzari degli junghiani. Oltretutto non ci vuole molto a capire che lei e le dipendenze avete un bellissimo rapporto. Se le prescrivessi un oppiaceo non farei che spostarla da una prigione a un’altra, mentre quello che le serve davvero è di liberarsi.”

“Il mio piano era quello”, confessai. “Vorrei uccidermi.”

“Glielo leggo in faccia. E non cercherò di dissuaderla, i consigli non servono a niente, se non a farci sentire ancora più incapaci di seguirli. Ma ci sono diversi modi di arrendersi, e non tutti contemplano la morte. Non quella fisica, perlomeno.”

“Mi sta suggerendo di diventare un sommelier?”

“No, di trasformare i suoi fallimenti in un obiettivo.”

“Meno male, preferisco la ciucca anarchica a quella regolamentata”

“Lei sta spingendo un masso in cima a un monte, e ogni volta si frustra vedendolo rotolare di nuovo giù. Il fallimento le toglie la voglia di riprovare, e adesso ha deciso di arrendersi. Perché a cosa serve impegnarsi se il risultato è sempre zero?”

“Va bene non dissuadermi, ma non credo che l’istigazione al suicidio sia etico, dottoressa.”

“No, ma che suicidio. L’unico suicidio utile è quello della ragione. Lasci perdere il buon senso e si affidi alla pancia. Cerca sempre una ragione a tutto, ma non è detto che debba esserci per forza. Certe cose succedono e basta. Lo scopo non dev’essere per forza arrivare in cima, potrebbe essere anche solo spingere la pietra.”

“Uscirebbe con me domani sera?”

“Mi è proibito dal codice deontologico uscire con un paziente.”

“E se non fossi un paziente uscirebbe con me?”

“No”

“Questo danneggia la mia autostima”

“Ma preserva la mia. E comunque imparare ad accettare i rifiuti è un passo verso la guarigione.”

“Lo farò, grazie mille!”

Sono uscito più sollevato. Adesso sapevo cosa fare: avrei accettato i rifiuti. Anzi, di più, me li sarei presi in casa!

(continua)

Non so come facevano i nostri genitori a superare queste crisi ai loro tempi, quando non disponevano della tecnologia odierna. Come la pipetta di ventolin per un asmatico io non esco mai di casa senza il mio blister di ansie tascabili, la mia pastiglia di veleno per le emergenze. Mi sono infilato in un vicolo e, al riparo da occhi indiscreti, ho preso il cellulare e mi sono fatto una pera di facebook. Ognuno ha i suoi metodi preferiti, c’è chi prima scalda il cucchiaino con qualche commento salace e chi si infila diretto nel calderone dell’odio politico. Io cercavo dolore, è quella la mia droga. Più efficace, pulita e nobile dell’odio. Quello casomai viene dopo, per rifare la punta al paletto che mi pianto nel cuore.
Ho aperto la bacheca e li ho letti tutti, i vostri messaggi. Quelli dove siete in vacanza e non vorreste tornare più. Quelli dove scrivete RIP per commentare la morte di un personaggio famoso. Quelli dove avete ragione voi, che sono la maggior parte, avete sempre ragione voi su qualunque cosa, la ragazzina violentata e il cane abbandonato e la dieta salutista e i migranti e il referendum.
Avete. Sempre. Ragione. E questa cosa mi fa sentire solo, perché io ragione non ce l’ho mai, neanche quando vi vengo davanti e urlo, quando vi pugnalo al buio, quando vi ignoro, dentro di me lo so che sto sbagliando, e vorrei sedermi e chiedere scusa per tutte le volte che non sono stato all’altezza delle vostre aspettative, ma ho un orgoglio così duro e radicato che non lo sposto più, e l’unica cosa che posso fare è fingere. E intanto dentro si spande un’altra mano di catrame sul giardino dei miei buoni sentimenti.

Sono uscito dal vicolo che tremavo, ma mi sentivo meglio, più stabile. Sarei riuscito a tornare a casa.
Una signora con un cagnolino al guinzaglio mi ha chiesto se avevo bisogno d’aiuto, dovevo avere un aspetto orrendo. L’ho guardata, avrà avuto cinquant’anni, bionda, elegante. All’altra estremità del nastro colorato una specie di topo dal muso piatto mi fissava coi suoi occhi a palla.
In un’altra occasione avrei provato un sentimento di amore sincero per quella donna, ma ero in pieno rush vittimista, li volevo solo tutti morti. Ho dato una pedata al cane e me ne sono andato via, lasciando la donna a strillare “Gaetano! Gaetano!”. Dopo un momento è arrivato uno spilungone, evidentemente Gaetano, che mi ha inseguito e mi ha preso per un braccio.

“Perché hai picchiato Gaetano?”
“Eh non ho capito un cazzo”, ho risposto, divincolandomi e riprendendo a camminare.
“Sei un uomo di merda!”, ha insistito quello che a quanto pare non era Gaetano.

Ho sentito un istinto fortissimo a dipingermi un teschio sulla maglietta, imbracciare un Zastava M70 e dispensare giustizia dal marcato accento balcanico.
In tasca avevo solo le chiavi di casa, le ho strette nel pugno e ho colpito il tizio al volto, con tutta la forza di cui ero capace. Mi sono fatto malissimo. Lui no, non ha battuto ciglio e mi ha preso a scappellotti fino a farsi venire il fiatone. Non era molto in forma, sennò stavamo lì ancora adesso.

Mi sono riavviato verso casa con uno zigomo gonfio, la camicia stropicciata, gli occhiali storti. Dentro stavo messo peggio, che non lo sapevo come stavo dentro. Avevo voglia di piangere, ma mi sentivo stranamente reattivo, come se le botte fossero state quello che segretamente anelavo di ricevere da tempo. Una punizione per le mie brutture, una ragione per il mio perenne senso di colpa, mi sentivo come se avessi trovato finalmente il mio posto nel mondo. Ce ne volevano di più.

Ho chiamato un numero a caso della rubrica e ho insultato la persona che stava di là, così, gratis. Poi l’ho fatto col numero successivo e con quello dopo ancora. A quelli che non rispondevano spedivo un messaggio vocale su whatsapp in cui offendevo i loro genitori. Era pazzesco come mi facesse sentire libero! Fra una telefonata e l’altra mostravo il medio agli automobilisti, ma non si è fermato nessuno e finalmente ho raggiunto il portone di casa, miracolosamente vivo.

Ho scoperto di non avere più le chiavi: me le aveva strappate di mano il padrone di Gaetano e le aveva tirate oltre un muro, ma al momento ero troppo indaffarato a guardare l’altra sua mano che mi si schiantava in faccia. Dopo la colluttazione mi ero dimenticato di andarle a riprendere. Avrei dovuto farlo adesso.
Il mio corpo mi diceva di no, tutta l’adrenalina era stata riassorbita, lasciandomi esausto, e così le sostanze di cui andavo ghiotto. Mi sentivo svuotato e privo di scopi. La vita mi faceva di nuovo schifo. Di colpo l’eventualità di prendere altre botte mi faceva stare male, chissà perché.
E se fossi tornato indietro avrei rischiato di incontrare alcune delle persone cui avevo fatto gestacci, c’era la possibilità di rendere lo schifo attuale il gradino più alto di un disfacimento pericoloso.

Non riuscivo a trovare un equilibrio, mi sentivo sballottato su questo tagadà emotivo senza maniglie né orario di chiusura. Avevo paura che sarebbe durato per sempre, con me al centro a cercare di tenermi in equilibrio e a sbattere continuamente contro le persone che mi stavano intorno, fino alla totale distruzione. Era inevitabile che sarei morto, prima o poi, ma avevo sempre nutrito la speranza di arrivarci vivo.

È stato allora che ho deciso di uccidermi.

Perché se il destino di chiunque è morire bisogna cercare di rendere l’attesa un percorso piacevole, sfruttare quel poco che si ha nella maniera migliore, allontanare i guai, tenersi vicine le cose belle quando le si incontra, imparare e crescere e affastellare ricordi come fotografie su una parete, una addosso all’altra, una migliore dell’altra, tanto da spendere il proprio ozio a non saper decidere quale riguardare prima.
Ma se ogni passo verso l’inevitabile traguardo è in sottrazione, se quando guardi la tua parete la trovi spoglia e ogni foto che riprendi in mano, per ingiallita che sia, è migliore di quello che le sta di fronte, se la cosa più bella che hai è un letto dove spegnere la luce e il dolore ogni sera un po’ prima, se non trovi niente, non vedi niente, non senti di avere niente per cui andare avanti, allora non è più vita, è stare in coda ad aspettare il tuo turno per restituire questa roba che ti hanno prestato, e che non sei mai stato capace di far funzionare.
E allora meglio prima che poi. Meglio subito.

In casa avevo coltelli in quantità, prese elettriche, finestre abbastanza alte, corde.. Ero sicuro che il materiale non mi sarebbe mancato..
Ma come è meglio uccidersi? Perché questa cosa va pianificata, non è un gesto che si può improvvisare. Se poi non funziona rischi di ritrovarti disabile, in una condizione peggiore di quella di prima, e senza alcuna possibilità di porvi rimedio. Allora sì che diventa davvero aspettare di andarsene.
No, dovevo farlo per bene.
Il dolore non mi spaventava, ma avevo capito che mi faceva sentire meglio, e non c’è come sentirsi meglio appena prima di ammazzarsi per vanificare il gesto. Avrei dovuto trovare un modo indolore di togliermi di mezzo.
I sonniferi mi sembravano una soluzione perfetta: te ne cali trenta quaranta pastiglie, ti viene sonno, non ti svegli più. Pulita, sicura, senza sangue che fa brutto da trovare e se uno volesse riciclare il mobilio avrebbe dei problemi.
In casa non avevo sonniferi, come ho detto le mie droghe sono tutte endogene, e nessuna farmacia me le avrebbe vendute senza la ricetta. Avrei dovuto consultare un medico.

Fu così che mi decisi a farmi seguire da uno psicanalista.

(continua)