Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa
‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
mi sentu stranizza d’amuri

Domenica
Noi in realtà saremmo venuti fino in Sicilia per il mare, ma il mare di Palermo non ci sembra questa gran cosa. Forse a Mondello, ma bisogna spostarsi coi mezzi pubblici, e a quanto leggo la spiaggia è piccola, e qualcuno dice pure sporca. L’unica sarebbe allontanarsi dai centri abitati, ma senza una macchina come fai? Insomma, andiamo a Cefalù. Troviamo una spiaggia a 15 euro 2 persone che ci fa abbandonare la politica della spiaggia libera in favore del lettino e dell’ombrellone. La doccia fa cagare come quella della spiaggia libera, in ogni caso. Dopo un’ora di acqua e sole io sarei già a posto e mi infilerei nelle stradine del centro storico a cercare da mangiare, ma Shasha esige il suo tributo di Mediterraneo e tocca restare fino alle 4. Poi raggiungiamo la cattedrale facendo a gomitate coi turisti in una delle uniche due strade percorribili, tutte piene di cazzate fintissime. È il paradosso del turismo, che migliora le condizioni di vita di un luogo grazie al denaro speso dai turisti, ma ne rovina l’aspetto proprio a causa del turismo. Tutte le località turistiche del mondo finiscono per assomigliarsi, con la sola differenza dei cartellini del prezzo sopra l’espositore delle calamite da frigo, scritti in lingue diverse.
Ci prendiamo una granita in piazza, quella buonissima dappertutto, e un aperitivo in un bar ai margini del centro storico, non lontano dalla stazione. Sono le quattro passate, abbiamo perso di poco il treno per il ritorno e per quello successivo bisogna aspettare altre due ore. Dopo mezz’ora non ne possiamo più, siamo in astinenza da cibo di strada e macchine che ti arrotano sulle strisce.
Ma più dal cibo di strada, qui non c’è un cazzo, solo negozi di souvenir e tedeschi che ciondolano.

Ce ne andiamo, ma passiamo tipo un’ora che però sembra una settimana a girare per le strade dove o è tutto chiuso o è un posto che si chiama Sicily Store, e fa un caldo porco e l’umidità è la stessa che nel Borneo e se mi strizzo la maglietta faccio mezzo bicchiere di brodo, e figurati se strizzo le mutande, abbiamo bisogno di una doccia livello quando ti si rompe la tuta spaziale e sei su Marte.

—–

Lunedì
È il giorno in cui lasciamo Palermo per il remoto sud-est trinacrico. Prendiamo il treno fino all’aeroporto, dove dovremmo ritirare la macchina a noleggio, ma prima facciamo una colazione al bar sotto casa, e decido che non posso più vivere senza quelle grosse brioche fritte ripiene di ricotta e cioccolata, le iris. Le troverò anche in quelle terre così lontane?
Spoiler: sì, ma non così buone.
Spoiler 2: sticazzi, mangerò cose che non me le faranno rimpiangere.

Ci danno la macchina, solo che prima devono portarci fino a Cinisi e poi farci spaventare da un’impiegata con racconti orribili di furti d’auto, incidenti, righe sulle fiancate, per farci fare un’assicurazione extra. Rifiuto, figurati se vado a pagare 120 euri in più perché questa si deve prendere la sua percentuale, e l’impiegata dell’autonoleggio smette di colpo di essere amichevole e mi tratta con una freddezza immotivata che mi regala anche un po’ di soddisfazione. Vaffanculo, stronza, fattelo pagare da qualcun altro il tailleur nuovo.
Comunque partiamo, e finiamo imbottigliati subito dentro Palermo, poi di nuovo a Bagheria, poi in tutto il tragitto fino a Enna. Ogni due tre chilometri la strada si restringe e restiamo imbottigliati. E io che mi lamentavo delle autostrade liguri.
A Enna non ne possiamo più e usciamo a cercare da mangiare. Shasha trova su google un ristorante con buone recensioni, e per raggiungerlo saliamo fino in cima alla città, che sta su un monte, poi scendiamo dalla parte opposta senza vedere niente di questo posto che dev’essere anche interessante, così arroccato, e finiamo nella parte nuova, in basso, in mezzo a un quartiere anonimo che potrebbe stare benissimo in qualunque periferia del mondo.
Il ristorante promettente è una trattoria per operai in pausa pranzo, due primi due secondi caffè e basta. Siamo perplessissimi.


Trattoria Francesca, accà si mangia como na vota, dice il cartello. Una volta dentro scopri che non si riferisce al menù: sono sintonizzati su Radio Margherita, e la cuoca canta tutto il tempo le canzoni di Al Bano e Romina e quelle di Masini, aggiungendo malessere a disagio.
Capisco come devono sentirsi i marziani quando atterrano sul nostro pianeta e cercano di mescolarsi alla popolazione.
Mangiamo due porzioni abbondanti di tagliatelle fatte in casa, e non spendiamo neanche tanto, ma a parte questo non merita di essere ricordato a lungo.

Arriviamo ad Avola senza grossi impicci, tranne un cantiere ogni chilometro, che vorrei tanto uccidere qualcuno e capisco quelli che odiano i Benetton come se fossero loro in persona a sabotare i viadotti autostradali. Io cerco di capire che la realtà è più complicata di così e non si può addossare tutte le responsabilità su una persona, e infatti non vorrei uccidere i Benetton, è eccessivo, ma devo ammettere che prendere a calci una pecora adesso mi farebbe sentire un po’ meglio.
La casa è figa livello due punti esclamativi, e Pino è un simpatico cicciottello paraculo che sa fare bene il suo mestiere, ma merita davvero tutti i complimenti perché si sbatte a renderci il soggiorno il migliore possibile.

La spiaggia di Avola è un po’ un cesso, ci sono cicche ovunque, il degrado spunta dai bordi, neanche l’acqua sembra granché; facciamo un bagno veloce e andiamo a visitare il paese senza passare da casa. Il paese sembra meglio, ma per capirlo dobbiamo spingerci fino al centro, sulla piazza della bella chiesa barocca. Mangiamo tre panini ottimi e ci beviamo due birre a testa da U Putiaru, e spendiamo 20 euri. Torniamo a casa sporchi di sale e soddisfatti.

Sparunu i bummi
Supra a Nunziata
‘N cielu fochi di culuri
‘N terra aria bruciata
E tutti appressu o santu
‘Nda vanedda
Sicilia bedda mia
Sicilia bedda

Venerdì
Il volo per Palermo arriva a Genova in ritardo, perciò la nostra vacanza parte in ritardo. Mentre ci imbarchiamo ci si attacca alla schiena l’inevitabile coppia con bambina, che finisce seduta inevitabilmente accanto a noi. La bambina è la solita: capricciosa, stridula, settata su un volume da concerto rock, ma la novità è data dal fatto che la madre riesce a essere più rumorosa della figlia, attaccando bottone con chiunque le capiti vicino e raccontando ogni tipo di aneddoto sulla sua vita e quella di ogni familiare le venga in mente. Non sta zitta per tutto il volo, coperta solo occasionalmente dagli strilli della figlia o dai messaggi del personale di bordo. Vorrei annullarmi con la musica, ma la batteria del telefono ormai mi dura solo poche ore e non posso permettermi di scialare, o rischio di non arrivare più all’airbnb che abbiamo affittato.

Provo il WiFi di bordo per accedere al ricco menù che però di ricco non ha proprio niente e neanche funziona. C’è una selezione di musica di una cinquantina di pezzi, raccolti in venti playlist dai titoli accattivanti, ma che in pratica contengono sempre le stesse canzoni, solo raggruppate in ordini differenti. Il palinsesto di Radio Capital, ma con titoli sconosciuti.
Poi ci sono i film, con un paio di cose che sarebbero anche interessanti, ma tanto il WiFi si stacca da solo dopo pochi secondi, neanche partono. Passo un quarto d’ora a entrare e uscire dal menu principale, poi mi arrendo.

Mi metto a leggere, che è meglio, ma devo leggere sul telefono, quindi anche quello riesco a farlo solo per un periodo molto breve. Per fortuna il volo finisce subito.

Mentre scendiamo su Palermo decido che vale la pena rischiare di morire e spengo la modalità aereo. Dai su, è ora di finirla con questa cazzata della modalità aereo, non serve a niente, non previene niente, gli aerei moderni possiedono strumenti molto sicuro, le cabine sono schermate, neanche se tutti i passeggeri accendessero tutti i loro telefoni contemporaneamente riuscirebbero a disturbare la strumentazione di bordo. Lo ha detto anche Il Post, perciò mi fido.

Non c’è campo, comunque. Riaccendo la modalità aereo e l’aereo comincia a scuotersi in mezzo a una nebbia da non vedere a un metro. Sono stato io?
Se adesso ci piantiamo dentro la roccia di Punta Raisi mi incazzo. Fra l’altro non mi ricordo mai di scaricare della musica nuova, e ogni volta che affronto la morte ho Vasco Brondi nelle orecchie.

Sopravviviamo all’atterraggio e l’aereo si ferma senza problemi davanti al terminal.
Bonus: nessuno applaude. Si vede che è passata la moda, ma preferisco raccontarmi che siano diventati più intelligenti. Poi mi ricordo che a Genova siamo stati imbarcati per file che venivano chiamate una alla volta, ma questo non ha impedito agli zombi da aeroporto di ammucchiarsi davanti all’ingresso del gate fin da un’ora prima, “così quando ci chiamano siamo già lì pronti”.

L’aeroporto di Palermo è piccolo e poco interessante, come tutti gli aeroporti del mondo. Quello che distingue gli aeroporti non è la quantità di attrazioni che contiene, ma le sue dimensioni. Quindi ci sono aspetti piccoli e poco interessanti, aeroporti grandi e poco interessanti, e aeroporti giganteschi per niente interessanti, perché anche le cose che potrebbero risultare interessanti, cioè i negozi e i ristoranti, in un’area molto grande si moltiplicano fino a riempirla, ma senza variare nella sostanza, quindi finisci per girare per un’area enorme tutta uguale.

Arriviamo a Palermo in treno in poco più di tre quarti d’ora, così suddivisi: trenta minuti dalla stazione di Punta Raisi a quella di Palazzo Reale, dove abbiamo la casa, e altri venti per attraversare la strada. A Palermo nessuno ti fa sconti, è un continuo fiume di macchine, c’è un casino feroce. Non si fermano sulle strisce, non provano neanche a rallentare. Lo sanno che dovrebbero, ma ti osservano mentre ti corrono sui piedi per vedere cosa fai, e se fai quello che farebbe chiunque con un minimo di istinto di conservazione, aspettare, accelerano e se ne vanno soddisfatti di avere vinto ancora una volta l’eterna sfida palermitana col pedone.
Alla fine capiamo la tecnica: devi buttarti senza mostrare paura, gli automobilisti palermitani si fanno intimidire facilmente da un atteggiamento sfrontato, e si fermano.

Via dei Cappuccini è stretta e senza marciapiedi, e la sera sembra un po’ una strada di Kabul, ma è così tutto il centro di Palermo, ci si fa presto l’abitudine. C’è una grossa discarica sotto casa, piena di vecchi televisori, sacchi della spazzatura, materassi sfondati, calcinacci, pezzi di sedie, e accanto tre bidoni che vengono svuotati regolarmente.

Non so bene come funziona la gestione dei rifiuti a Palermo, non mi sembra lineare. Per capirci meglio farò l’esempio del gatto.
Quando passiamo la prima volta, venerdì sera, un gatto è stato appena investito, e il suo cadavere giace accanto al marciapiede. Quando ripassiamo, un paio d’ore più tardi, qualcuno lo ha colpito ancora, e la sua carcassa occupa uno spazio ancora maggiore.
La mattina seguente, sabato, le suore del convento di fronte gli hanno messo un sacco della spazzatura davanti, così che gli automobilisti evitino di schiacciarlo ancora, ma quando torniamo nel tardo pomeriggio il gatto è ancora lì, il caldo cittadino lo ha gonfiato e la puzza ti aggredisce la gola fin da lontano. Il sacco nel frattempo è sparito. Il gatto, o ciò che ne rimane, verrà rimosso il lunedì mattina, e la strada ripulita con la candeggina.

Ma torniamo al viaggio. La casa di via dei Cappuccini è carina, ma è molto calda perché è stata ricavata nel sottotetto. Capita spesso con Airbnb di finire alloggiati in miniappartamenti ricavati dall’ultimo angolo possibile di un vecchio edificio: a Parigi mi capitò di dormire per cinque notti in uno sgabuzzino superaccessoriato con tanto di cucina a gas e forno a microonde. Era una merda. superaccessoriata, ma sempre una merda.
Questo di Palermo sembra un appartamento vero, e col deumidificatore acceso tutto il giorno si sta abbastanza bene.

Posiamo i bagagli e per prima cosa andiamo a mangiare il pani câ meusa da Nino u ballerino, definito un’istituzione dalle guide cittadine.

È un chiosco abbastanza nuovo, dove lavorano persone pochissimo ballerine, e tutto quello che gli chiedi è finito, compresa la ricotta e le arancine. Ai tavoli intorno siedono solo turisti che come noi si sono fatti fregare dalle guide cittadine. Da evitare, a saperlo prima. Molto meglio la focacceria Testagrossa, poco più avanti, dove più tardi proviamo il mangia e bevi (della pancetta arrotolata in un cipollotto e condita col limone) e ci regalano due panelle perché vanno provate. Non lo sappiamo ancora, ma diventerà la nostra seconda casa.



Sabato
Facciamo colazione vicino a casa, alla pasticceria Cappello, un locale storico che è solo storico, dato che cappuccio e brioche sono uguali a quelli di qualunque pasticceria italiana, ma va detto che non ho provato le paste, magari sono quelle a fare la differenza.

Poi iniziamo il giro. Prima andiamo al mercato di Ballarò, colorato, rumoroso, vivo. I banchi di pesce fresco sono dappertutto, e dappertutto c’è gente che compra. Un pescivendolo svuota i ricci di mare e versa la polpa in bicchieri di plastica: se non avessi ancora il sapore del caffè in bocca gli chiederei se sono in vendita, hanno l’aria di essere deliziosi. C’è un tizio che vende le sigarette di contrabbando in mezzo a un incrocio. Farei un sacco di foto se fossi uno a proprio agio a fotografare le persone. Le fa Shasha al posto mio, e devo dire che nessuno la picchia, ma è anche vero che il contrabbandiere di sigarette non lo fotografiamo.

Dal mercato raggiungiamo i Quattro Canti, l’incrocio fra le due strade che dividono il centro cittadino in quattro quartieri. Adesso che è diventato area pedonale te lo godi, mica come prima che c’erano le macchine e sembrava di stare in una galleria con tutto lo smog e il casino. Ci sono carrozzine coi cavalli in attesa di clienti e c’è qualche banchetto, ma nell’insieme non è diventato un trappolone da turisti come mi sarei aspettato. Lì accanto la fontana Pretoria non fa la figura che meriterebbe, è una fontana vabbè. Tutte le fontane se ci levi l’acqua sono vabbè, anche quelle di Roma: tu immagina Anita Ekberg che ciabatta nella fontana di Trevi asciutta. Vabbè.
Arriviamo alla Chiesa di San Cataldo che sembra già mezzogiorno, prendiamo una birra e un mojito e ci rilassiamo. Scopriremo poi che erano le dieci di mattina, quindi abbiamo ufficialmente infranto l’ultimo tabù prima dell’alcolismo.

A noi piacciono i mercati, dovunque andiamo ci perdiamo a girare per banchi di pesce e frutta, ci facciamo convincere ad assaggiare qualcosa, ci portiamo a casa cibi che poi regolarmente non abbiamo voglia di cucinare. Dopo la pausa, quindi, raggiungiamo l’altro mercato famoso di Palermo, quello della Vucciria, che però è chiuso, oppure siamo noi che non lo troviamo, oppure sono quei due tre banchetti che salgono su per il vicolo e puzzano di turista e anche se a uno dei tavolini è seduto Bunna degli Africa Unite, fanno abbastanza schifo al cazzo, andiamo via. Io poi manco li ascoltavo, gli Africa Unite.

Delusi da quella che dovrebbe essere una delle anime di Palermo, cerchiamo il riscatto e raggiungiamo il terzo mercato cittadino, il mercato del Capo, e stavolta è davvero ora di pranzo, così ci sediamo al tavolo di una pescheria che si chiama Fish m Chips, prendiamo un couscous di pesce, un’insalata di polpo, sei sarde a beccafico e quattro arrosticini di calamaro. Più due birre, 36 euro senza scontrino. Per il posto in cui siamo è caro, ma a Genova ci avremmo lasciato lo stipendio.

Torniamo verso casa, ci fermiamo alla cattedrale e visitiamo il palazzo Reale, poi rientriamo stanchi come se fossero le sei. È l’una.
Dormiamo un po’, poi usciamo di nuovo.
L’idea sarebbe di andare a cena, ma passiamo davanti a Testagrossa e quasi quasi ci prendiamo una cosa, tipo un altro panino con la milza, per fare merenda.
A quel punto la cena è diventata un di più, e gironzoliamo annusando la città. Le strade si sono riempite di gente che prende l’aperitivo o sciama alla ricerca di quello buono. Ai Quattro Canti adesso ci sono degli sposi che si fanno le foto, degli artisti di strada che suonano Romagna mia (ma perché?), altri che improvvisano un rock parecchio Zeppelin, solo chitarra e tastiera. Nelle piazze della Kalsa ci si prepara per il jazz festival, il teatro è ricoperto di strisce argentate che lo fanno somigliare al gonnellino delle ballerine hawaiane nei vecchi cartoni animati di Hanna & Barbera.
Troviamo un bar accanto al teatro, che si chiama Cantavespri, e ci facciamo il nostro aperitivo. Il piatto di assaggi che a Genova ti regalano, qui costa 8 euro, presentato come una gran prelibatezza. E poi siamo noi quelli attaccati al denaro.
Tutto intorno si stanno allestendo palchetti, si montano casse e microfoni. Sarebbe da aspettare l’inizio dei concerti, dev’essere una città divertente dopo il tramonto, ma sono solo le otto e ne abbiamo già le palle piene.

Come sempre la mia vita è un’altalena continua fra la più depressa routine e un’attività tanto frenetica da sfiorare il disturbo psichico. Trascorro settimane senza scrivere una riga, perché non c’è una sola riga da riempire col racconto delle mie giornate, e di colpo ne devo dire tante che non so da dove cominciare.

Parlo di quel calcio che col calcio ha sempre meno a che vedere? Ne avrei da raccontare, dai tre punti che ci hanno finalmente tolto, alla vittoria straordinaria col Monza, all’altrettanto straordinaria sconfitta con la Sambenedettese che ci porta diretti a giocarci la promozione nei play off. Potrei infierire sulla dignità di certi giocatori, che qui non si parla di condizione fisica o di qualità tecniche, ma solo della dignità richiesta per indossare una maglia così importante, e di come sia triste, per non dire meschino, centellinare il proprio impegno in campo a seconda dei casi. Ma non vado oltre, che davvero non ne vale la pena. Spero di vederli tutti indagati, prima o poi.

O racconto delle vacanze di Pasqua, dei pranzi sui monti, delle abbuffate con gli amici, delle foto propagandistiche dell’Ejercito Cadigattista, della mia personale Marcia Su Roma?

Facciamo così, vi racconto una storia che parla di treni. Comincia un venerdì pomeriggio, dalla stazione di Genova Brignole, quando due ragazzi con una borsa trovano il loro posto in uno scompartimento dell’intercity Torino-Salerno. Inutile descrivere i due ragazzi, siamo naturalmente il Subcomandante Marzia ed io, ma posso parlare degli altri personaggi che popolano lo scompartimento: tre di essi sono avvocati, lo deduco dai loro discorsi. Stanno andando all’Isola D’Elba per una vacanza, ma non riescono a sganciarsi del tutto dalla propria occupazione, e fino a Livorno li sentiamo parlare di giurie, procedure, cavilli che alzano polvere solo a parlarne. Poi c’è una signora silenziosa, di cui non si può dire nulla, tanto è stata accurata nel non lasciare ricordi di sé. Sta seduta nel suo angolo, con un giornale anonimo davanti, non guarda nessuno, non parla a nessuno, aspetta la sua fermata con muta rassegnazione.

(Muta rassegnazione è un termine un po’ abusato, lo so, ma non sono uno scrittore, mi limito a pigiare sui tasti, e la differenza si vede. La prossima volta scriverò gelido inverno, e potrete insultarmi)

Lo scompartimento è freddo, o così sembra a noi, che siamo seduti davanti alle bocchette dell’aria condizionata, e indossiamo il minimo indispensabile per non essere denunciati per oltraggio al pudore. Come già raccontato la scorsa estate esiste una bizzarra regolamentazione riguardo all’aria condizionata sugli intercity, che ci obbliga a congelare. Potrei chedere delucidazione ai tre legulei, ma non si curano né di noi né della temperatura, sono tutti presi da “La Settimana Giuristica”, il giornale di giochi ed enigmi per laureati in giurisprudenza che uno di essi ha estratto dalla valigia. Stanno discutendo sul 13 orizzontale, “Lo dice chi rifiuta di rispondere all’interrogatorio”. La signora all’angolo non parla, non respira, forse è impagliata, forse già in avanzato stato di ibernazione, chissà.

Quando siamo dalle parti della Zona Tumultuosa, un luogo non meglio identificato fra Livorno e il Burkina Faso, decido che il supplemento intercity non è abbastanza economico per farmi accettare una bronchite senza lottare, e vado a spegnere l’aria condizionata.

Le mie straordinarie doti narrative avranno a questo punto acceso un grosso punto interrogativo nella testa di ognuno di voi cari lettori, e sono certo che vi starete domandando come fa un riconosciuto incapace come me a saper disattivare l’aria condizionata su un intercity, azione che richiede straordinaria abilità scassinatoria per aprire la serratura a brugola del pannello degli interruttori, eccezionale capacità mimetica per non farsi beccare dal controllore, elevata concentrazione per non scambiare il simbolo del refrigeratore con quello dell’autodistruzione. Io non so neanche vincere a bimbumbà perché mi do regolarmente dei pugni in faccia, non riesco a coordinarmi neanche per mettermi le dita nel naso, e cosa ne posso sapere di disattivare l’aria condizionata di un intercity, materia d’esame delle spie GLG-20, quelle impiegate per recuperare le testate nucleari sulla strada per Duschambe.

Ricordate quello che vi avevo raccontato lo scorso agosto, delle mie vacanze in Sicilia? Se siete di quelli che capitano qui cercando Brigata Speloncia, sicuramente no, ma gli altri forse rammentano delle mie disavventure con l’aria condizionata sui treni. Ebbene, nel viaggio di ritorno si presentò lo stesso problema, e già stavamo accendendo un falò nello scompartimento, quando un intraprendente professore palermitano, uno che sembrava più un rapinatore di diligenze che un insegnante di storia dell’arte, mi introdusse ai segreti del chiavistello.

(“Mi introdusse ai segreti del chiavistello” starebbe benissimo in un racconto erotico, se qualcuno volesse scriverne uno sarò lieto di cedergli il copyright)

Mi raccontò della scuola della strada che ebbe a imparare nel suo quartiere malfamato, di quando un giorno si e uno anche gli entravano i ladri in casa, e dopo aver rubato tutto il rubabile presero a sfotterlo cambiandogli la serratura mentre era fuori. Venni a sapere delle difficoltà a farsi allacciare abusivamente acqua, gas, elettricità e tv via cavo, tanto che fu costretto a farlo da sé, e di come tutte queste esperienze l’avessero reso un Arsenio Lupin de noatri.
Ascoltavo il mio mentore e assorbivo tutte quelle nozioni che sapevo un giorno mi sarebbero tornate utili. Lo accompagnai al pannello elettrico e studiai minuziosamente i rapidi movimenti con cui vinse la resistenza della diabolica brugola, imparai la sottile differenza fra il simbolo dell’aria condizionata e quello della dispersione di sostanze tossiche all’interno del vagone, compresi i movimenti ciclici dei controllori di tutta la rete trenitalia, sempre gli stessi, e di come sia possibile rivolgerli a proprio vantaggio per tutta una serie di portogheserie.

Ecco perché venerdì pomeriggio non sono schiattato di freddo, e ho potuto raggiungere la stazione di Roma Termini in tenuta estiva e non vestito come un inuit, acclamato dai miei compagni di viaggio come si conviene a un salvatore, braccato dalle forze dell’ordine su rotaia come il più accanito dei rivoluzionari, osservato con sospetto dall’ambigua categoria dei cuccettisti, che non si sa bene da che parte stiano.

Nel viaggio di ritorno non c’è stato bisogno di ricorrere all’antica arte della manomissione, i nostri posti erano verso il corridoio, non risentivamo del nefasto effetto del condizionatore.
In compenso siamo stati torturati per cinque ore da un altoparlante da concerto rock, che ci ricordava a ogni fermata che stavamo arrivando a destinazione con cinque minuti di ritardo, che la coincidenza con Trondidio arriverà e partirà dal binario 47 anziché 2, che l’intercity per Milano sta messo peggio di noi perché è dietro e non lo facciamo passare così impara haha.
Purtroppo il mio insegnante di illecitudini mi spiegò solo come disattivare l’aria condizionata, per preservarmi i timpani non ho potuto fare altro che infilarmi un giornale arrotolato nelle orecchie.