Piove, uggia, trista. Il tempo migliore per andare a vedere Yíhé Yuán (頤和園),il Palazzo D’Estate dell’imperatore. Quello vero però, non la copia scrausa dell’altra volta.

Che poi sarebbe dell’imperatrice, visto che venne fatto costruire dalla vedova Cixi come residenza estiva, ma non mi metterò a raccontare la storia del sito, che è lunga e si trova su wikipedia.

Esco di casa e scopro con gioia che la temperatura si è abbassata notevolmente, ora invece di avere un phon che ti soffia in faccia ti sembra solo di stare nello spogliatoio della piscina.

Prendo la metro e scendo alla fermata giusta, da lì seguo la folla fino all’ingresso Nord, poco più avanti.

Il biglietto comprende diverse attrazioni, ma non ho capito quali siano; forse la mia Lonely Planet lo spiegherebbe anche, ma non ho voglia di leggere, le do solo qualche occhiata ogni tanto. Sarà perché ho comprato la versione inglese, l’unica approfondita su questa città; in italiano trovi solo una National Geographic striminzita su Pechino e Shanghai o un volume enorme che copre tutta la Cina. Mi sto impigrendo, leggo malvolentieri in inglese, non spiccico una parola di cinese e quando mi puntano una pistola in faccia gli do direttamente il portafogli senza sbattermi a contrattare. Di questo passo dove andremo a finire? È tutta colpa dei social, secondo me. Vabbè, faccio il biglietto e passo i cancelli.

La visita inizia subito in salita, perché c’è un bordello di gente e perché è, in effetti, in salita: superato il ponte sul fiume, che scavalca un porticciolo grazioso, inizia la scalata alla Collina della Longevità, il cui nome fa intuire che non sarà certo sui suoi tre milioni di scalini ripidissimi che ti schianterai, vai avanti impavido!

Come la maggior parte dei palazzi cinesi anche questo è composto da diversi edifici che fungono da porte. Salendo ne attraversi diverse, alcune sobrie in cima alle mura di una specie di fortezza, altre più decorate.

In cima alla collina c’è un tempio con le pareti ricoperte di piccoli Budda scolpiti, qualche bancarella di souvenirs e tre ragazzini che in un ottimo inglese mi hanno chiesto di fare una foto con loro.

Poi sono sceso dall’altra parte attraverso un bosco, giù per un sentiero reso scivolosissimo dagli aghi di pino e dall’umidità, e ho raggiunto il lago.

Come tutti i palazzi imperiali anche questo è pieno di colori, resi ancora più vividi dal contrasto con la vegetazione scura. I templi spuntano fra gli alberi, la collina restituisce un aspetto più vivace della monotonia pianeggiante offerta dalla Città Proibita. E il lago è enorme e pieno di barche. La maggior parte sono traghetti che fanno la spola da un lato all’altro, li riconosci dalla prua a forma di drago, ma ci sono anche tantissimi pedalò in affitto. Con questo caldo, madonna.

Prima di salire a vedere la torre, l’elemento più appariscente del complesso, prendo il traghetto per fare un giro del lago, ma non è un battello per giri panoramici, è un servizio di trasporto vero e proprio, e mi molla dall’altra parte di questa superficie enorme. Col cazzo che torno a piedi, vado a vedere un altro tempio su un isolotto al di là di un ponte parecchio imponente e poi rifaccio la fila per tornare da dove sono partito. Nel frattempo faccio la foto alla statua di un bue di bronzo: dopo il toro di New York la mia collezione di bovini metallici si va allargando.

Sul traghetto del ritorno una ragazza mi si siede accanto e mi domanda una foto insieme. Certo, rispondo, ma ne voglio una in cambio sennò i miei amici dicono che tutte questi ammiratori me li sono inventati.

Per quella sul suo telefono usa un filtro scemo che ci disegna le orecchie da coniglio. Ma perché le asiatiche si abbandonano tutte a questi atteggiamenti infantili? Non credo che potrei mai stare con una di loro.. oh wait…

Sbarcato nuovamente da dove ero partito mi sembra l’ora giusta per abbandonare il complesso, così risalgo a fatica la collina passando per la torre, vado a visitare il tempio coi budda scolpiti sulle pareti e ne trovo un altro gigantesco all’interno, quindi ridiscendo dall’altra parte più che soddisfatto della visita e me ne vado a prendere la metropolitana.

Mi fermo solo per visitare il porticciolo sotto il primo ponte, che non è niente di speciale, giusto una passeggiata senza protezioni su un molo strettissimo per vedere negozi di qualunque genere di pacchianeria turistica.

Scoprirò solo molto più tardi di avere saltato tutta la parte riservata alle stanze dell’imperatrice, con gli arredi, i mobili e quelle cose che ti fanno capire come vivevano in un posto del genere, e che fin dal mio primo viaggio in Cina mi sono domandato perché non ci fossero mai: di solito visiti una di queste strutture e passi da un tempio all’altro, da una sala del trono all’altra; i cartelli ti spiegano che lì dove adesso c’è un negozio di souvenirs prima stavano i sacerdoti di questo e quell’altro, e laggiù dove sono appesi tutti quei pannelli con la storia della ricostruzione del palazzo una volta si conservavano i fagioli. Vabbè, mi sono chiesto, ma i mobili? Tipo l’imperatore dove mangiava? La sua camera da letto si può vedere? All’interno della Città Proibita non lo so, nella metà che ho visitato non c’era niente, ma qui si può, sta tutto in quella parte di struttura a destra del lago, guardando il palazzo. Quella che non mi sono cagato.

La sera andiamo al Temple Bar, il locale di musica dal vivo che somiglia a quello che frequentavo a Genova quand’ero pischello. Ci avevamo fatto un salto la sera di Natale, ma non c’era nessuno. Stasera suona un gruppo italiano milanese, gli Octopuss, con due esse.

Non ho capito come abbia fatto un trio funk rock milanese a finire in una tournèe cinese, ma a quanto pare da queste parti hanno un discreto seguito, non è la loro prima volta, e leggendo in giro ho scoperto che partecipano a una sorta di scambio culturale fra Italia e Cina. La loro pagina su youtube è piena di esibizioni nelle principali città del Paese.

Sono bravi, meriterebbero più pubblico di questi quattro gatti, me e fidanzata compresi. Shasha mi chiede se voglio andare a salutarli, ma non mi va di farmi riconoscere come italiano, non saprei cos’altro dire tranne “ehi bravi, sapete, sono italiano anch’io”. Estigrancazzi. Poi penso che la maglietta di Emergency che sto indossando mi identifica fin troppo bene, rivelando oltre alla cittadinanza anche le simpatie politiche.

Giovedì 9 agosto

La regola, quando sei in vacanza, è che ti alzi un po’ quando ti pare. Questo diventa ancora più vero quando la tua fidanzata, che non è in vacanza, si alza alle sette per andare a lavorare e di colpo è l’ora di punta in metropolitana: accende tutte le luci di casa, sbatte tutti gli sportelli e ti parla a voce altissima come se invece che sotto le coperte con gli occhi chiusi e la bolla al naso fossi in cucina a prepararle la colazione. L’unica differenza fra la camera da letto e la fermata di Sanlitun è che sono ancora orizzontale e in mutande.

Chiaro che appena se ne va rispengo la luce e mi rimetto a dormire.

Il piano al risveglio sarebbe di andare a vedere la tomba di Mao. Shasha non capisce questo mio interesse per i morti imbalsamati, già a Natale ho tentato di visitare il mausoleo e ho trovato chiuso, mi chiede se ho un problema di necrofilia. Le dico che no, sono solo curioso di vedere un cadavere imbalsamato, specie se è quello di un leader mondiale. E poi mi affascina la venerazione che gli tributano i cinesi, come se fosse un santo laico.

Insomma mi preparo, esco e, come tutte le volte, finisco imbottigliato all’ingresso di piazza Tiān’ānmén, dove devi sempre esibire il documento e si creano delle code allucinanti.

Chiaro che al momento di entrare nel mausoleo è passato mezzogiorno e hanno già sbaraccato. Anche la salma di Mao rispetta degli orari, quando stacca se ne torna a casa o si ferma a un baretto lì dietro a farsi un bicchiere con gli amici. Dicono che sia più simpatico di quel che sembra sul lavoro.

Vabbè, vado a Qianmen, appena lì dietro, e provo a ordinare il lu zhu huo shao. Però non dal tizio ostile, magari vado da un altro. Ma magari provo a mangiare un’altra cosa.

se mangi qui e sopravvivi diventi immortale, pare

Insomma, sono finito nel solito buco infame, sporchissimo, gestito da due donne di cui una lavava i piatti e l’altra sputava per terra, a mangiare i mian tiao meno invitanti della mia vita.

Non sono stato male, quindi almeno la cucina era pulita, oppure la cuoca non soffriva di malattie trasmissibili con la saliva.

Sulla via del ritorno mi perdo intorno alla solita piazza, trovo un grosso ufo, che poi sarebbe il teatro dell’opera, e lentamente ritorno verso l’hotel di Shasha, che mi aspetta per cena.

Finiamo la serata con una zuppa senza infamia né lode.