No, me la sto raccontando, in realtà è successo che mi è arrivata la bolletta del telefono risalente a luglio, quando mi facevo un sacco di telefonate con una persona che abita in una città del nord e parlavamo delle cose che si fanno in quella città del nord, tipo andare a vedere la Minetti che balla sul cubo all’inaugurazione di una biblioteca, e ci divertivamo un sacco e stavamo delle ore a parlare, ma si vede che poi il mio operatore telefonico non ha gradito e mi ha spedito le sue lamentele sotto forma di bolletta telefonica dove la cifra dovuta è espressa in dobloni d’oro e sotto c’è anche scritto ARRR!

Della persona che abita in una città del nord non so più niente, dopo una frequentazione piuttosto intensa è andata in una città che ha il sindaco che si chiama come me e non l’ho più sentita, forse ha fatto casino con le omonimie, chissà. È un peccato, ma certe cose sono fatte per succedere, non per rimanere, si vede che era una di queste. Mi resterà la sua voce, i suoi occhi chiari, cose eteree come i capelli sul cuscino, e la sua musica.

Comunque la posta di oggi mi ha fatto riflettere su quello che mi sto ponendo come obiettivo in questi ultimi tempi, e chiedermi se sto facendo le scelte giuste. Cosa vorrò fare da grande? Quanto ancora ho intenzione di sprecare risorse su futilità e passatempi inutili? Non sarebbe ora di crescere e dedicarsi a qualcosa di più concreto, qualcosa che rimanga?

A tutte queste domande ho risposto si, è ora di diventare grande, prendersi delle responsabilità, capire cosa voglio fare dei due terzi di vita che mi rimangono, se sono particolarmente fortunato, e cominciare a camminare in quella direzione. Ero convinto di avere già cominciato il mio cammino, poi la strada si è interrotta nel Chiapas, davanti a un chiosco che vendeva magliette del Subcomandante Marcos prodotte a Taiwan. Il tizio che stava dietro al banchetto non ha saputo aiutarmi, ha detto che lo pagavano per stare lì e con quei pochi spiccioli ci manteneva la famiglia; lui la rivoluzione non l’aveva mai vista, faceva la stessa vita pulciosa di suo padre e di suo nonno, ma non voleva che sua figlia restasse incinta a tredici anni e finisse incastrata nello stesso destino di merda che era toccato a tutti quelli che conosceva. “È brava, sa disegnare molto bene!”, mi ha detto, e ha tirato fuori dei fogli colorati. “La manderò a scuola in una grande città degli Stati Uniti, diventerà qualcuno!”.

Forse alla fine c’era davvero qualcosa per me in fondo a quella strada, la lezione che quando non hai un cazzo di niente anche le briciole sono un cambiamento positivo.

Più o meno è dove mi trovo adesso, non ho niente, solo dei libri sul pavimento e un cane che mi dorme sul letto, ma ho imparato a fare la crostata, a ripetere più o meno a memoria gli accordi di Redemption Song e a non farmi seppellire dal disordine. Non è molto, è un inizio. Questo mese avrei voluto iscrivermi di nuovo al corso di portoghese, perché è bello imparare cose nuove, ti fa stare bene, ma vorrebbe dire affidarsi alle amorevoli cure del prof. dott. Hans Delbruck e del suo team di chirurghi per vendermi anche l’altro rene. La scorsa volta ci hanno messo al suo posto un’armonica a bocca, dicono che tanto funziona lo stesso e in più quando ti pieghi fai un suono piacevole, ma non credo che togliendoli entrambi si viva benissimo, ho preferito rinunciare.

Vabbè, è di questo che volevo parlare, all’incirca, solo che quando comincio non so mai dove andrò a finire e certe volte mi impantano in situazioni inaspettate, come quella volta in cui mi ha telefonato il papa, ma questa magari ve la racconto un’altra volta.

Tanto tempo fa scrivevo su queste pagine (che ancora erano le pagine di splinder, ma se risalite ai mesi precedenti le trovate su queste pagine, perciò è inutile fare tante questioni) una rubrica intitolata Campionato Mondiale di Referrers, dove cercavo di dare soddisfazione ai visitatori accidentali del mio blog, quelli capitati chissà come, cercando foto di Sbirulino in reggicalze. Mi mettevo lì e pubblicavo una foto del pagliaccio mezzo nudo, contando che alla visita successiva i miei anonimi frequentatori avrebbero appagato i loro pruriti. Ovviamente non capitavano solo gli appassionati di nudi da avanspettacolo, le chiavi di ricerca del mio blog erano stracolme di assurdità, tanto che ci sarebbe stato da scriverne per mesi.

Non lo facevo solo io, il mio amico Hardla curava sulle sue pagine una rubrica simile, chiamata “La posta dei lettori“, che faceva molto ridere, ed è ben strano, perché chi lo conosce lo trova di solito una persona noiosa e pedante e che non sa perdere alle cacce al tesoro. Purtroppo ad un certo punto della sua vita ha scoperto l’opera lirica, e adesso trascorre tutto il suo tempo libero a fotografare cantanti e scorci di teatro, ad impararsi a memoria le arie più difficili del Parsifal, tipo quel pezzo che dice “Stunztumpatafûlmen ho finito le rape rosse” e il suo blog è finito alle ortiche, e io mi sono trovato senza niente da leggere e mi è toccato abbonarmi a Internazionale, dove c’è anche la posta dei lettori, ma non è divertente come quella di Hardla.

Adesso ero qua senza niente da leggere, che Internazionale nuovo non è ancora arrivato, e mi arriva un’email da un sito che si chiama Timehop Abe, che ogni giorno mi dice cosa scrivevo su facebook un anno fa (lo so, voi persone normali lo troverete un servizio assurdo, ma per noi malati di alzheimer è piuttosto utile): io un anno fa finivo di leggere l’ultimo volume del Trono di spade, quello che in Italia ne sono usciti solo due terzi e ancora stanno a chiedersi. Io un anno fa finivo tutto il libro e ci restavo così, con un grande interrogativo che si pone sempre chi legge un libro di Martin, e non vi sto a dire quale perché magari voi non l’avete ancora letto, e poi perché stavo parlando d’altro, non so come ci sia finito a parlare di tronidispade.

Comunque è un anno che resto senza niente da leggere, e di solito risolvo rileggendo il mio vecchio blog, o sbirciando le statistiche, che sono una cosa piatta e desolante che poi ci credo che mi scrive la tizia spammer esperta di siti web che mi chiede di collaborare e mi presenta un curriculum che sticazzi, ma allora mi chiedo perché col tuo curriculum che sticazzi ti sei ridotta a chiedere l’elemosinaa uno che fa il blogger a tempo perso e lo leggono al massimo in venticinque di cui venti sono sempre lui quando non ha altro da leggere?

Insomma che stavo dando un’occhiata alle chiavi di ricerca, e ce ne sono certe che ueila! Sarebbe il caso di rispondere a queste certe, mi sono detto, e allora sai cosa? Rimetto in piedi il Campionato nazionale di referrers, ma con un titolo meno pretenzioso, che non mi faccia pensare che tutti i mesi dovrò mettermi lì a proseguirlo per non sentirmi in colpa. Stavolta lo chiamerò Gino, che mi sembra un nome parecchio non pretenzioso.

La prima ricerca cui voglio dare una risposta riguarda iban postepay, che è la voce più cercata in assoluto fra i lettori che capitano su queste pagine.

Iban Postepay è un quarantenne di Kaluga, una città a 150 chilometri da Mosca famosa per aver dato i natali alla prima moglie di Pietro Il Grande e alla seconda di Michail Fedorovich Romanov. Oltre a sfornare zarine, Kaluga non offre granché, c’è un museo dedicato agli astronauti, una ferrovia e un’università. E fa freddo. Tanto freddo. Così freddo che la sorella di Iban è stata costretta a comprarsi una stufa per sè e per sua figlia piccola. Elena, così si chiama la donna, è una spammer di professione: spedisce a tutti richieste di denaro cercando di impietosire gli utenti internet più gonzi raccontando la triste storia di lei che deve comprarsi una stufa, ma non ha un reddito. Suo fratello Iban ha cercato di convincerla a trovarsi un lavoro più serio, le ha promesso di mettere una buona parola alla fabbrica della Peugeot dove raddrizza antenne, ma lei niente. Dice che lo spam le rende molto di più e che un giorno lo vedranno tutti che aveva ragione.

Per il momento quel giorno non è ancora arrivato, e intanto Elena si è ridotta ad aver bisogno davvero della stufa perché dai e dai si è venduta tutti i caloriferi, e adesso le lettere che spedisce sono vere, ma ha rotto tanto il cazzo prima che oramai non ci crede più nessuno.

………….

La seconda voce più cercata riguarda le onnipresenti donne nude, ma non mi sembra il caso di indirizzarvi, cari amici ornitoconcussori: le donne nude e i gattini sono le due categorie di immagini più frequenti sulla rete, se ancora riuscite a sbagliarvi e capitate qui siete oltre ogni possibile aiuto, beccatevi un virus e tanti saluti.

………….

Tolte le due categorie che la fanno da padrone tutti i mesi vorrei passare alle ricerche settimanali, dove viene fuori tutta la creatività dei miei lettori.

Questa settimana quattro visite sono arrivate da uno che cercava strisce fumetti signor bonaventura.
Buongustaio, ma ignorante: il signor Bonaventura non si è mai fatto di coca, lo sanno tutti che la sua droga preferita è l’LSD.

Poi qualcuno mi chiede Holly Michaels chi è. Ignorante e basta, Holly Michaels è una pornostar dalle grosse poppe che va per la maggiore sui siti specializzati. Puoi vedere il suo video migliore qui.

E vorrei concludere prima di tediarvi, sebbene ce ne siano ancora di pazzesche, con zucche e pirati. La prima cosa cui ho pensato è stata una cosa di questo genere, ma in realtà google la pensava diversa, e mi ha suggerito un sito. Ci ho dato un’occhiata, ma mi è venuto in mente il budino e ho piantato lì.

Alla prossima.

  1. Regalare la televisione al vicino e al suo posto montare una libreria.
  2. Fare avanti e indietro dalla stanza del casino con scatoloni di libri che non trovavano spazio nei vecchi scaffali.
  3. Tirare giù tutto e rimettere a posto in rigoroso ordine alfabetico.
  4. Contemplare soddisfatto il risultato.
  5. Inorridire scoprendo che il mio libro è finito subito dopo Esercizi Di Stile di Queneau.
  6. Cercare su internet il numero di telefono dei discendenti dello scrittore per porgere le mie più sentite scuse.
  7. Accorgersi in tempo di aver lasciato fuori un libercolo sulla storia dei pirati, che fa si che adesso Acapistrani si trovi fra una masnada delle peggiori carogne che abbiano mai solcato i mari e uno scrittore di noir beffardo.
  8. Fuck yeah.

Il nuovo disco di Vinicio Capossela si chiama Marinai, Profeti e Balene, un omaggio alla letteratura di mare, da Omero a Melville, ma c’è anche Celine, che è come incontrare Gargamella in pizzeria, e non è un caso che il tour prenda il via da Genova: il cantautore ha sempre dichiarato il proprio amore verso la città e il teatro Carlo Felice sembra fatto apposta per celebrare la navigazione d’altri tempi, col pubblico seduto sul ponte di una caravella, i suoni che rimbombano dal palco come dentro un secchio, il mal di mare che ti viene se pensi a quanto cazzo hai pagato il biglietto.

Anche il palco è allestito sullo stesso tema, i musicisti sono vestiti da marinai, c’è una prua sul palco (proprio davanti al mio posto, cristodio), il pennone dell’albero maestro fa da sfondo e le ossa della balena si aprono e si chiudono sulla testa di quello strano equipaggio. Il capitano della nave ha il tricorno in testa, è seduto al pianoforte illuminato da una candela, e appena si apre il sipario attacca con le canzoni dell’ultimo disco.

Ecco, Marinai Profeti E Balene non è immediato come Ovunque Proteggi, forse non ne possiede neanche la freschezza, ma non è neanche tetro come Da Solo, e dopo i primi due tre ascolti cominci a sospettare di essere davanti a un prodotto migliore, pieno di riferimenti letterari senza risultare pesante, stratificato come la millefoglie di cipolla, e quando arrivi a sentir suonare le conchiglie, le catene, una sega e il carillon più complicato del mondo il sospetto si tramuta in certezza, quello in copertina col cappello da Napoleone è un genio.

Ma dicevo del concerto, che scorre via come una fregata fra leviatani e sirene. Tutta la prima parte è occupata dalle canzoni nuove, d’altronde è un album doppio, e dai vecchi cappelli di Capossela, cui si aggiunge il tricorno che indossa nelle foto promozionali. Parla col pubblico senza esagerare, presenta il susafonista di altezza variabile, dice due parole sulle canzoni, ma è quasi esclusivamente musica, tanto che quando escono i coristi si limitano a muovere la bocca senza proferire alcun suono, lasciandoci tutti un po’ scossi. Scopriremo poi che c’era un problema fonico.

Solo alla fine della parte “concept” il cantante introduce il gruppo, e scopriamo che dietro le casse che abbiamo di fronte, dietro la prua della barca da cui ogni tanto va a cantare Capossela, ci sono altri due membri dell’orchestra, di cui uno con dei capelli pazzeschi, bianchi e riccioli e sparati in ciuffi che sfidano la gravità.

Comincia la seconda parte, quella dedicata ai “relitti che porta la risacca”. Una versione rallentata di Che Coss’è L’Amor, la sorpresa di Morna, che io e il Subcomandante ci guardiamo a bocca spalancata e poi lei muore di gioia, poi qualche altro pezzo nuovo, poi tutti in piedi per L’Uomo Vivo e Il Ballo Di San Vito, poi Camminante, che non sto neanche a riguardare il Subcom, la raggiungo all’altro mondo con un sorrisone in faccia. Chiude con Le Sirene, che più lo ascolto più credo che sia una perla.

Oggi tutte le mie certezze sulla musica stanno barcollando, non sono più sicuro neanche di chi sia il mio cantante preferito, ho solo voglia di sedermi da qualche parte e mettere su il mio ultimo acquisto. E non ho ancora visto l’altra cosa che mi sono comprato, il dvd del tour precedente, che ho già collocato fra i tre più bei concerti cui abbia mai assistito. Vi saprò dire..

19/08/2010

Instant Carmo
È una nuova mattina nella città di Porto, il sole tarda a mostrarsi, ma non ci preoccupiamo, l’ha fatto anche ieri, lo fa tutti i giorni in questa città vista oceano, poi pensi che pioverà, esci pesante e dopo un quarto d’ora ci sono trentasei gradi e tutte le piastrelle che ci sono appiccicate ai muri ti riflettono il sole negli occhi, e passi il resto della giornata cieco e sudato. Poi verso le tre, tremmezza muori disidratato.

In questa cupa mattina io e il Subcomandante Marzia abbiamoancora da vedere delle robe, così usciamo prestissimo dalla stanza, tipo le novemmezza, e andiamo a fare colazione, poi rompiamo ogni indugio e usciamo. Per fare la seconda colazione.
E si perché con tutte le pastelerie che ci sono in giro non puoi prenderti almeno un krapfen gigante, una roba con la panna, qualcosa..

Alla fine del pranzo, che le calorie assunte con un dolcetto basterebbero a tener su una squadra di calcio, scarpiniamo fino all’Igreja do Carmo, che non è lontana da dove ci troviamo.

La Santa Guida è rimasta affascinata dalle pareti esterne decorate ad azulejos, merita la visita!”, mi dice la fidanzata, stranamente disponibile verso il clero. Non discuto, si vede che la cena della sera precedente le ha abbattuto le difese immunitarie.

Le dura il tempo di arrivarci davanti e scoprire che la chiesa ha una sorella siamese da cui è separata solo per un vicoletto strettissimo: la Igreja dos Carmelitas.

Eccheccazzo, una non gli bastava?”, protesta, ma entriamo lo stesso. La vista degli azulejos ha un effetto rilassante su di lei, devo ricordarmelo quando torneremo a casa, magari ci arredo la cucina, così la smette di strillare se rovino la cena.

La chiesa all’interno è spoglia, tranne l’altare superaccessoriato, pesante come il trucco di una soubrette, e per entrare devi superare la prova tossico.
C’è infatti in strada un tizio chiaramente segnato dagli stupefacenti che fa la guardia ai passanti, ostentando noncuranza come può farlo uno che vive la sua vita in grassetto maiuscolo: sta appoggiato a un palo cercando di fischiettare e butta la testa velocemente di qua e di là per vedere se qualcuno si avvicina alla chiesa. Appena ne becca uno parte come un razzo e si fionda ad aprirgli la porta, mostrandogli contemporaneamente il bicchierino per l’elemosina. L’ingresso della chiesa ha due porte, e per evitare che il potenziale cliente imbocchi quella senza portinaio il nostro amico marcione lo invita bruscamente a passare dalla sua parte.
Se passi di là lo stesso non succede niente, ti aspetta all’uscita e ripete la scena.

Eletrica salsa (ba-ba ba-ba)
Ci allontaniamo ignorandolo e puntiamo verso il fiume, tanto per cambiare, ma stavolta da una via diversa, che dovrebbe portarci più a valle. Abbiamo deciso infatti di andare a visitare il borgo di S
ão Pedro da Afurada, luogo di pescatori che immagino pieno di graziose casette di legno e strade di pietra, con gatti e reti stesi al sole, uomini cui il mare e il sale hanno disegnato la faccia come la mappa di un tesoro, bar tenebrosi da cui senti venir fuori le più truci canzonacce, donne di malaffare, coccodrilli con una sveglia nella pancia, botteghe di protesi a forma di uncino.
Sono tutto eccitato, ho già in programma di comprarmi una pinta di rum e dividerla con quattordici individui in un’impresa di pompe funebri, ma se non dovessero esserci bottiglierie ad Afurada non importa, sono sicuro che almeno un jolly roger riuscirò a portarmelo via, anche a costo di tirarlo giù dal pennone.

Cammina cammina arriviamo sulla strada che costeggia il fiume. Siamo un po’ oltre la Ribeira, ma non così vicini a dove vogliamo andare. Davanti a noi si erge massiccio il vecchio deposito dei tram, ora adibito a museo. Qualcuno ci ha detto che è bello, la Santa Guida ne parla bene, ma vuoi mettere un tram con un giro di chiglia? Non esiste, voglio i miei pirati!
C’è una fermata dell’autobus con due controllori che ci spiegano la strada per il borgo di pescatori: dobbiamo prendere il tram fino al ponte da Arràbida e poi cercare un passaggio per attraversare il fiume. S
ão Pedro da Afurada è subito di là.

Un passaggio? Non mi ci vedo proprio a fare il navistop”, protesto.
Ma no, vedrai che ci sarà un traghetto”, mi rassicura Marzia, ma ormai mi sono fatto il mio film sulla pirateria, e sono convinto che qualunque battello diriga su Afurada sia carico di gaglioffi pronti a rapinarci.
Piantala! Non ci sono pirati ad Afurada!”
Essì, stai a vedere che hanno tutti windows originale!”
Nessuno di quelli con la benda sull’occhio, almeno!”
Staremo a vedere..”

Ci sono diversi autobus che portano in quella direzione, ma la cosa che vediamo sferragliarci incontro non appartiene alla categoria dei mezzi su gomma. È giallo, piccolo e panciuto, diresti che la fermata precedente l’abbia fatta dentro un cartone animato, e ogni volta che fa una curva hai l’impressione che debba ribaltarsi sulla schiena come una tartaruga.
È il vecchio tram che abbiamo incontrato sotto la Igreja dos Clerigos, e che adesso ci porterà alla nostra destinazione. Per i portoghesi il tram si chiama o elétrico, come fai a non volergli bene a un popolo che parla così?

Sul tram non c’è molta gente, possiamo sederci vicino al finestrino e scattare qualche foto del paesaggio, ma la vera attrazione sarebbe l’interno, perfettamente conservato, ancora con gli spaghi appesi al soffitto per suonare il campanello della fermata.
Non che fuori ci sia molto da vedere, dall’Atlantico sta venendo su un nebbione da paura, il Douro è immerso in una coltre bianca che ci impedisce di vedere perfino il ponte.
Capiamo di essere arrivati alla nostra fermata quando il tram supera il suo pilone di cemento, e a quel punto scendiamo.
E non c’è niente.
Ochei, c’è un bar su una palafitta che ha l’aria di essere piuttosto fico, oltre che chiuso, e alle nostre spalle dei brutti palazzi aspettano di essere completati, ma a parte l’aspetto di periferia dismessa non c’è altro, solo una banchina con una signora seduta a pulire un pescione e un altro tizio seduto per terra che dondola i piedi sull’acqua.
Nessuno dei due ha la benda sull’occhio.
Nessuno dei due ha la gamba di legno.
Nessuno dei due ha pappagalli sulle spalle.
Maledizione.

Questi posti davanti al mare
Nel nostro portoghese stentato chiediamo notizie del traghetto, e la signora, senza voltarsi, sempre col coltello in mano, ci indica la nebbia.

Vuol dire che il traghetto è stato inghiottito dalla nebbia con tutto l’equipaggio e che presto faremo la stessa fine anche noi. Scappiamo!”
Ma no, idiota, vuol dire che sta arrivando, non lo vedi? Eccolo!”

Infatti il traghetto arriva, col suo borbottio placido attracca e fa scendere i passeggeri. Da qualche parte ne spuntano altri che attendono di salire, un paio sono gli stessi che ho appena visto scendere, si vede che a casa non hanno la televisione e si divertono così, facendo avanti e indietro. Il biglietto costa un euro e c’è solo un canale, alla lunga gli conviene abbonarsi a sky.
Sale anche la signora, che si piazza sul ponte e ricomincia a far andare il coltellaccio. Ma non ce l’ha una cucina dove fare questi lavori? Si vede che qui il traghetto è un po’ come la piazza del paese, ci si ritrovano quelli senza cucina, quelli senza televisione, e a giudicare dai giornali che adocchio in cabina deve svolgere anche le funzioni di edicola.
Sono quotidiani sportivi, cosa che mi fa pizzicare il senso di ragno. Ci trovo un paio di notizie che mi fanno sentire odore di casa, ma niente di più; torno a sedermi sul ponte e scatto qualche foto al nulla.
La traversata dura qualche minuto, ed è il tempo sufficiente perché la nebbia sparisca. Quando arriviamo di là è una bella giornata di sole, i pescherecci stanno rientrando in porto e non c’è nessuna faccia da bandito per strada, nessuno che canti canzonacce, niente di niente.

Afurada è un paesino di case basse dall’aspetto moderno, parecchio anonimo, disposte in lunghe file ordinate. C’è qualche negozietto, c’è un piccolo mercato, un paio di ristoranti, ma niente di più.
I pescherecci si, quelli sono interessanti, circondati dai curiosi e da uno stormo di gabbiani in preda a un’agitazione frenetica. Stanno scaricando secchi di pesce, prevalentemente sardine, e i pennuti saltellano qua e là in attesa di potersi buttare sugli scarti. Una volta terminato lo scarico i pescatori se ne vanno e i gabbiani assaltano il battello: in mezzo alle reti ammucchiate sul ponte sono rimasti piccoli pesci, qualche granchio, che vengono subito contesi a beccate. Gridano e si pestano e fanno un gran casino: alla fine li ho trovati i miei pirati, non hanno la benda sull’occhio ma in quanto a uncini sono ben accessoriati.
Però che delusione queste strade tutte pulite e piastrellate, dove ritrovare un po’ dell’antico spirito?

Guarda che è un borgo di pescatori, non di pirati. Sei tu che ti fai dei film!”, mi rimprovera la fidanzata.
Perché, forse che i pirati non andavano a pesca?”, replico, seccato.
I pirati abbordavano le navi, che pesca!”
E cosa mangiavano, oro? Pescavano, te lo dico io! In ogni covo di pirati c’erano dei pescatori, quindi per il principio zero della termodinamica in un villaggio di pescatori devono trovarsi anche dei pirati, è lapalissiano!”
Il principio di che?”
Non lo so, vaneggio.”
Ma vaneggi male! Se fosse come dici tu allora i pirati avevano anche bisogno di vestiti, quindi in ogni città in cui ci sia un negozio di abbigliamento dovrebbero esserci dei pirati! Sarebbero ovunque, scusa!”
Mai affermato il contrario.”
E allora perché non consideri anche Genova una città di pirati?”
Certo che lo è, e lo dimostrano i prezzi nelle vetrine. O i ristoranti, vai un po’ a vedere quanto ti mettono una pizza e poi dimmi se Genova non è una città di pirati.”
Però a Genova non cerchi persone con la benda sull’occhio e il pappagallo sulla spalla.”
Perché in un centro così grande lo stereotipo del pirata si è disperso nella folla, è come il succo di arancia concentrato che ti danno all’ostello di Lisbona: se ci aggiungi un po’ d’acqua è buono, se ce ne metti troppa come fanno loro ottieni un liquido torbido dal sapore disgustoso che mai più ti farebbe pensare all’arancia, sebbene sia l’ingrediente principale.”
Hmm..”

Parlando e camminando arriviamo senza accorgerci a un edificio sul limitare dell’abitato, con una selva di bastoni a reggere delle corde: è il lavatoio pubblico, lo dimostrano le tante vasche all’interno, i panni stesi ovunque a sbattere al vento e soprattutto la signora incazzata che sfrega una maglietta sulla pietra e smadonna in portoghese. È un bel quadro da incorniciare questa donna che lavora coi mutandoni appesi dietro di sé e l’oceano sullo sfondo. Peccato per l’audio.

Senza la nebbia possiamo vedere bene l’orizzonte che credevamo già atlantico, e provare disappunto nello scoprire che non è affatto così. Una diga foranea imbriglia la foce del Douro, impedendo al mare di entrare a fare casino, ma anche a noi di inebriarci di infinito, e a Marzia questa cosa proprio non va giù. Dice che lei ha nuotato nel Pacifico, ma l’Atlantico lo ha sempre solo visto in televisione, e prima di tornare a casa vuole pucciarci i piedi dentro, anche a costo di andare fino al bagnasciuga a piedi.

In che direzione è questo maledetto oceano?”

Le indico una lingua di sabbia che emerge in fondo alla strada. Con tutta probabilità oltre le dune c’è l’Atlantico. O un posteggio.

E allora andiamo! O hai fame?”
No no, è ancora presto, andiamo pure a vedere l’oceano”

In realtà sono le undici e mezza e ho una fame che mangerei una tonnara. Girando per il paese abbiamo comprato un pezzo di pane locale dall’aspetto invitante, ma pesa come se fosse impastato col granito, ogni boccone che mando giù precipita nello stomaco con rumore di ghiaiaio.

“Beato te che te ne stai in casa a riposare!”, mi dicono, come se le ferie fossero per me un periodo dedicato all’ozio più bieco. Io? Riposare? Ma quando mai! Giusto l’altro giorno ci ho provato, che dopo un’estenuante partita al gioco del Signore Degli Anelli avevo bisogno di staccare, ormai vedevo orchetti ovunque, armati di scale, accorrere sotto le mura del Fosso di Helm e fare a pezzi le mie difese sguarnite.

Me ne sono andato al mare, da solo, senza cane e fidanzata, per godermi quel po’ di sole di fine agosto che mi avrebbe regalato un colorito meno salmastro (termine che deriva da salma, ovviamente). Ho scelto Sori, bella vicina, tranquilla, popolata solo da vecchietti innocui, “metto su il vibro, leggo un bel libro, cerco un po’ di relax”. Mi sono addormentato, e al risveglio la luce era andata via.

“Ammazza quanto ho dormito”, mi sono detto, prima di rendermi conto che non stavo più in spiaggia, ma in una specie di cantina piena di roba.

“Maccheccaz..”, l’esclamazione mi è morta in gola alla vista dell’individuo che mi osservava dall’alto dello sgabello su cui era seduto: un tizio lungagnone, la faccia feroce, un tatuaggio raffigurante un fungo porcino che lotta con un’orata. L’ho riconosciuto subito, avevo già visto quell’espressione feroce al telegiornale in un servizio sulla pirateria nel mar Ligure, era il bieco Capitan Secchin, Terrore Del Tigullio, e mi aveva fatto prigioniero!

“Cosa vuoi da me? Lasciami andare, non ho niente, solo un telefonino pieno di canzoni scaricate illegalmente dalla rete e un romanzo in edizione economica!”

“Voglio il tuo aiuto”, mi ha risposto, lasciandomi basito. Come il mio aiuto? Il pirata più feroce dei sette mari ha bisogno di aiuto? E per fare cosa?

“E per fare cosa?”, ho ripetuto ad alta voce, dato che dubitavo che potesse leggere la voce narrante.

“Per andare a pesca di mormore!”, mi ha detto. “Carica tutta questa roba in barca!”, mi ha indicato dei grossi secchi blu, i remi, il motore e un salvagente.

“Grazie signor pirata, ma non occorre disturbarsi, sono un provetto nuotatore!”

“Non è per te, idiota, è per lui!”, mi ha risposto indicando un altro losco figuro che stava in silenzio a osservarmi, nell’oscurità. Era il suo socio, il Piratarquata, il secondo filibustiere più feroce che abbia mai solcato i mari. Giusto per dare un’idea, si dice che sia talmente sanguinario che anche il mare ha paura di lui, e la prima volta che ha messo in acqua il suo vascello le onde si siano ritirate fino a farlo incagliare, e da allora sta là, ad Arquata, ad aspettare che torni la marea per poter salpare.

Fino ad allora presta il proprio servizio ai bucanieri più feroci e barcadotati, come Secchin.

Il Piratarquata è venuto verso di me e mi ha porto un secchio, suggerendomi di adoperarlo se volevo vomitare. Ho ringraziato, rassicurandolo sulle mie condizioni di salute, e lui me l’ha sbattuto in testa strillando “E allora alza il culo e carica la barca!”.

Appena tutto il materiale è stato messo a bordo abbiamo preso il mare, Capitan Secchin di poppa, a vegliare sul motore, il Piratarquata nel mezzo, a controllare che non ci speronasse una lampara, e io ai remi, a vogare come una bestia, che la benzina costa e il motore spaventa i pesci.

Una volta raggiunto il (lontanissimo) punto di pesca Secchin e il Piratarquata hanno gettato il palamito, mentre io boccheggiavo per la fatica.

“Allora? Che fai, ti riposi?”, mi ha detto il terribile secondo. “Pant!”, ho cercato di rispondere, ma lui mi ha sbattuto il solito secchio sulla testa e si è messo a strillare “Riportaci a riva! E’ ora di andare a dormire!”.

A dormire loro, chissà dove, io sono stato legato alla barca a vegliare sul motore e sul salvagente fino all’alba.

Il mattino successivo capitan Secchin si è presentato di nuovo, con un altro equipaggio. Stavolta si trattava del ferocissimo Capitan Filippo Barbanera e del suo aiutante, Medusa Occhioditriglia, ricercati fino alle Barbados per atti di pirateria e furto di focaccia. Ho saputo da loro che il Piratarquata è stato catturato da James Brooke, il rajah di Sarawak, ma è subito riuscito a fuggire portando con sè la nipote del tiranno, Marianna. I due sono convolati a nozze e partiti in luna di miele in Canada, o negli Stati Uniti, o forse in Australia, il racconto a questo punto non è molto chiaro.

Chiarissima invece era la mia condizione di prigioniero, costretto a riprendere il mare per tirare su il palamito. Razze, stelle marine, pericolosissime agne (agne? agne, agne..), gronchi, polmoni, subbaqui, pesci paduli, di tutto abbiamo tirato su sotto quel sole a picco che ci squagliava il cervello, e quando sono finiti gli ami e la pesca non è stata sufficiente qualcuno ha suggerito di buttare in mare me, per cercare di attirare qualche pesce più grosso. A quel punto mi sono dato alla fuga nel modo più veloce che conoscevo, cambiando canale.

Capitani coraggiosi

Sul terzo infatti trasmettevano Alle Falde Del Kilimangiaro, con quella scassacazzi di Licia Colò, che la detesto da quando faceva Bimbumbam. Il servizio parlava del Monte Reale, e della difficile impresa tentata dai due scalatori Compabloni e Lajackelli. Qui sotto le foto.

Monte Reale