E insomma, ci risiamo. A sette mesi di distanza dall’altra volta sono ritornato in Cina, a casa della mia, sempre più seriamente, fidanzata.
“Quindi le cose fra voi vanno bene”, mi direte. Sì, ma le conclusioni si fanno alla fine, e qui siamo all’inizio, quando sono entrato all’aeroporto di Orio al Serio a un’ora indecente della notte e ho affrontato un’altra volta la massa di profughi in attesa dell’imbarco.

Due parole sui post che seguono: questa volta ho scritto tutto e, avendo già diviso il racconto in giorni, non finirà come al solito che inizio a scrivere e alla terza puntata mi rompo le balle perché sono già passati sei mesi e mi sono messo a fare altro.
Però devo ancora allegare le foto del viaggio, quindi magari mi rompo le balle di editare i post e smetto lo stesso, chi lo sa. 
Se tutto andrà secondo i piani dovrebbero essere 12 episodi non troppo lunghi, ma non contateci troppo.

Per il momento inizio, è Giovedì 2 agosto, siamo all’Aeroporto di Orio al Serio. No, campo profughi di Orio al Serio. Esattamente come l’altra volta, ma con persone diverse.

Sapendo già cosa mi aspetta mi impadronisco della prima sedia libera e mi accampo. Poi chiedo a una signora accanto a me di darmi un’occhiata alla valigia e vado a vedere se i cubicoli giapponesi dove ti fanno dormire, che ho scoperto troppo tardi la volta precedente, sono liberi. Leggo che costano 9€ l’ora, e sono tutti occupati.

La signora a cui ho chiesto di guardarmi la valigia è ucraina, sta tornando a casa in aereo per la prima volta e non sa come si fa. Si vede che a Bergamo ci è venuta in bici. Non parla molto, ma non mi molla fino all’imbarco; la aiuto a portare una borsa che da quanto pesa dev’essere piena di sassi, lei mi aiuta a saltare la fila prendendo a gomitate chi ci precede. In fondo è uno scambio vantaggioso.

Il lottatore ucraino con cui ho condiviso l’attesa dell’imbarco

In aereo provo a dormire col nuovo cuscino da viaggio comprato apposta dopo un’attenta valutazione delle offerte sul sito cuscinidaviaggiochenontifarannopentiredellacquisto.it, che a sorpresa fa cagare come tutti i cuscini da viaggio. Vengo comunque svegliato a un’ora dall’atterraggio da una voce metallica che dice “biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette, biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette.. biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantotto..”.

È la suoneria di qualcuno seduto davanti, che evidentemente sta dormendo coi tappi nelle orecchie e non sente. Sente tutto il resto dell’aereo, e spera che qualcuno la spenga, ma non succede, e il supplizio va avanti fino alle biribiribiribì e venticinque, quando l’omone seduto accanto a me chiama la hostess e le fa capire che se non trova subito il responsabile strappa un’ala dell’aereo a morsi e la usa per farle un’endoscopia. Glielo dice in russo, non ci sono prove che siano state queste esatte parole, ma neanche prove contro. In ogni caso funziona, la hostess individua il tizio seduto due file più avanti e lo fa scendere dal velivolo. Sì, in volo. È per questo che i biglietti della Ukrainian Airlines sono così convenienti e le recensioni su tripadvisor tutte negative.

A Kiev so già come funziona, faccio la coda per i passeggeri in transito e vado a mangiare da Ararat, il ristorante appena oltre le scale, dove l’attesa al tavolo è eterna, ma il cibo è decente. Insieme a me uno ordina un cognac e una coca cola. Qui sono le nove di mattina.

Mangio due ravioli due col bacon e la cipolla e me ne vado, sopraffatto dallo scazzo della cameriera. Anche l’altra volta la cameriera mi ha fatto venire voglia di morire, si vede che in quel ristorante le prendono così per scoraggiare quelli che tengono il tavolo occupato senza ordinare.

Visto che ho tempo decido di rischiare il ristorante “Spirito di Italiano”, che sa di posto davvero genuino. Bisogna sempre trovare nuovi modi di farsi male, ma la ciabatta Enzo E Lorenzo è pesante abbastanza da narcotizzarmi per qualche ora e farmi passare meglio il viaggio fino in Cina.

Se dovessi perdere il lavoro ho già trovato un’alternativa all’estero all’altezza delle mie capacità

Venerdì 3 agosto

Pechino. Al terminal 2 pubblicizzano un nuovo washlet, che per quelli pratici dell’igiene intima sarebbe il gabinetto con bidè incorporato. Oltre quello mi aspetta l’interminabile coda alla dogana, che però stavolta non c’è. Dal mio viaggio precedente è stata tutta sostituita con un sistema elettronico di lettura delle impronte digitali, consegna di un bigliettino che ti manda a uno sportello dove un poliziotto ti guarda il passaporto, ti fa lo scanner facciale, ti ripiglia le impronte, casomai avessi cambiato identità in bagno, ti sorride e ti manda via. Cinque minuti in tutto.

Shasha mi aspetta fuori, con un sorriso che mi farebbe passare la fatica anche se fossi arrivato in Cina a piedi. Andiamo a prendere la macchina e torniamo a casa, è l’una passata.

Appena apro la portiera vengo assalito da una folla di parrucchieri che mi circondano puntandomi addosso i loro phon, o almeno questa è l’impressione che ricavo dalla calura pazzesca che copre la città. Il pensiero “come farò a sopravvivere?” mi occupa tutta la testa, e neanche mi rendo conto che nel viaggio mi sono caduti dalle tasche sia il telefono che il portafoglio con dentro un sacco di quattrini. Me ne accorgo solo più tardi, in casa, e naturalmente vado nel panico: tutti i documenti, cinquecento euri in contanti, la carta di credito, il bancomat stanno viaggiando nella notte pechinese sul sedile posteriore di uno sconosciuto. Se fossimo in Italia potrei già immaginarlo completamente ubriaco mentre cerca di comprarsi una mercedes con la mia carta di credito, ma in Cina gli autisti di Didi (滴滴) sono più onesti dei tassisti, e questo, una volta richiamato, ci garantisce che tornerà a riconsegnare la mia roba, basta che gli paghiamo la corsa. Dobbiamo stare svegli un’altra ora e mezza prima di risolvere questa cazzata, e a  quel punto finalmente possiamo andare a dormire. Sono quasi le quattro.

Shasha si alza tipo dieci minuti più tardi e va al lavoro, io mi sveglio a mezzogiorno sereno e riposato come uno al primo giorno di ferie, mi vesto con la calma di chi ha davanti tutto il giorno e faccio amicizia col suo nuovo inquilino: Eyup se n’è andato, adesso la stanza è in affitto su Airbnb, e quando arrivo c’è uno spilungone francese di nome Adrian. Ha i baffi, non ama la cucina cinese e mangia un sacco di marmellata. Dice che resterà per una decina di giorni.

Ciao, sono a Pechino e sono vivo nonostante abbia viaggiato con Ukrainian Airlines!

Superate le cordialità di rito esco per andare all’hotel di Shasha, col passo tranquillo di chi conosce bene la strada e sta attento a non fare il minimo sforzo per non ritrovarsi fradicio di sudore al terzo passo: l’umidità è al 91% da queste parti.

Vado a fare colazione da Starbucks, più per il wifi gratuito che per una reale passione per i prodotti offerti, e comunque il cappuccino non è male, solo che te lo servono nel bicchiere e lo devi bere dal foro del coperchio. Pagano tutti col telefono tramite una delle varie applicazioni disponibili collegate al proprio conto corrente, da Alipay, che è nata proprio per questo, a WeChat, che è come se io pagassi con WhatsApp. Nessuna di queste opzioni si può collegare a un conto corrente estero, quindi per me solo la vecchia tradizione dei contanti e delle carte. Sarà per questo che la commessa mi rivolge il suo sguardo più ostile mentre mi dà il resto?

Quando la mia fidanzata mi raggiunge andiamo a mettere una spunta sul primo dei miei buoni propositi cinesi: comprarmi un telefono.

Prima di partire mi sono informato sui modelli e le differenze di prezzo fra qui e là, e mi sono presentato in un negozio superfigo tipo Apple Store ma cinese con un’idea ben chiara, poi Shasha e il negoziante si sono parlati in quella lingua che ignoro, e lei mi ha tradotto “è appena uscito questo modello qui, perché non te lo prendi? È migliore di quello che volevi tu, e costa svariati soldi”. Provo a confrontare il prezzo con quello del mercato italiano, e scopro che in Italia quel telefono lì neanche lo vendono, però sembra un buon modello, e andrei a spendere più o meno lo stesso di quel che avevo in mente. Va bene dai, fammi pagare.

Solo che il negozio tirato a lucido del centro commerciale non è abilitato ai pagamenti con carta di credito, e il commesso ci chiede di seguirlo fuori, nel sottoscala di un altro edificio molto meno figo, pieno di persone sudate in attesa di sottoscrivere contratti e piccoli banchetti dove sudati rivenditori delle diverse marche di telefonia cinese espongono i loro prodotti in modo parecchio meno fashion. Qui una signora vestita male seduta in mezzo a scatole vuote passa la mia carta di credito su un pos del secolo scorso, mi restituisce uno scontrino lungo mezzo metro e siamo liberi di andarcene. Da notare che in tutta questa operazione il telefono nuovo è sempre stato nel suo sacchetto, che tenevo io. Se fossimo scappati fra la folla non ci avrebbero beccati mai più.

Boh però mi avrebbero rintracciato tramite il telefono, eh, giusto.

Restiamo in zona Oriental Mall per la cena, in uno dei mille ristoranti al piano interrato. Questa volta hot pot, si comincia subito benissimo.

Quelle striscioline appese a sinistra sono budella di anatra, e sono buonissime

Dovevo venire in Cina per scoprire che besugo è la traduzione genovese di un pesce che in inglese si chiama besugo

Aeroporto di Orio Al Serio.

No, campo profughi di Orio Al Serio. Nella bolgia di persone in attesa del volo delle quattro per Kiev si trovano tutti gli espatriati dell’ex Unione Sovietica, famiglie scappate dal disastro di Chernobyl o dal disfacimento del sogno comunista, ex ragazzini in cerca di un futuro migliore, coppie mezze italiane e mezze ucraine, una massa di persone che ha deciso di tornare in patria per le feste di Natale, da quest’anno ufficializzato tra le feste nazionali anche lì. Insieme a loro parecchi turisti che vogliono sfruttare il cambio favorevole per andare a fare scorta di vodka e rimorchiare le belle ragazze dell’est. E io, che a Kiev mi fermerò solo un paio d’ore prima di imbarcarmi di nuovo, con destinazione l’altra metà del mondo: Pechino. Non sono il solo, a pochi metri dal quadrato di pavimento su cui mi sono accampato in mancanza di una sedia posso vedere due ragazze cinesi che probabilmente ritroverò all’imbarco successivo.

Robert De Niro is not amused

Ho più di un’ora prima che aprano i cancelli, e l’unico bar aperto è gestito da una signora annoiata e poco comunicativa. Non che i prodotti al banco ispirino un qualsivoglia dialogo al di là di “scusi, ma questo panino è vero?”.
Ci sono quattro tavolini al bar dell’aeroporto. Tre sono occupati da un nutrito gruppo di ultraquarantenni assonnati che mugugnano in una lingua dell’Est. La più anziana è una signora che tiene la testa infilata in un colbacco di pelliccia nera alto un palmo. Dev’essere la nonna di Davy Crockett o il nuovo proprietario di qualche squadra di calcio di serie B.

Due uomini fanno avanti e indietro lungo il corridoio strapieno, scavalcando gambe e bagagli. Anche loro indossano un copricapo simile, ma la borsa di pelle frangiata che portano a tracolla, e il grosso pugnale appeso alla cintura, li identificano come appartenenti a una diversa categoria: sono due trappers.
Gli acquitrini intorno alla pista di decollo sono ricchi di castori, e molti cacciatori si spingono fin qui per piazzare le loro trappole. Quando gli dice bene catturano vecchie ucraine proprietarie di squadre di calcio e si arricchiscono vendendone la pelliccia, oppure finiscono sposati a una hostess portoghese coi baffi.

Fuori, nel piazzale, è un viavai incessante di pulmini guidati da africani. Sono gli autisti che fanno il turno di notte ai parcheggi intorno all’aeroporto. Tutti i capannoni da queste parti sono adibiti a posteggio sorvegliato, per una cifra ragionevole hai qualcuno che si prende cura della tua macchina mentre sei a farti i selfie dall’altra parte del mondo, ti porta all’ingresso dell’aeroporto e ti viene a prendere quando torni. E se vuoi te la lava anche.

È il posto ideale dove cercare rifugio in caso di apocalisse zombi: densità di popolazione prossima allo zero tranne all’interno dell’aeroporto, che comunque è cintato, perciò i morti non possono uscire, e una scelta sconfinata di automobili con cui fuggire, tutte posteggiate bene, col pieno e la chiave appesa in guardiola.
Certo, se decidi di scappare non ti conviene recarti al terminal, l’autista che mi ci ha accompagnato mi ha detto che sono stato fortunato a trovare così poco traffico, durante tutto il giorno la corsia d’ingresso è rimasta intasata da chi portava i passeggeri alla partenza, chi li andava a riprendere e chi si fermava a salutarli. Dal parcheggio ci vogliono dieci minuti, ma potevi perderci anche un’ora, bloccato in coda. Me lo tengo a mente per la prossima volta, quando dovrò decidere a che ora mettermi in viaggio.

C’è un grosso centro commerciale di fronte all’aeroporto, comprende diversi negozi, ristoranti, c’è anche un cinema multisala. A partire prima uno potrebbe spendere il suo tempo lì dentro, penso, ma poi mi ricordo che di solito quando vai all’aeroporto ti trascini dietro delle valigie troppo grosse per poterle portare in un cinema, e mi passa la voglia.
Vedi? Un altro punto a favore dell’apocalisse zombi: in quei casi viaggi leggero, ma se anche ti portassi le valigie in sala non si lamenterebbe nessuno.

Smetto di pensare alle cose belle e torno ad affrontare la triste realtà in cui mi trovo: sono nell’atrio dell’aeroporto di Orio, seduto sul pavimento sotto il busto in bronzo di un signore coi baffoni a cui immagino l’intera struttura sia stata dedicata. C’è un gran mucchio di gente ovunque, sento due cani abbaiare e un bambino piangere. Penso che saprei trovare una soluzione a entrambi i problemi, e che ho sonno, odio le persone e voglio andarmene. E non lo so se il busto alle mie spalle è davvero di bronzo, se ha i baffoni, se è il fondatore dell’aeroporto o il sindaco di questo paese, se esiste poi un paese che si chiama Orio Al Serio o se ne sono andati tutti, infastiditi dal rumore degli aerei e dall’avanzare dei capannoni. Se ne saranno andati in aereo? E da dove saranno partiti?

Natali che avercene, al parcheggio

È in questo momento di vuoto mentale che scopro il wi-fi gratuito dell’aeroporto, e la mia percezione del tempo cambia di colpo. Perché ho Netflix sul tablet, e con la lista di roba che ho da vedere potrei fare il giro del mondo tre volte senza scalo.
Sono così preso che quando finalmente aprono l’accesso all’area check-in un po’ mi scazza.

Chi ha costruito l’aeroporto di Orio Al Serio deve aver cercato di imprimere nell’edificio qualche elemento decorativo, perché mentre correvo verso la signorina che avrebbe dovuto imbarcare la mia valigia ho notato delle piante, una colonna, qualche arredo meno anonimo del solito. Ho notato anche dei sarcofagi in cui puoi trascorrere l’attesa del volo dormendo, che non è affatto una cazzata, ma la mia attenzione in quel momento era tutta rivolta verso il nastro dei bagagli, i pensieri tutti al momento in cui avrei superato il controllo dei documenti e sarei stato libero di trotterellare nell’immensa area duty free, così ricca di attrazioni a buon mercato.

Cinque minuti più tardi mi aggiro come un tossico in astinenza lungo una distesa, invero piuttosto limitata, di serrande abbassate. È tutto chiuso, anche il negozio che vende i profumi e il Toblerone.

Che poi perché il Toblerone e non, che ne so, gli ovetti Kinder? Perché questo grosso prisma di cioccolata lo trovi in tutti gli aeroporti del mondo da Orio a New York? Voi conoscete qualcuno che lo mangia, il Toblerone? Lo avete mai comprato, magari al supermercato vicino a casa? Io neanche lo vedo mai, nei supermercati. Lo trovo sempre e solo al duty free dell’aeroporto. Si vede che ne sono ghiotti gli assistenti di volo.

L’unico bar è assaltato dai passeggeri, tenuti a bada da una piccola ragazza dall’aspetto fin troppo rilassato per affrontare il marasma che ha di fronte. Non si affretta neanche, ti fa lo scontrino dell’acqua, mette un panino nella piastra, va a preparare un cappuccino, batte un’altra ricevuta, toglie il panino, mette su un caffè. Non sorride, ma non ha neanche la faccia scazzata che avrebbe un qualunque essere umano nella medesima situazione. È cordiale e asettica. Forse si droga. Provo a guardarle le pupille mentre pago la bottiglietta d’acqua, ma non riesco a trovarle.

Scavalco due nonne ucraine intabarrate in un intero branco di ermellini e torno a sedermi.
Mentre aspetto che il personale di terra inizi le operazioni di imbarco mi godo la tradizionale processione degli ansiosi, un rito di cui si sono perse le origini, ma che è comune in ogni area d’imbarco di ogni aeroporto mondiale, un po’ come i tobleroni.
Si tratta di un’aggregazione spontanea di persone che rifiutano di aspettare sedute il momento dell’imbarco, e preferiscono mettersi in fila anche mezz’ora prima, quando non è neanche arrivato il personale di terra, con la borsa davanti ai piedi e il passaporto in mano.
Forse sperano di velocizzare le operazioni e anticipare la partenza, oppure temono che qualcuno più lesto di loro si freghi il posto nella cappelliera e li obblighi a imbarcare l’enorme bagaglio a mano nella stiva.

Gli ansiosi dell’imbarco sono inizialmente pochi, quattro o cinque, ma la loro presenza in mezzo all’area è come un richiamo per gli altri passeggeri ad agire, ad abbandonare la loro dissolutezza e alzarsi in piedi, sentinelle silenziose di una vita più virtuosa, ma senza le menate sui valori cattolici.
In breve qualcuno si lascia contagiare dal loro magnetismo e si unisce alla causa, e più la fila si allunga più il suo richiamo si rafforza, e l’ansia si diffonde più densa; diventa difficile ignorarla, è come la puzza delle ascelle. Se rimani seduto vedi la fila lambirti i piedi, ti senti addosso lo sguardo accusatore di chi ha già sacrificato il proprio posto per una causa più alta, e il tuo sedile diventa duro, spigoloso, comincia a pruderti dappertutto.
Pochi minuti, e dove prima c’era una folla di persone sedute ad aspettare ora un lungo biscione si snoda fra i sedili deserti. Solo alcuni impavidi resistono, chiaramente dei provocatori, schifati dalla massa compatta delle fiere sentinelle. Nessuno viola il tacito accordo che è stato sancito unendosi al gruppo: non ci si siede se non a bordo, quei sedili vuoti che sfioriamo con la valigia non devono indurre in tentazione; se ti arrendi e ti siedi perdi il posto e dovrai ricominciare dal fondo.

Io sto seduto per un po’ a farmi gli affari miei, poi quando finisce l’episodio che stavo guardando mi caccio un po’ di musica nelle orecchie e mi alzo, entro nella coda da dove mi trovo in quel momento, passando davanti ad almeno una ventina di persone. Non ci penso neanche ad andarmi a mettere in fondo, non ho stipulato nessun tacito accordo, quando gli altri passeggeri si scambiavano lo sguardo d’intesa segreto stavo guardando Mindhunter. Forse quello dietro di me s’incazza e mugugna, non lo so, sto ascoltando un pezzo divertente, ballo anche un po’. Perché sto andando dall’altra parte del mondo e sono felice.

(continua)