È che certe volte ti fanno dei regali delle persone che davvero non te l’aspetti e rimani così, con la voglia di ricambiare, l’imbarazzo per non averci pensato prima, la gioia del gesto e l’insieme di queste emozioni è una faccia che somiglia un po a quella di Coco.

faccia da Coco (©Robert Doisneau, che la sua mostra a Palazzo Ducale è splendida e adesso voglio le sue stampe in salotto, ma non questa che è inquietante)

Quest’anno la faccia di Coco mi è già uscita tre volte in pochi giorni, l’ultima ieri dal panettiere, quando la commessa mi ha detto “Pablo aspetta”, che di solito al massimo mi chiama ciao, e mi ha allungato un torrone. E non me l’aspettavo, cosa devo dire, ho borbottato uh grazie e mi sono imbarazzato un po’, che la panettiera sono cliente da anni, ci sta che ad un certo punto mi regali un torrone, ma finché non succede non ci pensi, un po’ come i terremoti, che ti dicono che casa tua sorge su una faglia tettonica e tu dici si vabbè, non c’è mai stata una scossa, cacchio dici, poi torni dal lavoro e al posto di casa tua c’è un grosso mucchio di calcinacci e allora forse qualcosa di vero doveva esserci. Un torrone è meglio dei calcinacci, va detto.

Enorme faccia da Coco qualche sera fa, quando una ragazza che per questioni di privacy chiamerò Maria Antonietta Guerzoni mi ha allungato un pacchetto col suo bel bigliettino argentato e mi ha detto auguri. Perché mi aveva detto che voleva portarmi una cosa di cui avevamo parlato tempo prima, ma non mi aspettavo il gesto istituzionale col pacchetto e la carta e il fiocco e il bigliettino, e mi sono sentito il re delle merdone perché io invece niente, ma se posso dire qualcosa per difendermi vorrei mettere agli atti che con Maria Antonietta Guerzoni c’è da anni questa cosa che se le mando un messaggio non ricevo risposta e se le dico una cosa carina corre a chiamare i carabinieri, perciò mi ero abituato ad avere questo rapporto di ciucche nei vicoli e rapine alle banche, e i gesti teneri da parte sua non erano previsti, scusa. Però mi ha fatto un piacere enorme, come se per tutta la vita fossi convinto che c’è un orco che ti vive nell’armadio ma quando lo apri niente, solo i tuoi vestiti buttati dentro a muzzo, finché un giorno lo apri e c’è un orco che sta indossando la tua maglietta di Los Pollos Hermanos, e in quel momento prima che ti divori pensi che è bello avere avuto ragione su una cosa una volta tanto, e muori felice. Cercherò di sdebitarmi prima che posso, anche se non so come, che sono sicuro che i fiori li condisce e se li mangia con noci e scaglie di parmigiano, e se le dico qualcosa di carino mi ritrovo davanti al maresciallo che mi dice “Renzi, n’altra volta? Documenti”. Boh, improvviserò.

L’ultimo, che poi sarebbe il primo, è quello che vince il premio Faccia Da Coco 2013, e ha per protagonista un signore distinto che per motivi di privacy non chiamerò Andrea, ma Eriberto Sbazzeguti fu Pepito.

Eriberto Sbazzeguti fu Pepito ci conosciamo da molti anni, abbiamo un sacco di interessi in comune e abbiamo sempre passato bellissime serate isolati dal resto della compagnia a ciarlare di fumetti, mentre sua moglie cercava di sentirsi meno esclusa attaccandosi a una bottiglia, ma poi ci siamo allontanati a causa di divergenze di poco conto che possono capitare fra due uomini sanguigni ed orgogliosi come noi: a me piaceva di più Wolverine col costume giallo e nero, a lui quello marrone. Ci siamo accapigliati, sono volate le parole scritte maiuscole, e da lì i nostri rapporti non sono più tornati quelli sereni di una volta.

Venerdì scorso mi scrive e mi dice che sta per cominciare la prevendita del concerto dei Pearl Jam, se mi interessa un biglietto se ne occupa lui, che poi è un casino trovarli. Ecco, a me questa cosa ha fatto un piacere enorme, perché non mi sarebbe mai venuta in mente, che sono un egoista di merda e  neanche me lo ricordavo che anche lui volesse andare a vedere Eddie Vedder. E poi è proprio questo gesto di condivisione con qualcuno che non è nella tua immediata quotidianità, non ci sono abituato, mi commuove. Di solito gli strati sociali che mi circondano seguono l’ordine io/gli animali con cui vivo/gli amici più stretti/il resto del mondo, oppure io/la mia fidanzata/gli animali/gli altri quando si verificano quelle situazioni impossibili in cui vabbè, ma non stavo parlando di quello.

Dicevo che il biglietto non me l’ha regalato, mi ha regalato l’attenzione a qualcosa che sapeva interessarmi, che è una cosa bellissima, e se poi ci metti che i biglietti sono andati esauriti in meno di dieci minuti e io al concerto neanche sapevo con chi andarci, è stato un gesto di particolare importanza, e adesso non vedo l’ora di passare le ore fuori dai cancelli a ciarlare di quanto sia figo il nuovo Hawkeye e se è uscito o no il nuovo film degli X-Men che, vorrei ricordare, sarà bellissimo. Dico, ci recita pure Tyrion Lannister, devo aggiungere altro? No, e infatti vado a cena, casomai aggiungo qualcosa dopo.
Ci si vede.

Io lavoro in un posto che mi permette di essere a casa per l’ora di pranzo, cosa che mi permette di essere a casa quando la postina viene a portarmi la corrispondenza. Funziona così, lei arriva, scende dalla macchina, il mio cane la sente e si precipita in giardino, salta sul muretto e comincia ad abbaiare come un leghista davanti al progetto di una moschea, io esco per farlo tacere e la postina mi consegna quel che deve e mi sfancula. Lo fa con una cadenza preoccupante, tanto da farmi credere che le dia fastidio essere accolta dai latrati. Ho pensato di tenere il cane rinchiuso, ma poi mi sono reso conto che probabilmente mi sfancula perché è mia sorella ed è abituata così, e sul muretto mi ci sono messo io e adesso appena si presenta ci siamo in due ad accoglierla, Jack che abbaia e io che le tiro le pietre.

Qualche giorno fa mi ha portato una lettera diversa dalle solite, non cominciava né con Gentile Cliente né con Comando Dei Carabinieri Di, e mi sono incuriosito tanto da aprirla subito.

“Cazzo fai, mi porti le lettere degli altri?”, ho chiesto a mia sorella.
“Perché? C’è il tuo indirizzo sulla busta! A chi dovevo portarla?”, mi ha risposto.
“E io che ne so! Qui dice La Esse Vu è invitata.. Io mica sono Esse Vu!”
“Deficiente! Esse Vu vuol dire Signoria Vostra!”
“Ah. Credevo Simona Vetuschi.”
“Mavaffanculo.”

Ho letto il resto della lettera, diceva che la essevù di cui sopra era invitata al Gran Ballo Delle Debuttanti che si sarebbe tenuto a Genova presso il Palazzo Ducale di lì a qualche giorno.

Il Ballo Delle Debuttanti! Non ci potevo credere! Non ero mai stato invitato a un evento così importante! Sognavo di parteciparvi da quando avevo sedici anni, e mai, dico mai una volta che mi fosse arrivato l’invito!
Una volta alle superiori una mia compagna era stata scelta dalla Gilda Delle Debuttanti, l’organismo che si occupa di monitorare tutte le diciottenni della città per decidere chi sarà all’altezza di accedere al Gran Ballo, e in poco tempo tutta la scuola ne era venuta al corrente, stazionavano frotte di ragazzine fuori dall’aula solo per guardarla, le sentivi sospirare, anche se il rumore che copriva tutti gli altri era quello di denti digrignati.

Come dar loro torto? La fortunata sarebbe stata accolta dalla crema della città, avrebbe trascorso la serata conversando amabilmente con industriali, banchieri, avvocati, medici, e quell’anno si mormorava della presenza di un vero dittatore sudamericano!

E finalmente toccava a me, avrei assaporato il vero lusso, quello che si vede in televisione, mi sarei confrontato con qualcuno che sentivo al mio stesso livello per educazione e cultura, e alla fine avrei ballato con un vero cadetto della Marina..

Ho emesso un bestemmione da oscurare il cielo, e mi sono rivolto alla mia ragazza in cerca di aiuto: “Marzia, porcatroia, io non so ballare! Insegnami qualche passo!”
“Ma io conosco solo balli sudamericani, a Palazzo Ducale dovrai ballare dei valzer!”
“Meglio che niente, poi cercherò di adattarli alle circostanze.”

Salsa, bachata, rumba, lambada e merengue solo per cominciare. Poi i passi più difficili come il cha cha cha cha, che è una versione più impegnativa del cha cha cha, la samba quattroperquattro, che ancora adesso devo capire cosa sia, fino al pericolosissimo mambo verde, che se lo balli per dieci secondi muori.

“Non riesco a immaginarti a sculettare nel bel mezzo di una mazurca, mi sa che è meglio se rinunci.”, mi dice Marzia.
“E perdere l’occasione della vita? Mai! A costo di pestare i piedi a tutta la marina militare io parteciperò a quel ballo!”

La sera della festa ero emozionatissimo, mi sono preparato con cura, ho messo un abitino bianco con una gonna piena di svolazzi, una coroncina deliziosa fra i capelli e delle scarpette senza tacco che sembravano due confetti. Mi sono anche fatto la barba.

Marzia ha trattenuto a stento una lacrima. “Sei bellissimo”, ha detto, “Se tua madre potesse vederti!”
“E come fa? Non ha mica la vista a raggi x!”, le ho risposto ridendo. In effetti mia madre era nell’altra stanza, l’avevamo invitata a cena, ma dopo che ce l’aveva preparata l’avevamo chiusa in cucina a lavare i piatti.
“Vai ora, o farai tardi!”, mi ha sussurrato all’orecchio, spingendomi fuori.
“Non mi dai un bacio?”
Mi ha spinto più forte.

Davanti a Palazzo Ducale le diciottenni non si contavano, erano tutte assiepate sugli scalini, o vicino alla fontana, e indossavano abiti elegantissimi. Certe avevano delle scollature da caderci dentro, o delle gonne così corte che una maglietta le avrebbe coperte di più.
Io sembravo la loro nonna, con quel vestito morigerato. Gli occhi a girandola tradivano un desiderio di parentele più strette.

Mi sono presentato al militare all’ingresso, un ufficiale di marina alto come un corazziere, e gli ho mostrato il mio invito.
Se l’è rigirato fra le mani, mi ha guardato un po’, ha ricominciato a esaminare il biglietto.

“Lei è il padre?”, mi ha detto alla fine.
“Di chi?”, ho trasecolato.
“Quest’invito non va mica bene”, ha detto, e mi ha restituito la lettera.
“Perché no? Non è il Ballo Delle Debuttanti questo?”
“Si, ma non è il ballo ad essere sbagliato, è l’invito. Non vale per questa festa.”
“Ma qui c’è scritto Palazzo Ducale!”, ho insistito.

Il marinarone nel restituirmi la lettera mi ha indicato l’intestazione:
“Vede qui? Legga bene cosa c’è scritto.”

È stato a quel punto che mi sono reso conto dell’errore, non ero stato invitato al Ballo Delle Debuttanti.

E dove sarebbe questo Ballo Delle Ributtanti?”
“Nei fondi di Palazzo Ducale. Si entra per quella scala laggiù.”

L’atmosfera alla festa al piano interrato era un po’ diversa, meno sontuosa. C’era qualche festone appeso al soffitto, un tavolino per le cochecole della lidl e al posto dell’orchestra un apparecchio per il karaoke con quattro tizie davanti impegnate a peggiorare, per quanto possibile, una canzone delle Spice Girls.

Lì le ragazze in minigonna erano più numerose che di sopra, ma le loro scollature erano da paura per le ragioni sbagliate, buttarci l’occhio dentro era come sbirciare dal parapetto dell’inferno.
Mi sono fermato sulla porta, incerto se scappare subito o scroccare un alcolico per sopportare meglio la delusione, e subito è arrivata una tizia ad abbordarmi. Era bionda, ma le due dita di ricrescita raccontavano una storia diversa, e aveva superato i diciotto anni da altrettanti. Non sarebbe stata neanche brutta, se gli occhi avessero guardato in un’unica direzione. A dire il vero non c’era niente nel suo viso che seguisse una traiettoria precisa, gli occhi si incrociavano verso il naso, che però pendeva a destra, e i denti erano un monumento all’anarchia. Per completare il quadro si era pettinata con un ardito taglio a spazzola, ma il gel non doveva essere stato sufficientemente potente, e la cresta ribelle si era afflosciata come le ortensie di cui avrei dovuto occuparmi in assenza di Marzia.

Ciao, vuoi ballare?”
“Grazie, ma non ho ancora perso conoscenza.”

Si è allontanata, ma subito ne è arrivata un’altra a prendere il suo posto. Questa aveva un grosso paio di occhiali con le lenti spesse, i capelli neri unti erano appiccicati alla calotta cranica, era alta e magrissima, con un po’ di gobba. Mi osservava dall’alto in basso come una mantide, e muoveva le mani in continuazione.

“Ciao, io mi chiamo Luana”
“Io no”

Mi sono guardato intorno in cerca di una via di fuga, e ho notato che vicino all’ingresso c’era una ragazza diversa dalle altre, meno ributtante. Non che fosse uno spettacolo, in realtà aveva un aspetto piuttosto comune, ma in mezzo al catalogo Pozzi Ginori spiccava come una macchia di sugo sulla mia maglietta preferita.
L’ho raggiunta, liberandomi di Luana col vecchio trucco dell’improvvisa perdita di memoria. Stava parlando con un’altra tizia, ma il casino della sala mi ha permesso di capire cosa le stava dicendo solo alla fine:

..sporcano per terra, rubano, violentano, e noi zitti. Bisogna rimandarli a casa loro, ‘sti arabi di merda!”

Non ho neanche rallentato, ho preso la porta e le scale e mi sono fiondato in strada con lo stomaco capovolto. Posso sopportare qualunque bruttezza, tranne quella interiore.

Tornando a casa ho riflettuto sul significato di quell’esperienza, e come Tolstoj ho scritto quaranta pagine di pistolotto morale da inserire in fondo al racconto. Se fosse un romanzo ce le metterei senz’altro, che fanno volume, ma in una pubblicazione da blog rischio di perdere anche quei due tre che resistono a frequentare quest’angolo di rete, perciò lo riassumo in un paio di concetti molto semplici: il ballo delle debuttanti è una cagata, e mia sorella è una postina inaffidabile.