Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Immagino la tua faccia e anche la mia assume un’espressione diversa, come quando mi guardavi e mi chiedevi di baciarti, o quella che avevo la sera in cui ti sedevo davanti e la parete grigia ti rendeva parte di un quadro che non avrei mai smesso di contemplare, come si fa con gli stereogrammi, che dopo un po’ viene fuori l’immagine in tre dimensioni oppure un gran mal di testa.

Mi si conficcano negli occhi questi momenti, quando facevamo qualcosa insieme e avevamo ancora i vestiti addosso. Sarà perché erano così rari che me li ricordo tutti; il sesso unisce, ma era altrove che costruivamo il nostro rapporto. Tu dall’analista, io al bar.
Poi ci vedevamo, ti nascondevo i vestiti e ti rivestivo delle mie mani.

Era splendido, finché durava, poi dicevo qualcosa di sbagliato e ti offendevi. Sei sempre stata una donna permalosa, non ci voleva molto a farti perdere la calma. Una volta è bastato dire sì. Va bene, la domanda era “ami un’altra?”, ma se avessi risposto no sarebbe stato lo stesso, quando ti prendevano quei momenti bastava la mia presenza a creare una discussione.

Eri un’esperta di litigio retroattivo, tiravi fuori cose che avevo detto al nostro primo appuntamento, mi sbattevi in faccia frasi pronunciate quand’era ancora vivo Cheope.

Che adesso ci rido, ma è la sindrome del sopravvissuto che guarda indietro e niente gli sembra più così orribile, solo perché è riuscito a superarla.
Se ne vedono di continuo agli incontri per la terapia di gruppo, dove c’è quello che si alza e fa “Ciao a tutti, mi chiamo Peppo, e sono già tre mesi che non rimango coinvolto in un incidente aereo” e tutti ciao Peppo, bravo Peppo. Se lo fai parlare capisci che è ancora traumatizzato, ti dice “Avessi visto che figata, si è aperto uno squarcio nella carlinga e la gente veniva strappata via dai sedili e sputata fuori come i semini dell’anguria. Da morire proprio!”, poi si mette a fissare il vuoto e il sorriso si cristallizza in una smorfia.

Anch’io ogni tanto fisso il vuoto e mi perdo a sfogliare l’album delle figu che mi sono appiccicato addosso, una per ogni taglio che mi hai aperto nella schiena. Lo so, i cerotti funzionano meglio, ma mi mancava solo lo scudetto della Pistoiese per finire l’album, ho dilapidato uno stipendio in quella dannata edicola, non immagini quante doppie ho ancora in giro per casa.

Non tante quanti i tuoi accendini, comunque. E i filtri, quelli li ritrovo ancora nel letto, ma non è colpa tua, sono io che non ho più cambiato le lenzuola: pensavo di aspettare ancora qualche anno e poi venderle come un Pollock inedito.

Ma anche quando fisso il vuoto, senza la dolcezza che cresce col ricordo, né la tenerezza di chi riconosce anche le tragedie passate come una parte preziosa della vita, né l’indulgenza che si riserva ai propri errori, anche quando riesco a dimenticare i momenti in cui ti avrei investita col trattore per come mi facevi le pulci a ogni singola parola che pronunciavo compresi i rutti e i fonemi ad essi correlati, tipo aiuola e uaioming, anche in quei momenti di sospensione del giudizio e dell’incredulità riconosco che l’uomo è una creatura imperfetta e va amato per i suoi difetti, che sono ciò che lo rende unico.
E la donna va amata di più, perché oltre a quello ha pure le tette.

Erano aspetti della tua persona, la linea costiera del tuo carattere, fatto di spiagge su cui fioriscono i gigli e di sassi taglienti e ricci velenosi nascosti sotto la sabbia. Ci vuole coraggio a frequentare quei tratti di costa, e io quel coraggio non ce l’ho avuto. Dici che basterebbe un paio di anfibi, ma al mare con gli anfibi, d’estate, scusa, no.

Ti mettevi la mano davanti alla bocca, e spalancavi gli occhi, e dicevi voglio solo morire, e ggirato con due gì, e quando ti baciavo sapevi di menta e malinconia, e il tuo sorriso era come il fiore di una pianta che sboccia quando decide lui e mai quando c’è qualcuno che lo può fotografare, si vede che è come quei capi indiani convinti che gli freghi l’anima, o i punk londinesi che sticazzi dell’anima io voglio i soldi.

Ti ho trovata in un giorno di pioggia, ti ho persa al primo sole, non sono mai stato bravo con gli stereotipi.
E neanche con le lettere, la prima che ti ho scritto è la stessa con cui ti saluto. Non aggiunge, non spiega, ti lascia com’eri. Sarà che il tempo delle spiegazioni è passato, che non piove più da mesi e si è inaridita la gola, che mi hai lasciato senza parole.

Sparare ai matti con la pistola perché sono pericolosi, e ai matti senza pistola perché la tengono nascosta sotto la giacca, e ai matti senza giacca perché la pistola oggi l’hanno lasciata a casa, ma domani..

Ricordare a qualcuno quanto gli volete bene spedendogli una cartolina di un vecchio viaggio insieme, poi ricordare quanto volete bene a un altro, tanto avete comprato un mucchio di francobolli.

Piangere fino a consumarsi gli occhi, farsi prestare altri occhi dagli amici. Farsi nuovi amici assicurandosi prima che abbiano gli occhi.

Rimediare a tutti gli errori cambiando le regole, renderle retroattive per non sbagliare mai. Stupide volpi, l’uva acerba sfama come l’altra, basta dichiarare che ti è sempre piaciuta.

Uccidere centinaia di schiavi sotto il peso dei massi che li costringi a trascinare tutto il giorno, sotto il sole, senza acqua da bere o un riparo, godere delle loro fatiche, assaporare ogni goccia di sudore, ogni vescica, farsi cullare dal lamento, veneratemi, erigete un tempio che celebri la mia bellezza, nutritemi col vostro amore.
In mancanza di schiavi prendersi un cane.

Non raccontarsi bugie. Le altre volte me le sono raccontate, ma stavolta no, stavolta è tutto vero. Ripeterlo ogni volta.

Dispensare perle di saggezza a chi non ve le chiede, come atto di generosità. Dare via per prime quelle col verme.

Abbonarsi alla Settimana Enigmistica per diventare campioni di Aguzzate La Vista, esperti nel trovare differenze fondamentali fra la predica e la razzola. Nella vignetta a sinistra il muretto ha un mattone sbeccato, cambia tutto eh? Nel dubbio diventare bravi anche a Il Corvo Parlante.

Arrampicarsi su peri molto bassi, da dove sia più agevole cadere.

Tenersi timidamente lontani dalla prima fila, cercare una posizione sul fondo, chiedere a tutti di girarsi.

Stilare un elenco di tutti i difetti dell’ego che voi invece non avete. Far sapere a tutti che voi invece non li avete. Farci una maglietta con l’elenco di difetti che invece voi figurarsi se. Venderla al Club degli umili, da voi timidamente fondato since 1953.

Essere sempre gli ultimi a pagare il conto, pagare meno perché non vi hanno portato il dolce, tenersi il resto.

Rompere il cazzo a tutti di quella volta che avete subito un torto, invocare il Consiglio Di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’intervento aereo, l’invasione preventiva, poi svegliarsi un giorno coi sensi di colpa perché quel torto forse non l’avevate subito proprio proprio così. Cambiare idea il giorno dopo, ricominciare da capo.

Arrivare a pagare qualcuno che vi ascolti con la scusa di chiedere aiuto.

Soprattutto non tacere mai: i narcisi sono fiori chiassosi, devi parlare forte sennò ti coprono.

È la giornata mondiale del libro, ieri era quella mondiale di qualcos’altro e domani sarà la giornata mondiale di non lo so ma sono sicuro che prima di stasera si inventeranno qualcosa, perché tutti i giorni dev’essere la giornata mondiale di qualcosa, si vede che sennò ci si annoia a pensare che è lunedì e basta, mentre invece se è la giornata mondiale di quelli che il lunedì ne hanno per le palle di andare a lavorare uno ci va più volentieri secondo la regola del mal comune mezzo gaudio, che poi per me è sempre stata mal comune mal comune, invece di lamentarmi da solo mi lamento guardando qualcuno che si sta lamentando davanti a me, però che bella soddisfazione di merda.

Ma poi chi è che decide che oggi è la giornata di questo e domani di quell’altro? Cosa c’è, un’associazione che si riunisce per deliberare queste cose? Tipo assemblea di condominio? Domani è la giornata mondiale della lotta all’aids, e mercoledì laviamo le scale. La giornata dell’aids l’abbiamo già fatta. Allora facciamo quella dei diritti dei bambini. Fatta pure quella. La giornata mondiale contro le scorregge in ascensore? Quella è ancora libera, facciamo quella. Io però se mercoledì laviamo le scale è un casino, che mi vengono i nipotini e lo sapete com’è, corrono su e giù tutto il giorno, finisce che quando vanno via sono più sporche di prima e abbiamo fatto il lavoro per niente. Se le lavassimo giovedì? Giovedì è la giornata mondiale della musica, andiamo a sentire Fedez che suona gratis. E che c’entra con la musica? Eh, lui è contrario e protesta così. Allora spostiamo la giornata delle scorregge a venerdì e le scale le laviamo domani. Io vorrei approfittare per dire alla Turlizzi del terzo piano che il suo cane abbaia tutta la notte.

Oggi è la giornata mondiale del libro, lo ha deciso l’UNESCO, così sapete anche a chi dare la colpa se non si festeggerà mai una giornata mondiale degli spaghetti aglio olio e peperoncino. Ha deciso che è oggi perché oggi nel 1616 sono morti Miguel de CervantesWilliam Shakespeare e Inca Garcilaso de la Vega.
Tu lo conosci Inca Garcilaso De La Vega? Senza andare a guardare il link, intendo. Sai cos’ha scritto? No, e non lo sa neanche l’UNESCO, voglio prendere il telefono e chiamare a caso un membro dell’UNESCO e chiedergli di citarmi il titolo di un’opera di Inca Garcilaso De La Vega, ma anche solo che mi dica che mestiere faceva, e vedere cosa mi risponde. Probabilmente “Who are you and who the fuck gave you my number?”, ma a parte quello ci scommetto che non lo sa nessuno, l’hanno aggiunto perché è morto lo stesso giorno di quegli altri due. Che poi quegli altri due sono solo l’autore di Don Chisciotte, visto che nel 1616 in Inghilterra stavano ancora al calendario giuliano, perciò il loro 23 aprile non era lo stesso che in Spagna, e se vi sembra poco andate a leggervi Il Pendolo Di Foucault, dove le differenze di calendario provocano più danni di quella volta in cui un inglese diede appuntamento a una francese al porto di Calais e si presentò con dieci giorni di ritardo e la trovò incinta di un marinaio e piena di un odio verso il popolo d’Albione che dura ancora adesso.

Quindi in pratica è la giornata mondiale del libro solo perché quel giorno lì è morto Miguel De Cervantes. Che allora potevate istituirla il giorno in cui è nato, no? Che faceva più allegria. Che infatti ci avevano anche provato a istituirla il 6 febbraio, ma quel giorno lì venivano ad aggiustare la grondaia che perde e la Villorio del quarto piano ha detto che in casa le è uscita tutta la muffa e questo mese si rifiuta di pagare l’amministrazione, e comunque il 6 febbraio non c’è niente da ridere.

E cosa si fa nella giornata del libro? Non lo so, io volevo regalare dei libri, ma questo comporterebbe uscire di casa e parlare con le persone, e poi che libro regalo? Il mio pare brutto, sembra di sfruttare un evento nobile per tornaconto personale, e io non sono un opportunista. Uno bello di quelli che ho letto mi girerebbero le balle, i libri belli mi piace tenermeli vicini e aprirli ogni tanto e ricordarmi di quanto sono belli, come si fa con le fotografie e i ricordi che ti accendono. Uno brutto no, è da stronzi, cosa fai, regali un libro brutto? E poi che altro? Ti soffi il naso a pagina 45 per dare ancora più fastidio? No, non si fa.
Una soluzione sarebbe di regalare un libro bello che mi ha regalato una persona brutta, così il dispiacere di perdere un oggetto caro viene attenuato dal sollievo di essermi liberato di un brutto ricordo, ma liberarsi dei brutti ricordi è come negare i propri errori, che è il modo migliore per commetterli ancora. E poi mi sentirei comunque una merda a regalare qualcosa che mi è stato regalato, anche se me l’avesse regalato il mio peggior nemico, perché quando me l’ha regalato era animato dalle migliori intenzioni, un nemico non ti regala un libro.

Cioè, in realtà sì, se è un nemico con un forte senso dell’umorismo e una discreta dose di faccia tosta ci sono diversi regali perfetti per ferire qualcuno.

    • Alla tua ex che ti ha rimpiazzato con troppa celerità: un elenco del telefono di Roma con la dedica “Non dovesse funzionare neanche con questo ecco alcuni suggerimenti”;
    • Al tuo capo che ti ha rimproverato perché stavi scrivendo i cazzi tuoi: 1984 di George Orwell (specifico nel caso il mio capo legga questo blog, capitemi, non legge molti libri, magari non sa chi l’ha scritto e finisce per procurarsi un almanacco del calcio di quell’anno e mi ringrazia pure);
    • A tuo padre che non ti presta la macchina per uscire sabato sera: il Deserto Dei Tartari, di Buzzati;
    • A tua sorella che è già tanto se sa leggere: niente, che le regali a una così? Se c’è una cosa triste è un libro dimenticato in uno scaffale vuoto.

No, vabbè, sono idee banali, io non ce l’ho la cattiveria sottile per fare una cosa così, io se voglio dare dello stronzo a qualcuno gli dico che è uno stronzo, non glielo lascio intendere fra le righe, anche perché non lo reputo capace di recepire il sottotesto, per me gli stronzi sono quadrati fuori e vuoti dentro, che poi è la ragione per cui finiscono per essere stronzi. Non esiste nessuno cattivo per dedizione, lo sono tutti più o meno inconsapevolmente, o spinti da ragioni più forti della loro bontà.

Tipo Hitler: credeva davvero che a sterminare tutti gli ebrei e gli omosessuali e gli storpi e i malati di mente e in pratica tutti quelli che non erano lui il mondo sarebbe stato un posto migliore. Mica si svegliava la mattina pensando oggi voglio fare qualcosa di veramente cattivo. Si svegliava e gli giravano così le balle di doversi svegliare che guarda, invado la Cecoslovacchia. E i cecoslovacchi che ne facciamo? Ma che cazzo me ne frega, chi li conosce quelli?
L’indomani si svegliava che ce l’aveva a morte con gli ebrei. Ma poverini, che ti hanno fatto? Mi stanno sul cazzo. Vabbè, ma mica è una buona ragione per ammazzarli. Sei ebreo te? No. E allora fatti i cazzi tuoi e vai ad accendere il forno.
Era un po’ tanto egocentrico, ma sono sicuro che non si sarebbe definito cattivo.
D’altronde neanche quello che oggi vorrebbe sparare sui barconi dei profughi si definirebbe cattivo. La differenza fra lui e il tizio coi baffetti alla Chaplin è che il tizio ha avuto la possibilità di farlo, lui può solo scriverlo su facebook. Ma dagli un popolo così disperatamente bisognoso di un leader forte da seguirlo nei suoi scazzi mattutini, e vediamo come si comporta. Non dimentichiamo che c’è gente che nel 2017 vota Salvini.

Siamo tutti lo stronzo di qualcun altro, a proporre la giornata mondiale contro gli stronzi si otterrebbero milioni di adesioni, ma al momento di tirare giù i nomi di quelli da rinchiudere in un’apposita riserva ci si renderebbe conto che si fa prima a lasciarli dove sono e casomai isolare quei tre o quattro che non sono stati nominati da nessuno, che però non si vogliono isolare perché sono brave persone e a loro gli stronzi non danno fastidio.

No, non fai parte di quei tre o quattro, stai tranquillo. Se pensi di farne parte è perché riesci a identificare gli stronzi, ma i buoni non lo dividono il mondo in buoni e cattivi, trai da te le conclusioni.

Va bene, il mio contributo per la giornata mondiale del libro è stato scrivere una cazzata che facesse venir voglia di andare ad aprire un libro invece di star qui a leggere i miei sproloqui, adesso vado a pisciare il cane e poi scendo in città a vedere un concerto di un tizio che scrive testi pescando a caso parole dal vocabolario e suonandoci sotto gli stessi quattro accordi da anni, ma l’ultimo disco mi è piaciuto e lo vedo volentieri.
Voi intanto andate a cercare una libreria aperta, che gli ultimi dati sulla lettura in Italia sono inquietanti, poi ci credo che uno vota Salvini e invade la Cecoslovacchia.

3.
Sceso dalla Sé attraverso il ponte sul suo piano più elevato e mi perdo nella cittadina di Villa Nova De Gaia. Prima di tutto salgo a vedere quel grosso edificio che sovrasta il fiume, dove non sono mai stato. È una caserma, non mi ci fanno entrare e francamente bene così, ci ho già passato un anno di più di quanto fosse necessario, dentro una caserma come quella. Mi va benissimo guardare il panorama dalla spianata sottostante.

Villa Nova De Courmayeur

La ringhiera è piena di lucchetti, a casa prima di partire ho studiato dei tutorial su come aprire un lucchetto senza usare la chiave. Proverei, ma oltre ai lucchetti il piazzale è pieno di anziani militari col cappotto di cammello, e mettermi a scassinare cose davanti a gente che magari sotto Salazar portava i dissidenti a fare quei giri fuori città da cui poi non riesci più a tornare mi pare irrispettoso. Irrispettoso verso la mia salute, voglio dire. Così me ne vado e scendo verso il fiume prendendola lunga, che per chi mi conosce significa finire nel solito buco di quartiere di merda dove non c’è un cazzo di niente da vedere, solo case deserte e strade occupate da carcasse di auto.
È il mio superpotere, dovunque mi porti riesco sempre a trovare la strada più merdosa che ci sia. Fosse anche il quartiere più vivo della città, io riesco a svoltare due volte e finire in mezzo alla morte.

Quando arrivo sulla strada che costeggia il Douro ho addosso tutta la tristezza di una città di alcolisti abbandonati al proprio dolore sul bordo di una strada di periferia, e anche di un paio di tossici, però educati.

Il piccolo borgo di São Pedro Da Afurada dista da Gaia poco più di tre chilometri, percorribili in cinque minuti in auto, sulla strada che costeggia il Douro fino alla sua foce, o un’ora camminando tranquilli sulla passerella di legno accanto alla strada. Ci sono anche delle panchine ogni tanto, dove puoi prenderti la gelida ombra dei mesi invernali o il sole calcificante di quelli estivi, e intanto farti ghermire le articolazioni dalla perenne umidità che sale dal fiume.
Trovi sempre da sederti su quelle panchine, ma stranamente non lo fa mai nessuno.

basta poco

Quando finalmente arrivi è una festa, ti si apre davanti il molo coi pescatori che scaricano cassette di sarde e calamari sotto lo sguardo attento dei gabbiani. È sempre uguale il molo di Afurada, ci sono macchine mollate ovunque, gente che va e viene dai banchi del mercato che sta più avanti, odore di pesce alla griglia dalle trattorie che si affacciano sulla strada. Il traghetto scarica passeggeri che arrivano dall’altra sponda, quella della vecchia Porto e della sua area urbana più recente, ma la maggior parte abita qui, o ci arriva in autobus passando per l’abitato di Villa Nova De Gaia, che tutti conoscono solo per il lungofiume pieno di cantine, ma si estende parecchio all’interno, e fa abbastanza schifo.
Anche Afurada è poco appetibile da un punto di vista architettonico, un reticolato di casette basse tutte uguali, sembra un campo di roulottes rivestite di piastrelle giallo malattia. Però c’è sempre il sole quando ci arrivo io, e il profumo di cibo aiuta un sacco. Vado a cercare il mio ristorante preferito, e lo trovo chiuso. C’è un cartello davanti con esposto il menu del giorno e i prezzi, ma la porta è chiusa, la griglia per cucinare il pesce è spenta, le tende sono abbassate, insomma cazzo è chiuso. E ora?
Chiedo a un signore che fuma e mi guarda, fermo sull’uscio di casa. Mi dice che riaprirà a febbraio. E ora?
Mando un messaggio a Marzia che si potrebbe riassumere in “Il ristorante è chiuso, dove sei, ho fame”, e ne ricevo uno che dice “Come chiuso, ci siamo fermate in un capannone che vende antiquariato”, poi mi si spegne il telefono.

Che significa? Che ho la batteria scarica. No, intendo il messaggio di Marzia, che significa capannone antiquariato? Devo aspettarle per mangiare? Arriveranno? Non arriveranno? Io ho fame!

Vado a vedere se scende dal traghetto, ma non scende. Aspetto il successivo, ma non scende neanche da quello. Il mio cervello elabora sequenze di immagini catastrofiche, io che muoio di fame lungo la strada e vengo mangiato dai gabbiani, io che mi vedo chiudere davanti tutte le trattorie e finisco per mangiare al ristorante carissimo dove non ho soldi per pagare e mi arresta la polizia col punto dopo il nome, che fa un casino più cattivo della polizia e basta, io che mi scogliono e vado a mangiare da solo da un’altra parte.

Scelgo questa, e mi dirigo al Cafè Vapor, una piccola trattoria sulla strada con un tavolo di legno al sole collocato proprio vicino alla griglia del pesce. Mi piacerebbe prendermi una bronchite mentre i miei vestiti s’impregnano di umori ittici, ma i miei compagni di stanza sono già infastiditi dalla mia presenza così, senza bisogno che li obblighi a passare una notte con le finestre spalancate. Mi siedo a un tavolo all’interno, e ordino delle sarde.

Le sarde portoghesi non vengono pulite prima di cucinarle, te le servono con testa e interiora, e a qualcuno può dare fastidio. A me un po’ ne dà, più che altro la noia di pulirle. Il tavolo accanto al mio riceve una conca di calamari grigliati che se ci penso piango ancora adesso. Dev’essere stato lì che ho deciso di tornare a Porto prima possibile per fare tutto quello che non sono riuscito a fare neanche in questo viaggio, e metto i calamari grigliati in cima alla lista.

Intanto che mangio sento qualcuno chiedere “chegou o circo?” e so già cosa stanno guardando prima di voltarmi. Faccio un cenno e Marzia e la sua amica Iggy Superpop si fanno strada nel locale.

Non ci hai aspettato, che stronzo! Si è spento il telefono e non sapevo più se sareste arrivate. Avevo detto alle dodici e mezza, lo sono adesso. Eh ma io avevo fame da un’ora! Son venuto a piedi! Sei sempre il solito. E qui non c’è posto per sedersi. Potete mettervi sulle panche fuori, si sta bene, a parte l’odore. Sticazzi dell’odore, fra un po’ arrivano tutti gli altri, ci serve un tavolo grande! Se non vi disturba che poi tutti si volteranno a guard.. no, non credo che vi farete problemi.

Finisco di mangiare, prendo anche il caffè, e spendo pochissimo, ma tipo la metà di quello che avevo calcolato di spendere, che era già pochissimo.
Esco dal locale con un sorriso che le due compagne di viaggio di cui sopra interpretano subito male:

L’hai notato anche tu che hanno la Sagres invece della Super Bock, eh? Quante te ne sei bevute? No, sorrido per il prezzo. Vabbè, ti fermi con noi? Stanno arrivando i nostri amici, così li conosci. Arrivano con un pulmino Volkswagen tutto colorato? Saranno tantissimi! No, col traghetto, perché?

Me ne vado piccato, che quando faccio una battuta divertente e non la colgono ci rimango male. E poi sono in uno dei miei momenti sociopatici, mi sento venir su quel vuoto cosmico che mi fa stare come in mezzo alla piazza di Pechino senza un’idea di cosa stia dicendo la gente che mi cammina accanto, senza sapere come fermarli, cosa dirgli, dove andare e perché. Ho bisogno di stare da solo e mugugnare sottovoce, ho paura dell’ignoto, sono annoiato dai soliti schemi che si ripresentano e dalle mille paure diverse che bloccano ogni desiderio. Vorrei andare alla duna di sabbia giù alla foce, vorrei tornare a Gaia ma poi non so cosa fare una volta là, vorrei prendere il traghetto e andare di là, ma poi che me ne faccio, vorrei restare ma conoscere persone in questo momento sarebbe come chiedere a un pugile se sua madre è davvero così brava a fare pompini, e stare da solo non è il massimo quando mi piglia così.

Monto su un autobus guidato dal più famoso pilota di formula 1 portoghese che però non ha avuto il successo che meritava e si è dato al servizio pubblico, e ci vuole tutta che le sarde rimangano al loro posto nello stomaco.

Torno in centro e mi do alle spese folli, il poster della mia cantina preferita che appenderò in camera appena torno e che invece non ho neanche tirato fuori dal suo tubo di cartone e continuo a raccontarmi che è perché non ho tempo di andare a comprare una cornice, ma quando trovo il tempo non so le misure e intanto mi si accumulano i poster arrotolati, fra un po’ apro una cartoleria;
compro un giubbotto di jeans e una camicia colorata, cioè, io una camicia colorata, non so come farò a metterla nell’armadio senza che tutte le altre camicie grigine e nere saltino fuori inorridite.

E poi vado a vedere il fichissimo Palácio Da Bolsa, che per quelli che non sanno il portoghese sarebbe un ex giocatore del Genoa ceduto all’Inter, celebre per il codino e i gol, e lo si prende in considerazione nel periodo in cui è appartenuto a una signora dall’aspetto stanco ed evidenti problemi di respirazione.
Non so perché certe volte scrivo cose del genere.

(continua)

“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

Succede di guardare una persona da vicino e vederci il futuro.
Il tuo, il suo.
Quello dei pochi fortunati che lascerete avvicinare alla vostra perfezione.
Succede, non posso farci niente.

Come succede che i tempi non coincidano,
che uno dei due non sia pronto, il futuro diventa trapassato.
Il posto dei trapassati è il cimitero.

Per fare il morto bisogna sopportare l’acqua nel naso, tenere la schiena rigida e le gambe tese, sennò ti ribalti. È anatomia, gli uomini stanno a galla sulla pancia.
Per le donne è più facile, basta lasciarsi andare.

Io vorrei sapere chi sei quando ti lasci galleggiare.

Come se bastasse dire che va bene e chiudere il mondo fuori dalla casa di cartone.
I muri si scollano, ai mobili disegnati non si aprono i cassetti, ma tanto cosa ci devi mettere dentro?
La felicità non esiste, è tutto rumore di fondo.

Volevo una ragazza, ho trovato i Joy Division.
Ma forse hai ragione, i sogni finiscono, la disillusione mai.
Il vantaggio degli ultimi è che non li sorpassa nessuno.

Io non vado mica bene per te.
Vuoi un uomo solido ma non vuoi la forma,
la quiete quando fa burrasca e il caos quando non c’è.

Fra noi non poteva funzionare, io sono anaffettivo e troppo emotivo,
tu sei troppo coinvolta e troppo fredda.
Aspetta, non ho capito, puoi ripetere?

È che non mi apro abbastanza.
Poi sì, poi no, poi troppo, e tu vuoi un fidanzato, mica una tapparella.
Tu devi far quadrare i conti.

Ma non eri tu, serate a leggere poesie? Un amore che mi porti via? Perdersi nell’altro?
Non accetto niente di meno?

No, adesso non hai tempo, non ti puoi fermare.
Le priorità.
Progetti per il futuro? Fissare il vuoto.

Fai bene, la poesia non te lo paga il mutuo.
Il futuro costruiscilo con chi te lo può mantenere.
Magari prima o poi riuscirete anche a parlarvi.

Anche il teatro delle marionette è teatro.

Magari lo trovi un contabile poco impegnativo
instabile nell’immobilità
che ti darà dei figli
ma non ti parlerà
troppo.

Ti farà
felice no
comoda.
Ti farà comoda.

Auguri.

Riassunto delle puntate precedenti:
Ci sono due che parlano parlano e non succede mai niente.

“Eravamo appena sbucati sulla strada che costeggia il lato nord di Central Park, io cercavo sulla cartina una stazione della metro che ci riportasse verso casa, e ho commentato che quella parte della città si chiamava Uptown. Dopo cinque minuti ci siamo ritrovati tutti e due a canticchiare Uptown Girl e fare passetto e calcetto in mezzo al marciapiede. È stato spontaneo, ed è tutta lì la bellezza del ricordo. In quel momento eravamo una persona sola e tutto sarebbe stato perfetto.
Cerca di capire, non si tratta di conoscere le stesse canzoni, è parlare la stessa lingua, è riconoscersi come appartenenti al medesimo branco. È tutto lì. Può funzionare anche fra persone diverse, o finire a puttane due giorni dopo, ma se non sapete neanche giocare insieme, se vi accontentate del tempo condiviso davanti alla tele, o al ristorante, o a letto, vi state solo accompagnando in giro.”

“Come sei negativo, madonna!”

“Ma guarda che è così. Non state parlando, vi dite delle cose. C’è una differenza. Non costruite niente, e prima o poi vi crollerà tutto sulla testa.”

“Vabbè, dici così solo perché sei incazzato con me.”

“Non sono incazzato con te.”

“Sì che lo sei. Perché sono stata con Piergigi invece di venire a Roma con te.”

“Casomai perché me l’hai detto la sera prima, e non sono il tuo pupazzo. Ma va bene, i miei amici non mi hanno chiesto delle penali per avere annullato la tua prenotazione. A casa loro non usa, per fortuna. Com’è andata?”

“Ma te l’ho detto com’è andata”

“Intendo com’è successo che ti sei lasciata fregare di nuovo quando sapevi chi avevi davanti e avevi già preso la tua dose di calci in faccia. Cosa ti ha fatto pensare che stavolta sarebbe stato diverso?”

“Lo so da sola di essere una cretina, non c’è bisogno di infierire”

“Invece credo che ci sia bisogno eccome. Non ci credo a queste storie che si trascinano per mesi senza ragione.”

“Ma chi te l’ha detto che sono senza ragione? Due persone possono avercene mille ragioni, per stare insieme. Perché si piacciono, perché si fidano l’uno dell’altra, non basta?”

“Perché si accontentano.”

“Ma che ne sai?”

“Nel migliore dei casi ce n’è una che ci crede davvero e l’altra che approfitta di una situazione che sa benissimo non essere quella che desidera, ma se la tiene ben stretta perché poco e male è comunque meglio di niente. Finché non gli scoppia in mano, e allora te la trovi in casa a piangere e a chiederti perché non ha funzionato. E come faceva a funzionare? Lo sapevi benissimo e hai fatto finta di niente, eravate due estranei che vanno nella stessa direzione. Se ti siedi su un treno e guardi gli altri passeggeri la capisci la differenza fra quelli che condividono un’esperienza e quelli che stanno solo andando nello stesso posto. Il vostro problema è che non volete vedere. Dite che va tutto bene finché funziona, vi raccontate delle balle per non ammettere i problemi. Siete dei pavidi.”

“Ah ecco cos’è, ti ho disturbato coi miei problemi da ragazzina. Beh, scusa, credevo che fossimo amici, di solito fra amici ci si aiuta.”

“Ti sto aiutando. Hai cercato di far funzionare qualcosa che non poteva funzionare. Te l’avevo detto anche prima, non mi hai dato retta.”

“Spero di arrivare alla tua perfetta consapevolezza un giorno, così saprò tutto e non sbaglierò mai. Anzi, sai cosa? Spero di no, perché non voglio diventare una persona cattiva, arida e sola come te!”

Lascia la porta aperta quando esce, e neanche la sento sbattere il portone Scendo a chiuderlo prima che il gatto del vicino si butti in strada. Lo lascia girare libero per le scale, quel deficiente. Tutti i giorni tiro via matasse di pelo dallo zerbino.
Drusilla ha lasciato mezza birra sul tavolo. Una radler, quelle porcherie aromatizzate al limone. Quando viene a trovarmi ne porta qualcuna, poi non le beve e mi restano in eredità. Quella ragazza ha un sacco di pregi, ma non quello di saper scegliere gli alcolici.

La butto giù senza respirare, sa di detersivo per i piatti. Apro un’altra bottiglia delle mie. Sarà una lunga notte.

…….

Il messaggio di scuse di qualche ora prima non ha sortito alcuna risposta. Ho dormito poco e male, mi gira la testa e la bocca sa di caramelle al limone, quelle più economiche.
Avevo promesso a Beonio che sarei passato da lui, magari fare due passi mi farà sentire meno stronzo.

Per le scale incontro il gatto dei vicini. Non è lui che si è mangiato Chico Buarque, quello è morto, aveva trovato il portone aperto ed era uscito, finendo sotto una macchina. La mia. Anche il portone l’avevo lasciato aperto io. Verso questo gatto non provo alcun rancore, è simpatico. Gli gratto la testa, si struscia sulla gamba lasciandoci un tappeto di peli rossi. Lui non mi trova cattivo né arido.

Vado a trovare Beonio nel suo studio. È un ingegnere. Non so come mai ho solo amici ingegneri, forse sono una categoria affidabile. Puoi tenerli ore a raccontargli i tuoi problemi e non smettono mai di ascoltarti, tanto non hanno niente da dire. Sono persone noiose, perlopiù.
Beonio no, è divertente, soprattutto quando beve. A lui piace la figa, ne è soggiogato. È capace di scendere a qualunque bassezza, accettare compromessi morali che farebbero vergognare un eroinomane in crisi, se alla fine lo potrà buttare a qualcuna.
Non è neanche troppo esigente, gli piacciono tutte purché ancora in vita e dotate di tutti e quattro gli arti.

“Perché hai dei peli di gatto sulla gamba?”
“Mi sono preso un gatto”
“Tu? E che te ne fai?”
“Il ragù”

Mi ha chiesto di accompagnarlo a cena con la sua ultima conoscenza, una ragazza che ha conosciuto al supermercato. Lei per accettare l’invito gli ha imposto la presenza di un’amica, così adesso gli serve uno chaperon.

Non sono entusiasta di mettermi nello stomaco cose che potrebbero venire sparate fuori all’improvviso, cercherò di tenermi leggero e stare lontano dal vino.

“Dove andiamo a mangiare?”
“Dal messicano”
“Le fanno le insalate?”

Gallo Pinto – Cocina latina, dice l’insegna, abbellita da un galletto dipinto uguale sputato a quelli di Barcelos.

“Messicano o portoghese?”
“Messicano”

Sento puzza di fregatura. Beonio mi indica due ragazze vicino all’ingresso. Una è bionda, tre metri senza tacco, mascella vichinga e spalle da rugbista. L’altra è la sua borsetta, le arriva a malapena al ginocchio, scura di pelle, lunghi riccioli neri e viso tondo, incorniciato da un paio di occhiali dalla montatura pesante.

“Qual è la mia, il pioppo o il cespuglio di more?”
“La mia è Francesca, la bionda. L’altra dovrebbe essere Anna, la sua coinquilina. Non farmi fare figure!”

Francesca è di Padova, Anna di Lecce.

A Francesca piace correre la mattina prima di colazione, ad Anna la colazione al bar.
Francesca ama sperimentare in cucina e odia lavare i piatti. Anche Anna odia le pulizie, e anche gli esperimenti culinari della sua coinquilina.
A Francesca piacciono i gatti, viaggiare, ascoltare radio commerciali, la discoteca, il mare, la discoteca al mare, la palestra, i romanzi di Andrea De Carlo, quelli di Jane Austen, Frida Kahlo, Jack Savoretti, i film d’azione e quelli di supereroi, le commedie romantiche, la poesia nella vita.

Anna ama il blues, i fumetti, John Coltrane, le giornaliste incazzate, il Salento ma non d’estate, quando si riempie di punkabbestia, Douglas Adams, Cesare Pavese, i pittori boh gli impressionisti, dormire.

Di Beonio noi che lo conosciamo, i suoi amici, sappiamo che ama la figa, le commedie sboccate coi comici della televisione e le modelle in tanga, la pizza, il Movimento 5 Stelle, la birra rossa e il calcio. Tuttavia si dimostra un abile venditore di sé stesso, dichiarando di apprezzare l’onestà, l’amore e la semplicità nelle cose di tutti i giorni.
Sorrido, so che nel suo caso quest’ultima voce significa scorreggiare senza trattenersi, ma le ragazze sembrano colpite. Aggiunge di amare la buona cucina, le poesie di Apollinaire (EEH??), le lunghe passeggiate da solo, in mezzo alla natura.

L’immagine di Beonio all’alba in un bosco, a rompere il silenzio con lunghi bramiti del culo, mi perseguiterà per il resto della serata.

“Non lo conosco Apollinaire”, gli dice Francesca.

Sotto il ponte Mirabeau scorre la Senna
E i nostri amori
Me lo devo ricordare
La gioia veniva sempre dopo il dolore

Mi cade la faccia nel piatto per lo stupore.

“E tu ce l’hai un poeta preferito?”, mi chiede Francesca. È solo lei a portare avanti la conversazione, la sua amica sposta l’attenzione nel tragitto più breve da noi al piatto, dove si ferma a lungo a riflettere. Sembra persa in un suo dramma interiore, o forse si è resa conto di avere sbagliato a ordinare.

Io non ho voglia di rispondere a questionari sulla mia vita, ho voglia di margarita frozen, uscire ubriaco, chiamare Drusilla e scusarmi, dimenticare questa serata e queste due. Ho deciso che Francesca mi sta sul cazzo, è come una cantina illuminata con un faro da stadio, troppa energia sprecata in futilità. La sua amica non esiste, è depressa. Sono depresso anch’io, ma almeno sto chiuso in casa, non vado in giro a mettere in imbarazzo il prossimo.

Beonio risponde al posto mio:

“Ah ma lui le poesie le scrive! Ma non chiedetegli di recitarle, lo fa solo da ubriaco”
“Perché è lo stato in cui le scrivo”

“E che genere di poesie scrivi?”, chiede Anna, uscendo dallo stadio pupale.
“Di rabbia”, abbozzo.
“Politiche?”

Nero
Come il dolore che ostenti
L’orgoglio che ti inchioda
I capelli che ti nascondono
La coscienza sporca.

Nero
Come il futuro
Che vedi coi tuoi occhi neri
Che non cerchi di cambiare
Se non per renderlo più nero.

Di azzurro avevi il cielo
Ma si è depresso
Per il troppo frequentarti
È diventato nero.

“Più o meno”

Dopo il ristorante Beonio si offre di accompagnare a casa qualcuno, e Francesca accetta volentieri in maniera del tutto casuale. Nessuno l’aveva capito che sarebbe finita così, carrellata della telecamera sulle nostre facce sbigottite.
No, vabbè, seriamente, ma chi volete fregare? La parte fastidiosa è che così sono obbligato ad accompagnare a casa Anna, perdipiù a piedi, che la macchina se l’è portata a casa il mio amico.
In una scala di situazioni spiacevoli la colloco appena sotto la tua azienda che “La Sua figura per noi è molto importante e il Suo rendimento ineccepibile, per questo abbiamo pensato di ricollocarLa presso una nostra sede decentrata dove le Sue risorse e competenze sapranno donare nuova vitalità e generare profitto. Siamo certi che, come noi, vedrà in questa promozione una grande opportunità di crescita presso la nostra azienda, e ci auguriamo che possa trovare nel popolo siriano l’accoglienza e il calore che merita”.

Non è perché per tutta la cena è stato come avere vicino un portaombrelli, sono sicuro che a darle tempo risulterebbe simpatica, o perlomeno viva; non è neanche il suo aspetto, è molto carina sotto quella mascherona da studentessa sfigata delle medie. È che non ho voglia di conoscere un altro essere umano, attivare dei meccanismi di corteggiamento dimenticati in cima a qualche armadio chissà dove e che oramai neanche funzioneranno più. Io e la seduzione frequentiamo ambienti diversi, abbiamo sentito parlare l’uno dell’altra, ma non ci siamo mai incontrati. Se dovessi provarci con questa ragazza non saprei da dove cominciare. Eppure il motore si accende da solo, e mi accorgo di avere cambiato tono di voce, di guardarla in quel modo là.
Maledetto istinto, perché non possiamo essere puro intelletto? Hai fatto solo guai finora, lasciami in pace!

La accompagno fino a casa sua, per fortuna non è lontano. Ci domandiamo che fare se Beonio e Francesca fossero nell’appartamento, sarebbe imbarazzante trovarli nudi sul divano.

“È capitato?”

“Un paio di volte. È proprio davanti all’ingresso, non puoi evitarlo. Qualche volta la sento da fuori e non entro, ma se non fa troppo rumore..”

Restiamo un po’ appesi a vedere che succede, e non succede niente. Mi saluta, si trattiene un secondo appoggiata alla mia guancia, e in quell’attimo di esitazione passano tutti i messaggi necessari a farmi capire cosa sta per succedere.
Me ne vado, porto in tasca la promessa di qualcosa che non so se desiderare, e un bel po’ di confusione.

(va avanti ancora un po’)

Ho bisogno di una parola.

Da un po’ c’è questa moda di divulgare termini in lingue straniere che sembrano circoscrivere con precisione concetti per natura vaghi, come l’odore di ascelle e piedi sull’autobus che ti porta in centro nelle mattine di agosto.

Pare che in tedesco si dica Augustmorgenbusfüßeachselhöhlengeruch.
Sembra quasi una ninnananna, lontanissima dall’immagine che descrive.

Credevo che una lingua aspra come il tedesco funzionasse solo con gli insulti, ma è anche vero che è stato un poeta di lingua tedesca a scrivere questo sonetto bellissimo.

Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.

Sii sempre morto in Euridice – innalzati cantando
e, nella pura relazione, ridiscendi celebrando!
Qui tra quelli che svaniscono, nel regno del declino,
sii risonante cristallo che già nel suono s’è infranto.

Sii – e insieme sappi la condizione del non-essere,
fondamento interminato della tua interna oscillazione –
che tu possa compierla appieno, quest’unica volta.

Alle risorse già usate, come a quelle oscure e mute
della natura ricolma, alle somme indicibili,
aggiungi con gioia te stesso, pareggia il conto!

A me basta una cosa più semplice, credo.

Ho bisogno di una parola per descrivere quella malinconia che ti prende quando pensi a una città dove sei stato una volta, ed è troppo lontana per tornarci ancora.

Ma non solo.

Dovrebbe descrivere il momento in cui ti capita sotto gli occhi una sua foto, e ti prende il desiderio di rivederla, camminare fra i suoi palazzi, respirarne l’odore. La voglia di perderti in angoli che non hai avuto il tempo di esplorare, di scoprire aspetti di lei che ancora non conosci.

E questo desiderio dovrebbe impastarsi con la tristezza di sapere che probabilmente non la ritroverai più, perché è davvero troppo lontana.

Mi serve una parola che trasmetta le giuste dimensioni di quel piccolo dolore che non fa davvero male, tanto che ti piace coltivarlo, fossero tutti così i dolori, in un paio di sospiri se ne vanno.

Non lo so se in qualche lingua esiste una parola che spieghi tutto questo.

Magari in eschimese, loro ci stanno attenti a questi dettagli, hanno tremila parole per dire neve, figurati se non ne hanno una per spiegare che un posto lo senti tuo anche se non ci hai mai abitato abbastanza, ma se potessi chissà, forse lo faresti.
Che sopporteresti il rumore che fa una città, anche una rumorosa e scomoda e fredda e caotica.

Ma quanta vita c’è in una città, quanta ne puoi assorbire, eh, eschimesi?
Lo sapete voi?

Come si dice che del tuo luogo preferito al mondo ami anche i difetti, e oggi li rimpiangi tutti?
Che sei dall’altra parte del mondo a guardare la sua fotografia e vorresti essere lì, seduto sui gradini di un portone qualsiasi a guardarla per un po’, questa foresta di palazzi e persone che non si fermano mai, e camminarle accanto senza una destinazione, solo per il piacere di respirarla ancora un po’ e sentirti il suo odore addosso.

Stasera mi serve quella parola lì.

Non è che puoi chiamare Central Park e dirgli che ti manca.
Il Chrysler Building non lo incontri per strada e fai il distaccato per non mostrargli quanto è brutto girarti e andare via.
Non te lo sogni di notte, un newyorkese, e se succede non ti svegli come se ti fosse caduto dal letto il cuore.

Ci vuole una parola che sostituisca tutto questo, non importa in che lingua, mi basta che sia una parola sola.

E che magari si possa usare anche per le persone.

Un cielo drammatico. Nuvoloni neri sovrapposti a teli bianchi, dai cui strappi emerge un azzurro violento come certi occhi incazzati sanno diventare. E il vento che ti sbatte addosso e fa schioccare la maglietta.

Con un cielo così ci starebbe bene la costa di un monte, ciuffi d’erba e rocce, qualche pino dal tronco nodoso. E le note gravi di un violoncello. Bach, magari.

Io avrei i capelli spettinati più del solito e lo sguardo severo fisserebbe l’orizzonte, il mare, vele lontane che si avvicinano.
Mi chiederei che cazzo ci faccio su un monte in maglietta, con un tempo del genere. Ma soprattutto che cazzo ci fa Rostropovich.

Lui alzerebbe le spalle e continuerebbe a suonare, mentre il vento gli fa volare via lo spartito.

Se un fotografo fermasse quel momento esisterebbe una foto di me in maglietta sulla costa brulla di un monte,circondato da fogli che mi volano intorno. Sarebbe una gran foto, è un peccato che non esista.

In alternativa potrei farmi fotografare fuori dal bar dei Luzzati con una birra in mano, mentre intorno a me svolazzano tovaglioli usati e il guardiano si avvicina per dirmi che devono chiudere. Sullo sfondo, al posto dell’erica, due ragazze a un tavolino, avvolte in pensieri che devono essere parecchio pesanti, dalla faccia che fanno. Una è molto bella, ha la sigaretta in mano e vorrebbe essere altrove.
L’altra non è così bella. Non lo è affatto. A dirla tutta sembra la figlia di Kermit e Miss Piggy se la loro relazione facesse un passo avanti. Forse sta pensando ai suoi genitori, oppure ha solo sonno, perché i Luzzati chiudono alle due ed è stata una giornata difficile, passata a consolare la sua amica incontentabile coi suoi perenni problemi del cazzo.

Sarebbe una foto molto meno interessante, non mi va di lasciare traccia di episodi simili. E poi non c’è neanche Rostropovich, lo abbiamo lasciato lassù sul crinale, a suonare a memoria mentre Bach si riunisce ai fiori.
Forse è tutto lì, essere abbastanza sicuri e determinati da fermare quello che davvero conta e lasciare che il resto scompaia, capire la differenza.

C’è un gran casino nelle teste delle persone, figurati nella mia.