Riassunto della puntata precedente:
È il mio compleanno, Pino e Lorenzo mi portano a bere in un posto in culo ai lupi. 

Peggiorerà.

2.
“E quindi.. come ci si sente ad avere quarantacinque anni?”, mi chiese Pino quando lo raggiunsi al tavolo. Non guardava verso di me, fissava delle schiene dietro cui era scomparsa la cameriera, alcuni minuti prima. Se non fosse riemersa si sarebbe gettato a salvarla?

“Pino, me l’hai già chiesto prima”, risposi.
“Sì, scusa. Senti, e se ce ne andassimo? Questo posto fa schifo.”
“Felice di sentirtelo dire, ma dovremmo aspettare che torni Lorenzo, no?”
“Ma no, ha detto che restava fuori a pensare, non credo che tornerà. Raggiungiamolo, vieni.”

Si diresse verso l’uscita. Che gentili, mi avevano pagato da bere. Raggiungemmo la macchina di Pino e ci trovammo il nostro amico con un sorrisone irragionevole.

“Sorpresa!”, esclamò, posando una scatola colorata sul cofano.
“Ma siete cretini, mi avete fatto un regalo?”

Inciampai a lungo nel nastro dorato, per essere certi che non si aprisse subito lo avevano legato come una coppa.

“Ma chi vi ha insegnato a incartare i pacchi così?”
“Nessuno, abbiamo seguito un video su quelle modelle giapponesi che si fanno appendere nude”, rispose Pino.
“Sono gli stessi nodi!”, confermò Lorenzo. “Ne avremo guardati duecento! Ad un certo punto abbiamo pensato di regalarti un dvd di quello invece del..”, venne interrotto da una gomitata del socio, ma ormai ero venuto a capo del groviglio e stavo finalmente scoprendo cosa si celasse sotto quel mucchio di carta.

“Cazzo, il Millennium Falcon!”
“Vola davvero!”
“Proviamolo!”

Tre uomini oltre la quarantina con troppa birra in corpo si ritrovarono così in mezzo a un parcheggio nei primi minuti di un giorno di fine gennaio, a cercare di governare un drone di plastica a forma di Millennium Falcon, sotto gli sguardi compassionevoli di ragazzini che avevano un’idea del tutto diversa di quello che dovrebbe eccitare un maschio adulto.

Sarà stato il freddo che intorpidiva le mani, o la confusione portata dall’alcool, sarà stata l’umana disabitudine al volo, dopo due minuti il glorioso Millennium Falcon, la nave che ha fatto la rotta di Kessel in meno di dodici parsec, stava impigliata di traverso nelle fronde di un abete, misero come un sacchetto di plastica sospinto dal vento.

“E ora chi lo va a prendere, lassù?”
“Chi ce l’ha buttato lo va a prendere.”
“Non è mica mio, io non ci vado!”
“Tecnicamente è ancora tuo, l’hai pagato. E mi stavi mostrando come funziona, io non l’ho ancora usato.”
“L’ha pagato Lorenzo, devo ancora dargli i soldi.”
“Io lassù non ci vado!”
“Lorenzo è stato lasciato dalla fidanzata ed è depresso. Vorresti fare arrampicare un potenziale suicida su un albero di quindici metri?”
“Ma l’ha lasciato due anni fa! A quest’ora si sarebbe già ammazzato!”
“Possiamo smettere di parlarne, per favore?”

La si fece breve, nessuno voleva arrampicarsi, andò chi nutriva maggiore interesse al recupero, e dato che il drone era un regalo per me non mostrarvi interesse sarebbe stato scortese, oltre che falso.
Pino andò a prendere una torcia in macchina, mentre Lorenzo mi aiutava a raggiungere il ramo più basso, un paio di metri sopra la mia testa.
In un paio di minuti ero già a metà salita, a un’altezza dalla quale non me la sarei cavata con un braccio rotto in caso di caduta. Non ci pensai, era divertente stare lassù, da quant’era che non lo facevo? Quand’ero ragazzino ci vivevo sugli alberi, ogni volta che ne avevo l’occasione mi appendevo a un ramo e dondolavo a testa in giù, poi raggiungi quell’età in cui capisci che per farti notare c’è bisogno di essere bravi in altri campi, e agli alberi ti ci appoggi solo quando vuoi fare il tenebroso. Perché, poi? A Tarzan e a Newton nessuno ha mai dato del tenebroso.

Il fascio di luce mi mostrava la posizione del relitto, mi ci stavo avvicinando. Quando fui più o meno alla stessa altezza cercai di spostarmi in orizzontale su un grosso ramo, ma quelli a disposizione non sembravano in grado di reggermi. Ce n’era uno abbastanza robusto un po’ più in alto, forse avrei potuto salire ancora, arrivare al drone e provare ad accovacciarmi per colpirlo con un piede, era fatto per resistere a una caduta del genere.
Io però no, pensai distrattamente. La potenza di quel gesto atletico mi convinse a tentare, a dispetto del freddo, del pericolo e del poco allenamento. Salii ancora di un metro e iniziai a camminare lungo il ramo, tenendomi alle fronde intorno.

Adesso lo vedevo, a un paio di passi da me, un disco di plastica grigia un po’ più grande di un frisbee. Per raggiungerlo avrei dovuto stendermi sul ramo e allungare un braccio, non sembrava complicato.
La giacca invernale mi rendeva difficili i movimenti, era un volume in più che mi portavo appresso, ma senza non sarei arrivato fin lì, già le mani erano diventate insensibili per il contatto col legno gelido. Feci un paio di applausi per riattivare la circolazione, mi alitai sulle dita, poi iniziai ad accucciarmi.
Fin lì mi ero tenuto a un ramo che mi stava all’altezza della cintura, ma per potermi distendere avrei dovuto abbandonarlo, e non vedevo altre sporgenze a cui affidare il mio equilibrio precario. Di tenermi allo stesso su cui mi trovavo era impensabile, mi sarei ribaltato, e le mani intorpidite non sarebbero state in grado di appendersi a niente, sarei volato giù come una pera.
Restai appeso alla mia ancora e allungai una gamba nel buio sottostante. Scalciai. La mia scarpa non incontrò nessuna astronave.

Mentre a dieci metri dal suolo si svolgevano attività pericolose all’interno del Dumme Esel si stava preparando un dramma altrettanto letale: la cameriera aveva realizzato che il nostro tavolo si era liberato ed era corsa ad avvertire il proprietario che quei tre uomini se n’erano andati senza pagare il conto. Lui aveva scavalcato il banco con una luce omicida negli occhi e si era affacciato alla porta.

“Eccoli là, sono ancora nel posteggio!”, aveva detto, poi le sue mani erano andate a chiudersi su un bastone appoggiato all’uscio che tutti i clienti conoscevano come “il bastone fortunato di Cesare quando va per funghi”, ed era uscito senza neanche mettersi la giacca.

Alle sue spalle un codazzo di clienti che aveva assistito alla scena e non vedeva l’ora di condividere su facebook un po’ di violenza gratuita.

Lorenzo fu il primo ad accorgersi del pubblico:
“Qualcuno si è accorto del drone, se non ti sbrighi a recuperarlo te lo fregano!”
Pino, la cui distrazione nel saldare il conto era stata evidentemente dolosa, mi diede un suggerimento diverso:
“Resta lì e non fare rumore, torniamo subito!”, poi prese l’amico per un braccio e lo trascinò alla macchina.

Lo slittìo delle gomme sparacchiò manciate di ghiaia verso i nuovi arrivati, che poterono solo bestemmiare in direzione dei fanali posteriori della macchina di Pino, mentre sparivano oltre la curva del monte.

Dalla mia posizione sentii Cesare dire a qualcuno “Te li sei fatti scappare, il conto glielo paghi tu!”, e il lamento della cameriera un po’ più in là, verso l’edificio. Non ci volle molto a ricostruire l’accaduto, e a decidere che tutto sommato non faceva così freddo su quell’albero, avrei potuto starci ancora un po’.

Vabbè, a quarantacinque ci sono arrivato, pensavo, mentre le mani si rattrappivano sulla corteccia gelata e i rami più sottili cercavano di levarmi gli occhiali. Sotto di me, parecchi metri più in basso, un amico illuminava con la pila l’oggetto che stavo cercando di raggiungere. Il fascio di luce spariva da qualche parte più su di dove mi trovavo, e più lontano dal tronco a cui cercavo di restare appollaiato. Ma chi cazzo me l’aveva fatto fare?

Il mio fine settimana di celebrazioni scatenate era coinciso con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e forse per questo tutti i miei amici avevano il telefono staccato quando li avevo chiamati per uscire. Gli unici che ero riuscito a recuperare erano Lorenzo, un maniaco depresso con la vita sociale azzerata da decenni di benzodiazepine, e Pino, la sola amicizia rimasta nel buco di paese in cui mi ostinavo a vivere, ma con cui non mi capitava mai di uscire perché faceva il benzinaio notturno all’autogrill, e nei pochi venerdì sera liberi che si concedeva non volevi averlo seduto vicino perché i suoi capelli odoravano di gasolio.

Ma era una serata particolare, quarantacinque anni meritano di essere celebrati nel migliore dei modi, e quale modo migliore di sfondarsi di alcool fino a perdere i freni inibitori e poi buttarsi in qualche locale a caccia di femmine?

“Eh per esempio alla birreria tedesca di Clavarezza. Hanno la Dunkel Draften che mi piace.”
“Io in discoteca non ci voglio venire, c’è troppa gente.”

Cinque minuti che era iniziata e la mia serata di festa grande mi aveva già rotto i coglioni.

“Ragazzi, dai, alla birreria ci potete andare quando volete, stasera andiamo a spaccarci in un locale con della gente! Conosciamo delle donne, cazzo!”
“Alla birreria ci sono le donne, la cameriera è carina”, puntualizzò Pino.
“Ha diciassette anni! E le altre femmine presenti sono la moglie del barista e la sua mucca che tiene nel cortile dietro il bar. E se le scambiasse di posto non se ne accorgerebbe nessuno!”
“Io torno a casa, non mi sento bene”, disse Lorenzo, e me la vedevo già la mia serata immerso nei miasmi oleosi di un tavolino isolato, scartato dagli sguardi del mondo, a far venire l’ora in cui puoi andare a dormire senza sentirti troppo sconfitto.
Mi arresi, e dopo mezz’ora di tornanti al buio su un passo alpino ci ritrovammo seduti al Dumme Esel, l’unico locale della valle che tenesse aperto oltre le diciannove, contando anche la stazione ferroviaria e le cabine telefoniche.

L’arredamento ricordava una tipica birreria bavarese rilevata da un nostalgico degli anni ’70 e che avesse subito un pignoramento in tempi recenti: c’erano quattro tavoli di legno, due tavolini di formica verde malattia e un bancone impiallacciato faggio con ripiano in finto marmo; alle pareti alcuni tappetini che i fornitori di birra ti regalano per farsi pubblicità, di marche prodotte in paesi dove certamente non si parlava tedesco, e un quadretto della Guinness comprato durante il viaggio di nozze a Dublino. Dietro il banco, fra le bottiglie di Biancosarti e di grappa Nardini, campeggiava l’unico cimelio che giustificasse l’ispirazione teutonica: una foto di Rummenigge con la maglia dell’Inter, autografata.

Era l’unico locale aperto di venerdì sera nel raggio di venti chilometri, e consisteva di quaranta posti a sedere compresi gli sgabelli al banco: quella che ci accolse oltre la porta non era la folla in un locale di successo, era l’ultima curva prima del suicidio di massa.
Ciondolammo un po’ in attesa che si liberasse un posto, e arrivò la cameriera, sgusciando fra una mandria di manzi postadolescenti che le rivolsero muggiti di approvazione. Bisognava capirli, il corpo di una ragazza che ti si struscia contro era qualcosa di sconosciuto, facile che si spingessero fin lassù apposta per quell’esperienza, per alcuni di loro la cosa più vicina al sesso che sarebbero riusciti a ottenere.

Pino la salutò con un entusiasmo fuori luogo, lei ci condusse a un tavolino vicino ai cessi da cui si stavano alzando tre bimbi in bomber, appagati dal boccale di birra che doveva aver danneggiato in modo serio il loro equilibrio, perché ci franarono addosso in uno scroscio sguaiato di risate e porchidii. Lorenzo mostrò la sua faccia insofferente n.21, con gli occhi stretti che scappano a destra e le labbra che stentano a contenere un insulto. Pino lo mise a sedere con una spinta decisa.

Dal cicaleccio degli avventori saliva la risata acuta della moglie del barista, e la linea di basso di un classico dei Guns’n’Roses. Era il momento in cui avremmo dovuto parlare di qualcosa. Pino guardò il suo bicchiere, poi Lorenzo che guardava il proprio e poi me, e decise che dei tre ero quello che offriva maggiori spunti di conversazione.

“Allora, come ci si sente ad avere quarantacinque anni?”
“Hai presente quando ne hai compiuti quarantatre lo scorso novembre? Uguale.”
“Beh cazzo, quarantacinque sono un traguardo importante, sei..”
“Vecchio?”
“Adulto!”
“Lo ero anche prima, credo.”
“Ma a quarantacinque è certificato, quando dici quarantacinque la gente ti immagina sistemato, con una posizione, una famiglia, dei figli che vanno a scuola. Tu invece sei ancora lì a cazzeggiare. Come ti senti? Fortunato?”
“Mi sento un alieno. E credo di dare quest’impressione anche all’esterno, perché quando conosco qualcuno e gli racconto come vivo mi guardano come se ad un certo punto dovesse aprirmisi la faccia e uscire Lady Gandal.”

Pino rispose con la faccia di quello che gli hanno raccontato una barzelletta difficile, e Lorenzo alzò gli occhi dal bicchiere:
“Il generale di Goldrake, quello che gli si apriva la faccia e sotto c’era una donna cattiva che lo dominava. Bellissima metafora del rapporto di coppia, se volete il mio parere. È un esempio che però calza più a me che a te, scusa.”
Lorenzo cercava sempre di spostare la conversazione sui suoi drammi sentimentali, che da un paio d’anni erano uno solo, sempre lo stesso, una storia finita malissimo da cui non era riuscito a riprendersi e aveva scoperto il magico mondo degli antidepressivi. Lo ignorai, sennò in dieci minuti ci saremmo aperti i polsi con gli stuzzicadenti.

Alla terza birra Lorenzo ci stava parlando della sua ex. Eravamo riusciti a deviare il discorso raccontandoci serie tv di cui a nessuno fregava davvero qualcosa e cercando di immaginare entro quanti mesi Trump avrebbe scatenato una guerra atomica con la Cina, ma quella vecchia volpe ci aveva presi in contropiede raccontandoci una storia innocua su un articolo che aveva letto, e non si sa come era finito a sputare veleno su quella stronza di merda e a riproporci i soliti discorsi che oramai conoscevamo a memoria. Una volta Pino mi aveva suggerito di scrivere le frasi che sentivamo ripetere più spesso e tenerle in tasca, e mostrarle al nostro amico appena ne recitava una.

Cercammo di ricondurlo su un terreno meno sassoso, ma sapevamo che era inutile, quando partiva si fermava soltanto per sfinimento, suo o nostro. Allora andai in bagno.
Ma c’era la coda.
Come se servisse un bagno in una birreria in mezzo al nulla, pensai, e guadagnai l’uscita senza neanche indossare la giacca.
Lo sbalzo termico mi incrinò gli occhiali, e quando riuscii a trovare ciò che stavo cercando in mezzo alle gambe faceva troppo freddo per rilassare la vescica, contrattasi alle dimensioni di una biglia. Tentai di riattivare l’impianto con alcuni massaggi, ma l’immagine che davo di me stesso all’esterno mi fece desistere, e tornai sui miei passi.
Sulla porta incrociai Lorenzo, che si allontanava con la faccia da cospiratore.

“Dove vai?”, gli chiesi.
“A pisciare”, rispose lui, e si allontanò svelto.

(continua)

“Ho visto che il 18 settembre c’è la Notte Bianca a Roma, ci andiamo?”, mi propone Lorenzo da una panchina dei giardinetti di Busalla, mentre intorno a noi risuonano le note dell’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri. Sono i festeggiamenti del Nome di Maria, ogni anno la seconda settimana di settembre i Busallesi si interrogano su quale possa mai essere il nome di Maria, forse Giovanna? Forse Lucrezia? E mentre se lo chiedono fanno festa, che per i Busallesi sedersi a un tavolo e pensare è noioso, molto meglio scendere in strada e far cagnara.

“Non so”, gli rispondo. “Sono senza soldi, sennò stasera invece che al Nome di Maria me ne andavo al Nome di un locale qualsiasi di Genova e mi prendevo la vecchia ciucca del venerdì sera, che è un’abitudine che ho un po’ perso.”

“Se fossi andato al Nome di un altro locale di Genova non avresti incontrato noi e avresti perso questa fantastica opportunità di andare a Roma alla Notte Bianca sabato prossimo!”, mi risponde Pino.

Pino è un amico di Lorenzo, il mio amico Lentese che ho incontrato ieri sera a Busalla. Ci conosciamo da poco anche con lui, non è un tipo cattivo, dice che se conoscessi sua zia cambierei idea.

“Sai cos’è? Che la Notte Bianca mi piace poco, ho delle esperienze strane riguardo quella notte lì, non è che mi vada tanto di parteciparvi”.

“Racconta”, mi dice Pino, “Racconta”, mi dice anche Lorenzo. Racconto.

L’anno scorso si tenne per la prima volta a Roma la Notte Bianca, spettacoli, negozi, musei aperti tutta la notte, mezzi pubblici a profusione, una grande iniziativa da non perdere. Solo che Roma non è Ronco, o Lento, che se fanno spettacoli tutta la notte e tengono aperti i negozi le strade si riempiono di un migliaio di persone e c’è vita e son tutti contenti e incontri gli amici e andate a bere e ci si passa tutti una bella serata. A Roma se fai una cosa così intasi la città, soprattutto se poi si mette a piovere, e soprattutto se da qualche parte un albero cade sull’unico traliccio che rifornisce tutta la penisola, e l’intero Paese resta al buio.

Io quella notte ero al Milk, che inaugurava la stagione, e mi stavo divertendo un casino. Era un periodo strano quello, avevo da poco ripreso i contatti con una ragazza, stavamo cercando di riprendere un certo discorso, era molto delicato, e proprio in quei giorni lì era andata a Roma per lavoro, e non l’avevo più sentita. Era viva? Era morta? Chissà.

“Non vi sto a raccontare tutto il preambolo sennò arriviamo a domenica e ci perdiamo i fuochi, che sarebbe anche una bella cosa, visto che i fuochi di Busalla fanno pena”, dico loro, e proseguo col mio racconto. Lorenzo e Pino sono interessati, la panchina è confortevole, l’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri attacca il suo cavallo di battaglia, La Cesarina, e i vecchietti fan la ola.

Stavo ballando su un vecchio pezzo di Iggy Pop quando accadde. La musica si fermò di colpo, e il locale si illuminò delle luci sinistre dei riflettori di emergenza. “Già finita la serata?”, si chiedeva Andrea, “Già saltato l’impianto?”, mi chiedevo io, “Che chiusure di merda, era meglio il digei dell’anno scorso!”, borbottava un habitué del locale.

Visto che la musica non accennava a ripartire dichiarammo chiusa la serata Milk e uscimmo in cerca di nuove avventure, e fu allora che si potè avere chiara l’entità dei danni. Tutta la città era al buio, gli amplificatori del Milk avevano mandato in corto l’impianto elettrico dell’intera Genova.

“Ma no, è Pericu che non ha pagato la bolletta!”, mi spiegò Andrea, sempre più informato di me su queste cose cittadine.

Poco più tardi, seduti su un muretto a guardare uno dei più bei cieli stellati che mi ricordi, riflettevamo sui grandi misteri della vita.

“La morte e l’aldilà?”, mi chiede Lorenzo. “La figa”, gli risponde Pino che ha già capito.

“Niente, non c’è molto altro da raccontare, la luce è tornata il giorno dopo, la ragazza in questione ancora dopo, il Milk ha ripreso a funzionare regolarmente..”

“E con la ragazza com’è andata a finire?”, mi chiede Pino.

“E’ andata a finire”, gli rispondo. “Probabilmente il giro di boa l’abbiamo fatto chissà quando, magari in una parola detta al telefono, uno di quei momenti che passano del tutto inosservati, ma mi piace credere che sia stata quella sera lì, la sera del black out, ad avere spento la luce su noi due. Da lì in avanti stavamo già scrivendo un’altra pagina, eravamo già i protagonisti di due racconti diversi”.

“Sei bravo a raccontare le storie”, mi dice Lorenzo. “Dammi un altro bicchiere di sangria e vedi cosa ti invento!”, gli rispondo, e abbandoniamo la panchina per tornare al bar del Diplodoco, mentre dietro di noi, l’Orchestra Spettacolo Mariateresa Villabuona Fu Dimitri attacca la Polka della Gigia.