2.
Mi sveglio molto presto, il fuso orario o il fantasma del cuoco di Picota che mi ha tenuto compagnia per tutta la notte. Vorrei alzarmi, ma i miei compagni di stanza dormono ancora, magari aspetto, dev’essere presto. Passa il tempo e sento l’edificio svegliarsi piano piano, qualcuno va in bagno, qualcuno scende a fare colazione. I miei compagni di stanza no, sono sempre nella stessa posizione. Magari sono morti e io mi sto facendo gonfiare la vescica per una cortesia inutile verso due cadaveri. Spunto con la testa e vedo il mio vicino di letto con la bocca spalancata da cui sale un gorgoglio ritmico, come un geyser che sta lentamente tornando in attività. Immagino che anche la ragazza nell’altra branda sarà in ottima salute. Vabbè, senti, mi alzo. Cerco di fare più piano che posso, ma ogni movimento produce lo stesso frastuono di un ciclo produttivo all’Italsider. Dopo un po’ mi rendo conto che se evito di muovermi con attenzione ci metto la metà del tempo, e forse disturbo meno.

Scendo a fare colazione e non c’è nessuno, solo io e un tizio che legge il telefono. Mi servo un succo di qualche frutto inesistente in natura, dal sapore dev’essere stato estratto dall’albero del polistirolo, e una bella tazza di quella sbobba annacquata che qualcuno si ostina a definire caffè americano. Non è caffè, smettila. Il caffè ha un sapore e un odore e una consistenza ben precisi, questa sostanza non ha ancora trovato una sua collocazione neanche nella tavola degli elementi. Se venisse fuori che la raccolgono da un tubo in una discarica non ci sarebbe niente di strano.

la chiesa dove si adora il signor Morto e i pasticcini pesantoni

Faccio la seconda colazione al Forno dos Clerigos. È quella panetteria dove mi reco in pellegrinaggio ogni volta che torno in città, sotto la chiesa che porta lo stesso nome. Prendo un pastel de nata pesante come solo un dolce portoghese sa essere, e mi racconto per l’ennesima volta che ne mangerei a chili perché è così buono. Non è vero, buono è buono, ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.
Prendo anche una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Credevo che le cose più grosse e pesanti del pastel de nata si trovassero solo nei cataloghi di artiglieria.

Mi scrive Marzia, dice che verrà a fare colazione lì, ma che è ancora in albergo. Da quanto ho capito alloggia in una specie di ex carcere fuori città, senza riscaldamento e con la colazione sparata in camera mediante irrigatore a canna. Non ho capito perché non abbia prenotato nel mio stesso ostello, lo conosceva anche lei e come me lo ha adorato da subito. Dice che se ne sono occupate le sue compagne di viaggio, che però non erano mai state a Porto. Boh, rinuncio a capire, certe volte nella testa di Marzia succedono cose misteriose.

Dopo un po’ che non la vedo arrivare mi alzo, o perlomeno ci provo, e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato.
Non mi dice granché, ma ho tempo da perdere, magari proseguo verso una direzione sconosciuta. In quel momento ricevo un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

La trovo al tavolino che sta macinando un panino al prosciutto. Accanto a lei è seduta Vivienne Westwood, o perlomeno spero tanto che lo sia: è tutta viola, i capelli, la montatura degli occhiali, una pelliccia e gli anfibi. Sembra un incrocio fra una bici, Iggy Pop e il Teletubbie Tinky Winky. Mi limito a due saluti due, i gestori ci stanno guardando male e credo di aver visto spuntare da sotto il banco qualcosa di metallico con un percussore e un grilletto. In Portogallo sanno essere molto rudi coi clienti.
Ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno, andremo a pranzo tutti insieme alla Taberna Do São Pedro, un altro di quei posti per cui vale sempre la pena tornare da queste parti.
Le lascio alla loro colazione e me ne vado a vedere la Sé.

La guida della città descrive la Sé come una cattedrale-fortezza; ai tempi della scuola ero un bimbo gracilino e facevo un sacco di assenze, perciò ho saltato sia la lezione in cui spiegavano le cattedrali, sia quella in cui descrivevano le fortezze. Però ho giocato a un sacco di videogiochi a tema fantasy, quindi la Sé la immagino come un edificio altissimo, goticissimo, dalle pareti spesse come tutta casa mia, abitato da creature deformi che mi puntano addosso un’ascia bipenne ed emettono suoni biascicati attraverso le zanne, poi mi vendono una pozione che mi restituisce +10 al mana.

Niente di tutto ciò. Per essere grossa è grossa, e pure massiccia, ma somiglia più a una sobria fortezza medievale che a una cattedrale gotica, anche se i pilastri all’interno sono grossi e nerboruti come le braccia di mia sorella, seppure meno pelosi.

Pilone Tupparello

Le creature deformi ci sono, ne incontro due. Indossano palandrane e invece dell’ascia bipenne mi puntano addosso un volantino e mi chiedono se voglio fare una foto per beneficienza. Accetto volentieri, una foto insieme a una creatura deforme starebbe benissimo nel mio album di Facebook.
Di certo meglio delle vostre con la bocca a culo di cane e la fronte in avanti per nascondere il risultato della dieta. Del fatto che non ne state seguendo nessuna, intendo.

La giovane baffuta volontaria dell’Ente Turistico Ecclesiastico Della Madonna Del Cerchione o di qualche associazione analoga mi spiega a grugniti che sarà lei a fare la foto, io devo solo mettermi là davanti a quella parete di azulejos e fare la faccia da uno che non vedeva l’ora di farsi fotografare.

Cioè come se me la facessi da solo? Eh ma te la faccio io. E se me la faccio da solo? Noi te la stampiamo su carta fotografica e la mettiamo in questo libretto interessantissimo che mostra tutte le meraviglie della cattedrale, non so se hai afferrato il sottinteso, se non l’hai afferrato guarda l’occhiolino che ti sto strizzando da mò. Credevo fosse l’orifizio da cui respiri, con voi creature deformi che abitate le cattedrali-fortezza è sempre difficile capire. Allora, ti metti davanti alla parete o devo tirare fuori i tentacoli? Non c’è niente che possa fare, sono al massimo della potenza. Dovrò spegnere tutto. Ma dovrete faticare per prendermi. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi.

Mi metto in posa e faccio tutte le smorfie del mondo, da quella triste a quella scoglionata, ma la tizia è abile e riesce a prendermi proprio nel momento in cui rido. Mi lascia andare senza sacrificarmi al suo dio sanguinario e riprendo il giro.

Il chiostro della cattedrale è insignificante, le tombe di San Carralho e San Colombão Certenholi sono anonime, la stanza piena di roba barocca è carina, ma evitabile. L’unica cosa che attira la mia attenzione sono i gabbiani. Hanno tutti l’elmo e una piccola alabarda.

Torno all’uscita e mi ferma la creatura di prima, il cui approccio non è diventato più gentile neanche adesso che ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso tanti momenti felici. Cara mia, se speri che adesso ti libererò dall’incantesimo che ti ha gettato addosso la strega cattiva devi proprio cambiare atteggiamento. Piuttosto bacio il parroco.
E anche la foto che cerca di rifilarmi, ma cos’è? Va bene, rido, ma sembro un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è, dai. E te la devo pure pagare? Ma vai, vai.

Mentre scendo verso il ponte Dom Luís mi specchio in una vetrina. Vedo un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è. Vado a cercare un’altra vetrina, questa è rotta.

(continua)

 

Arrivammo nella via dove avevo lasciato la macchina. La vedevo parcheggiata là in fondo, la sua targa italiana spiccava fra le altre come un faro. Non ci avrebbero messo molto a identificarla, probabilmente era già stata segnalata, magari la polizia era già diretta sul posto, forse era proprio dietro l’angolo.
Mi feci più sotto i ragazzi vocianti, uno si voltò e mi diede un’occhiata, facendomi temere di essere riconosciuto, poi riprese a chiacchierare con gli amici. Rallentai, badando a non perderli di vista.

Costeggiando la cattedrale i tre giovani malvestiti si dirigevano verso un palazzo dall’altro lato della strada, che recava l’inequivocabile insegna della stazione di polizia. Possibile che fossi stato così stupido? Mi avevano riconosciuto quando si erano girati, e temendo di essere aggrediti mi avevano portato davanti alla stazione di polizia! Da un momento all’altro si sarebbero messi a correre e a strillare, e mi avrebbero fatto catturare!

Mi voltai e tornai in fretta sui miei passi. Presi ogni strada laterale per far perdere le mie tracce, finendo in un quartiere pieno di vicoli e scalette. Era il centro storico, le Panier. C’erano botteghe di arte, di cianfrusaglie, baretti affollati, gente per strada. Senza volere ero capitato proprio nel mezzo di quel che stavo cercando. Puntai un locale dove gli avventori sedevano all’aperto, e cercai lì intorno.
Non mi sbagliavo, a pochi passi dall’entrata un tizio mi si accostò mormorando qualcosa.

“Non capisco”, gli risposi in italiano.
“Vuoi fumo, amico italiano?”, ripetè nella mia lingua. Ecco fatto.
“Non mi serve fumo, ma forse puoi aiutarmi. Voglio documenti, capisci? Papiers. Posso pagarti”.

Spalancò gli occhi. “Non so, non capisco!”, esclamò allontanandosi. Cos’aveva capito? Che ero uno sbirro? Qualcuno si voltò a guardarmi, sperai che la mia faccia non fosse già finita nei telegiornali.
Lo spacciatore mi fece cenno di seguirlo da qualche metro, e si allontanò dalla folla. Gli andai dietro fino a un portone.

“Ti conosco, sei il mostro del Verdon”, mi disse.
“Mostro? Io non sono un mostro!”
“Il ragazzo italiano ha detto in televisione che hai ammazzato i suoi amici, la polizia ti cerca.”
“Ma non è vero! Io non ho ucciso nessuno, è stato Patrick De Pagaion!”
“Ma chi? Il campione di canoa? Seeh!”
“Te lo giuro! E’ stato De Pagaion! Voleva impadronirsi del segreto del Manovròn, una tecnica mistica tramandata di padre in figlio da una famiglia di genovesi! Quel ragazzo italiano che hai visto in televisione è l’ultimo depositario di quel segreto!”

Rise.

“Voi italiani! Telefonino, occhiali da sole e dite sempre cazzate!”
Come cambiano i tempi, una volta mi avrebbe detto pizza e mandolino.
“Io non ce l’ho il telefonino, l’ho tirato dentro una Polo in autostrada!”

Rise più forte.

“Sei incredibile! Ma dove le trovi! Dovresti lavorare in televisione! Perché non vai a lavorare in televisione?”
“Ci sono già in televisione, è per questo che mi servono dei documenti! Allora, mi puoi aiutare o no?”
Gli lacrimavano gli occhi dal ridere, tanto che tirò fuori un fazzoletto tutto sporco e si asciugò la faccia. Quando si fu un po’ calmato gli ripetei la domanda.

“Si, conosco qualcuno che potrà aiutarti, ma è molto caro”.
“Posso pagare.”
“Certo, ho sentito, hai lasciato un debito al campeggio!”

Quel tizio stava cominciando a darmi sui nervi. Forse potevo rivolgermi a qualcun altro, non sarà mica stato l’unico spacciatore della zona, no? Avrei potuto andarmene, cercare un bar, ordinare un caffè, usare il bagno, prendere in presto l’elenco telefonico e cercare alla voce “spacciatori”, o “falsari”.
No, pensandoci bene era un piano irrealizzabile. Il caffè francese è una tale porcheria, non avrei mai avuto il coraggio di ordinarne uno. E poi anche se fossi riuscito a farmi dare l’elenco del telefono sarei stato da capo, non sapevo come si dice “spacciatore” in francese.

“Senti, come si dice spacciatore in francese?”
“Trafiquant, perché?”
“E falsario?”
“Stai cercando di mollarmi, eh? Vuoi andare al bar, farti dare un elenco e cercare un altro spacciatore meno spiritoso, vero?”
“No, no, era solo per curiosità, giuro!”
“Non mi freghi italiano, sapessi quanti ne ho incontrati di furbi come te. Gente che ammazza i compagni di gita e poi viene a cercarmi per farsi indicare un buon falsario che permetta loro di cambiare identità, e quando vedono che faccio lo spiritoso mi mollano per cercare delinquenti più taciturni. Ormai vi riconosco a naso!”

Non c’era niente da fare, mi aveva scoperto. Decisi di non rischiare di compromettermi di più, e lo lasciai a lamentarsi di quanto sono disonesti gli italiani, che gli dicono di passare domenica che gli comprano una dose e poi la domenica lui va e trova la casa vuota col cane in giardino che gli ringhia.

Entrai nel bar affollato lì di fronte.
Il barista mi squadrò con un’occhiataccia.

“Sei italiano?”
“No, ungherese”, abbozzai.
“Non fare lo stronzo, quelle sono Superga”, disse indicandomi le scarpe.
“Sono false, le ho comprate in Ungheria.”
“Se sei ungherese preparami un gulash.”, ribattè incrociando le braccia, in attesa della mia mossa.

Gli avventori del locale tacevano, osservandomi. Si erano spostati verso le pareti, lasciandomi molta libertà di movimento.
Il barista era in piedi davanti a me, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo sarcastico di chi sa di avermi in pugno. Non bisogna mai sottovalutare un barista francese, è scritto su ogni guida turistica. Alla minima disattenzione ti vende una bottiglietta di Perrier, e il tuo conto in banca è azzerato. I più pericolosi la accompagnano con un tortino alle erbe decorato con la vinaigrette. Non potevo mostrargli la mia insicurezza, mi avrebbe fatto a brandelli. Sorrisi col mio sorriso più sfrontato, e il gesto lo confuse.
Misi una mano in tasca e tirai fuori un bottiglino.

“Attenti!”, gridò qualcuno fra gli avventori, “Ha della paprika!”
Ora il barista non era più così spavaldo, gocce di sudore gli scivolavano dalla fronte. Sapeva che un mio gesto improvviso poteva mettere a repentaglio l’incolumità sua e dei suoi clienti.

In realtà non era paprika, era un barattolino di marmellata che avevo preso al campeggio, ma tenendo una mano sull’etichetta contavo di reggere il mio bluff fino a permettermi di uscire da quella situazione spinosa.

Tenendolo bene sollevato domandai al barista di passarmi l’elenco del telefono.

“Non si può, devi prima ordinare un caffè”.

Era tosto l’amico.

“E se uso il bagno?”
“Anche. Prendi il caffè e ti do la chiave.”
“Se porto l’elenco in bagno devo ordinare lo stesso il caffè?”
“Beh.. tecnicamente..”
“Se mi dai la chiave posso consultare l’elenco?”
“Cosa c’entra la chiave con l’elenco?”
“Per il caffè non serve la chiave del bagno, giusto?”
“No, che domande..”
“Allora facciamo così, tu mi porti il caffè in bagno, e io intanto consulto l’elenco del telefono qui”

Il barista sembrava convinto, riempì una tazza da minestrone di quella broda nera e si avviò verso la toilette. Con un balzo afferrai l’elenco del telefono e cercai sotto “Trafiquantes”
Ce n’erano tre. Chiesi a un tizio coi baffetti quale fosse il più vicino, e mi indicò la strada. Disegnò anche una piantina sul tovagliolo, ma prendendolo commisi l’errore di lasciar andare il barattolo di marmellata.

“Ehi, ma quella non è paprika!”, si mise a gridare baffetto, “Tu non sei ungherese!”
“Lo riconosco!”, esclamò un altro, “è il mostro del Verdon!”

In un momento mi furono tutti addosso. Mi riempirono di calci, sputi, il barista mi infilò in tasca una baguette al camembert e cetriolo e corse a battere lo scontrino.
Pochi minuti dopo arrivò la polizia. La mia avventura era terminata.

Ora sono chiuso in una cella di massima sicurezza del carcere delle Baumettes, mi hanno dato trent’anni senza estradizione. Esco un’ora al giorno per fare il giro del cortile, non parlo con nessuno, mi odiano tutti, qui gli insolventi ai campeggi sono visti peggio dei pedofili. Il secondino è l’unico che mi mostra un po’ di gentilezza, ogni tanto mi offre una sigaretta, ma è perché sa che non fumo, e comunque prima di passarmela attraverso le sbarre la spiegazza tutta.

Di Alessandro non ho saputo più niente, qualcuno alla mensa ha accennato di una sua partecipazione a un reality show su una rete italiana, del suo fidanzamento con una velina, ma sono chiacchiere da cortile, prive di fondamento. Non che mi interessi, per come sono messo neanche il manovròn potrebbe aiutarmi, sempre che esista poi. Nella solitudine della mia cella ho molto tempo per ripensare a quel che è successo, e certe volte mi sale il dubbio che si sia trattato di una colossale montatura. Gli omicidi no, quelli sono veri, qualcuno ha ammazzato Gabriele e Stefano, forse è stato Alessandro, forse Patrick De Pagaion, ma chiunque sia stato lo ha fatto davvero, e ha fatto cadere la colpa di tutto su di me. Sono innocente, sto pagando le colpe di un altro.

No, sono colpevole, li ho ammazzati io, e sono scappato senza pagare il campeggio. Ho anche fregato la macchina di Alessandro, i suoi soldi, volevo cambiare identità, non avevo futuro, e quei ragazzi mi hanno fornito l’occasione perfetta. Ce l’avevo quasi fatta, mi hanno beccato.

Ma che sto pensando? Colpevole di cosa? Questa cella mi sta facendo diventare pazzo.

Da qualche giorno viene a trovarmi un uomo, dice di essere uno scrittore di romanzi noir, vuole convincermi a pubblicare la mia disavventura in un libro, secondo lui sarà un successo.
Non so se credergli, ma credo che finirò per accettare, non ho niente da perdere, e mettere sulla carta i miei pensieri mi aiuterà a riordinarli, e a capire cosa diavolo è successo in quella gola maledetta.

Comunque sia andata, chiunque si sia macchiato del sangue di quei due poveretti, fra trent’anni uscirò. È questo pensiero a darmi coraggio, uscirò e potrò tornare a quell’agenzia di viaggi, ritrovare quella ragazza col naso a punta e il bel sorriso, e quando l’avrò di fronte la guarderò nei suoi begli occhi e le chiederò:

“E’ ancora disponibile quella vacanza a Zanzibar con la single quarantenne?”

Davanti ad una baguette chilometrica, caricata a burro e marmellata, il nostro compagno ci raccontò i fatti in breve.

“Dormivo, è arrivato uno e l’ha ammazzato.”
“Un po’ meno in breve?”
“Eravamo in tenda, stavamo dormendo, quando abbiamo sentito un rumore, come una canoa che striscia sul terreno. Gabri si è affacciato a vedere chi fosse, e ho sentito una voce mormorargli in francese ‘Quel est le secret du Manovròn! Cochon!’, poi un rumore come quello che fanno in Dylan Dog quando sgozzano qualcuno.”
“Slurp?”
“Scraatch! Ma non li leggi i fumetti?”
“No, prima che mi vuotassero l’appartamento leggevo solo le etichette dell’acqua minerale”
“E comunque Gabri non aveva mica le coscione! Mi ricordo che ci stava ben attento a non farsi venire le smagliature!”
“E cosa vorrà dire quel est le secret du?”
“Io questi francesi non li capisco mai quando parlano”
“Meno male che non sei nato in Francia!”
“Però non mi dispiacerebbe venirci a stare, magari proprio in Provenza”
“Si, ci sono dei bei posticini, ma vuoi mettere con la Spagna? Ah, io se dovessi andare a vivere in un altro Paese andrei sicuro in Spagna!”
“Eh certo che come a casa propria però non si sta da nessuna parte, eh?”
“Maccheccazzo dici? Abiti a Bolzaneto! A momenti è più bello stare in quella tenda striminzita davanti alla strada!”
“A proposito di tenda, secondo voi chi l’ha ammazzato Gabriele?”

Alessandro si fece scuro in volto e mi guardò, posando il panino con la marmellata che teneva in mano, ancora gocciolante. Stefano lo ghermì ratto come la faina e se lo infilò tutto in bocca.
Capii che uno stava ancora pensando al complotto del manovròn, e che l’altro si sarebbe sicuramente soffocato, ed ebbi ragione in entrambi i casi, Alle si alzò e si avviò verso il lago, Stefano cominciò a diventare color ciclamino e a gesticolare con violenza.
Gli battei sulla schiena fino a fargli sputare l’enorme boccone, e subito tirò un lungo respiro, ma non smise di gesticolare. Appena fu in grado di parlare mi gridò “Fermalo! Se ne sta andando senza pagare il conto!”
Raggiunsi il fuggiasco in mezzo alla boscaglia, mentre stava cercando di raggiungere la spiaggia. Forse cercava di fuggire a nuoto.
“Allora? Perché hai ammazzato Gabri?”
“Ti ho detto che non l’ho ammazzato io, è stato Patrick De Pagaion! Voleva il segreto del Manovròn!”
“Ma ti rendi conto che sei il principale sospettato? Non ci sono testimoni, non ci sono prove!”
“Come no? E queste allora?”, mi gridò in faccia tirando fuori un paio di mutandine femminili.
“Ma quelle sono..”
“No, scusa, ho sbagliato tasca.. Volevo dire.. queste!”, e mi sbandierò davanti delle polaroid che ritraevano Patrick De Pagaion che cercava di far stare un intero coltellaccio da macellaio nella gola di Gabriele.
“..Ma quelle..”
“Visto? Sono innocente!”
“Ma quelle sono..”
“Andiamo da Stefano, non mi fido a lasciarlo da solo”
“Sono le mutandine della tettona francese! Gliele ho viste da sotto il tavolo ieri sera al ristorante! Ma allora la storia del Manovròn è tutta vera! E’ una magia! E’ un potere potentissimo!”
Alessandro era sollevato, ma anche un po’ scazzato, per convincermi della veridicità del suo potere non gli era bastato salvarmi due volte la vita, aveva dovuto imboscarsi con una figa, come se gli fosse servita la magia per riuscirci, lui che aveva un indiscutibile sex appeal.
Tornammo al tavolo, ma Stefano non era lì. C’era il cameriere che voleva che gli pagassimo la colazione. Ebbi un orribile presentimento.
“Stefano ci avrà lasciato da pagare solo quello che abbiamo mangiato o si sarà fatto portare dell’altra roba mentre non c’eravamo?”
Risultò che non aveva ordinato altro, era venuto a cercarlo un uomo tarchiato con orribili pantaloncini da turista e una canoa. Ebbi un altro orribile presentimento.
Corremmo alle tende, e già da lontano un nugolo di mosche ci segnalò la presenza di un cadavere in decomposizione.
Il cadavere era quello di Gabriele, era stato orrendamente mutilato dai vicini olandesi, stanchi di mangiare sempre scatolette di tonno, ma dalla mia tenda proveniva un odore terribile, come di sangue rappreso, di budella sbudellate, insomma di quelle cose proprio macabre di cui sono pieni i film dell’orrore.
Mi feci coraggio e misi la testa dentro.
Alessandro mi osservava sgomento, quando uscii e ripresi fiato dovevo essere bianco come il bucato della signora Longari, ma non quello lavato con due fustini di una marca anonima che te la tirano dietro al supermercato dei tedeschi.
“Avevo lasciato le mutande sporche fuori dalla borsa”, gli dissi.
“Stefano non è lì?”
“No, ho cercato anche sotto i sacchi a pelo e dietro gli zaini, non c’è.”
“Allora forse non è stato ucciso.”
“Che facciamo, aspettiamo?”
“E se poi non lo ammazzano?”
“No, voglio dire, aspettiamo che torni? Magari è andato a farsi la doccia”
“Ma non sono passate ancora tre ore dall’ultimo pasto!”
Ebbi il terzo orribile presentimento.
Corremmo alle docce, e questa volta lo spettacolo orribile non fu l’assoluta mancanza di igiene, né il vedere Stefano nudo, che comunque non era per niente piacevole.
Lo trovammo riverso sul pavimento, con la bottiglia di shampoo in una mano e l’epilady nell’altra.
Qualcuno lo aveva ucciso provocandogli una congestione.
“L’assassino prima lo ha fatto mangiare come un tacchino, poi gli ha fatto fare la doccia provocandogli una congestione, ma chi potrebbe essere così astuto?”
“Il professor Moriarty!”
“No, lui è un personaggio letterario, non esiste.”
“Allora Macchia Nera!”
“Ma Macchia Nera è il nemico di Topolino, fammi il piacere!”

Quel campeggio stava diventando scomodo per noi, era meglio sparire prima di fare la fine degli altri due, era ormai chiaro che qualcuno cercava di toglierci di mezzo per impadronirsi del terribile segreto del Manovròn. Poteva essere chiunque, convincere le ragazze buone a imboscarsi è un potere che farebbe gola a molti.

“Ming The Merciless!”
“No!”

Oltretutto c’era da pagare il campeggio! Decidemmo di partire immediatamente con la macchina di Gabriele.

“Da adesso in poi non dobbiamo più separarci, neanche per dormire, neanche per le ragioni più importanti, niente, dobbiamo stare sempre insieme, ne va della nostra vita!”
“Ok, vado un attimo in bagno e partiamo.”

Caricai il bagaglio in macchina mentre aspettavo che Alessandro tornasse dal bagno.
Poi caricai il suo, che era ancora sparso nella tenda, mi misi lì con calma e raccolsi tutto, lo misi nello zaino e lo infilai in macchina.
Poi smontai la tenda, non fu una cosa semplice, Gabriele l’aveva costruita solida..
La tenda di Stefano non ebbi il coraggio di smontarla, preferii appiccarle fuoco, mi sedetti e la guardai bruciare.
Quando gli ultimi tizzoni si spensero cominciava ad oscurare, e fu allora che mi resi conto della mancanza di Alessandro.
“Avranno sicuramente ammazzato anche lui”, pensai, e partii senza neanche prendermi la briga di controllare. In fondo preferivo non averlo intorno uno così, non sarei più riuscito a trattarlo bene dopo che si era imboscato con la francese popputa, un’invidia feroce mi faceva venire voglia di picchiarlo ogni volta che ce l’avevo davanti.

All’ingresso del campeggio la sbarra era abbassata, il proprietario doveva avere intuito le mie intenzioni scroccherecce, e si era piantato all’ingresso col blocchetto delle ricevute in mano, ben deciso a farmela pagare.
Le mie finanze non erano proprio al lumicino, ma non trovavo affatto giusto doverci rimettere dei soldi solo perché i miei compagni di viaggio si erano fatti ammazzare, in fondo il Manovròn non era mica qualcosa che riguardava me.. e diciamola tutta, io fin lì ci avevo soltanto rimesso, il furto all’appartamento, la figa che si infratta con Alessandro, la pioggia e gli intrighi vari.. mi sembrava giusto che almeno il conto del campeggio se lo pagasse qualcun altro!
Comunicai al proprietario che il mio amico Alessandro stava arrivando coi soldi, io lo avrei preceduto fuori per caricare i bagagli in macchina.
Mi lasciò passare e si rimise di guardia.

Il mio bagaglio consisteva nella tenda di Gabriele e i pochi panni puliti che mi erano rimasti. Il denaro ce l’avevo ancora quasi tutto, e una volta accertato di essere l’unico superstite del gruppo avevo alleggerito i portafogli dei miei ex compagni, tanto a loro non sarebbero mica serviti.
Lasciai per ognuno una moneta, giusto in caso avessero dovuto pagare il traghettatore sullo Stige.

Se il denaro non rappresentava un problema lo stesso non si poteva dire per il mio futuro. Tornare a casa era da escludere, nel tempo impiegato ad arrivare la polizia sarebbe già stata informata dell’accaduto, e io sarei stato il primo sospettato. Senza contare che risultavo scomparso dal lavoro, la mia casa era stata svuotata senza che fosse stato denunciato alcun furto, avevo lasciato un indirizzo falso e guidavo la macchina di una delle vittime. A dirla così non mi credevo del tutto innocente neanch’io.

Avevo due possibilità, trovare il vero assassino e consegnarlo alla giustizia, o cambiare identità e sparire per sempre. La prima era realizzabile solo al cinema, optai per la seconda e mi misi in viaggio verso il posto più vicino dove contavo di trovare dei documenti falsi: Marsiglia.
Nei romanzi di Jean-Claude Izzo la città brulica di malavitosi pronti a commettere qualunque crimine, figurati se non ne trovavo uno disposto a vendermi dei documenti falsi.
Il piano era semplice, una volta arrivato in città avrei cercato di mettermi in contatto con qualche pregiudicato, avrei comprato una carta d’identità fasulla pagandola con la macchina e sarei partito per una nuova vita il più lontano possibile da quella storia di sangue e canoe.
Se è vero che per trovare un buon ristorante economico devi chiedere a un camionista ero certo che uno spacciatore qualsiasi mi avrebbe indicato un buon falsario. Misi perciò a frutto la mia esperienza genovese riguardo ai piccoli trafficanti. Sapevo per certo che era più facile trovarli nel centro storico che nella zona commerciale, e che erano soliti stazionare davanti ai locali più affollati; lasciai la macchina in un posteggio, e aspettai che qualche gruppo di giovani mi conducesse al posto giusto.

Per ingannare l’attesa accesi la radio. Tutti i notiziari parlavano della strage nel campeggio, da quel poco che riuscivo a capire erano stati trovati i cadaveri di Stefano e Gabriele, ma non si parlava di quello di Alessandro. Poi la sorpresa, su una rete locale mandarono in onda proprio la sua voce, sembrava in preda a forte shock e gridava in italiano di essere innocente, che io avevo ucciso i suoi amici ed ero scappato in macchina, lasciando da pagare il campeggio!
Era vivo! E mi stava denunciando! Chebbastardo, io al suo posto non l’avrei mai fatto.
Dovevo sparire, ormai quella macchina scottava, il mio nome scottava, la mia faccia era su tutti i giornali, quanto sarebbe passato prima che un marsigliese mi riconoscesse e chiamasse la polizia?

Mollai la macchina in un parcheggio nei pressi della cattedrale, e mi avviai a piedi in una stradina poco frequentata. Camminai senza meta fino a incrociare un trio di magrebbini chiassosi. Indossavano dei bomber pieni di toppe, e tenevano il cappellino appoggiato in testa come fosse una bombetta. Non è che lo indossassero, era più come se qualcuno gliel’avesse fatto cadere in testa a loro insaputa. Non mi interessavo di moda, ma se la tendenza era quella di ridursi in quel modo ridicolo preferivo pensare che quei tre fossero conciati così a causa di problemi personali, piuttosto che per esigenze di stile.
Li seguii comunque, sperando che mi conducessero a uno spacciatore.
Non era una grande idea, me ne rendevo conto, ma non potevo andare lì e domandare se conoscessero qualcuno che falsificava documenti, come diavolo si diceva “falsificare” in francese? Dovevo procedere per piccoli passi, trovare una scuola di francese, diventare bilingue e imparare a pronunciare correttamente la frase “Scusi, dove posso trovare un buon falsario che mi permetta di cambiare identità?”, quindi interpellare i tre giovanotti, farmi spiegare l’indirizzo, cercare un internet point e collegarmi a un sito di mappe online, ricavare il percorso migliore per raggiungerlo secondo le diverse opzioni suggerite:

  1. La via più breve;
  2. La via più economica;
  3. La via più panoramica;
  4. La via più lontana dalla polizia.

Il mio piano era perfetto, prevedeva anche un piano B, nel caso i tre individui si fossero infilati in un portone. Avrei fornito le loro descrizioni a un poliziotto e mi sarei fatto spiegare dove abitavano. Non potevo fallire.

(continua)

Senza che gli chiedessi niente, e prima ancora di essermi del tutto ripreso dal pericolo appena corso, venni a conoscenza del terribile segreto che la famiglia di Alessandro custodiva da generazioni, il Manovròn. Una cosa, a suo dire, che poteva risolverti ogni problema, anche il più complicato.
“Cioè, la mia ragazza mi pianta perché mi vedo con una che neanche ci sta e basta che mi metto a pagaiare e me le faccio tutte e due, o perlomeno una?”. Gli risi in faccia.
“Non è un gesto, un’azione, una pagaiata, come i più ciechi potrebbero pensare, il Manovròn è una formula, applicabile a ogni problema ti si presenti davanti nel corso della tua vita!”
“Cioè ho appena assistito ad una specie di incantesimo?”
“Per usare un termine comprensibile a delle menti ristrette e traviate da quello stronzo di Harry Potter, si, una specie. E dei più pericolosi, per giunta. Non l’ho mai mostrato a nessuno, ma qui era in ballo la nostra vita, sono stato costretto a fidarmi di te. Ti prego, non tradire la mia fiducia, il Manovròn ha un potere che farebbe gola a molti, e per questo deve rimanere segreto”.
Mi guardai intorno in silenzio, poi guardai di nuovo l’espressione severa di Alle.
“Stefano, facciamo cambio di equipaggio?”, gridai saltando giù dall’imbarcazione.

Il resto della maratona proseguì senza incidenti, disturbato solo dalla risata stridula di Gabri, ogni volta che il suo compagno di canoa si addormentava facendoli ruotare su sé stessi.
Alla fine della discesa fummo sorpresi da un violento temporale, che ci impose una lunga sosta sotto gli alberi, in attesa del pulmino che avrebbe dovuto riportarci al campo base, e alle nostre macchine.
Veniva giù un’acqua che a confronto il monsone indiano sono due gocce, tuonava da fare paura, e sotto gli alberi ci si sentiva molto bagnati e molto poco al sicuro.
“Metti che picchia un fulmine e ci prende tutti”, diceva Gabriele per infonderci coraggio. Stefano lo colpì con un ciocco bagnato.
Alessandro, in un angolo, mormorava qualcosa, facendo strani gesti con le mani. Pensai che fosse un tentativo di applicare il Manovròn agli agenti atmosferici, e mi allontanai spaventato.
Dopo un’ora di campeggio fantozziano Patrick De Pagaion venne ad avvisarci che il nostro trasporto era arrivato. Era il pulmino di prima, che nel frattempo doveva avere avuto un paio di incidenti, di cui almeno uno molto grave.
Un coro di preghiere si levò, quando ci rendemmo conto a cosa stavamo affidando le nostre vite, ma soprattutto a chi.
Era il rasta di prima, a torso nudo nonostante la temperatura prossima allo zero, con gli occhiali da sole e uno spinellone gigante piantato in bocca. Patrick ci fece salire a bordo minacciandoci con un pagaion, poi disse qualcosa all’autista che gli mostrò il suo dito medio e partì sgommando.
Tutta la strada da lì fino al campo base venne percorsa in un tempo che avrebbe acceso l’invidia di Colin McRae, su due ruote alla volta, per risparmiare sui copertoni.
Ma arrivammo tutti vivi, bisogna ammettere che il rasta fumato sapeva il fatto suo.
O forse, come mi suggerì Alessandro passandomi accanto, fu tutto merito del Manovròn.
Per ex voto decidemmo di andare a cena fuori, una bella mangiata di quelle cose tipiche della Provenza, in un tipico paesino, magari a una sagra locale. L’idea arrivava naturalmente da Gabriele, il più ludico della compagnia, quello che voleva sempre provare tutto, vedere tutto, assaggiare tutto, anche la roba scaduta. Mentre caricavamo i nostri corpi spossati sui sedili dell’auto ci corse incontro ululando, con un foglietto in mano.

“Ha preso una multa”, dissi io, piuttosto esperto del settore.
“Io non la pago”, ribatté Stefano, esperto di prescrizioni.
“Ho fame”, concluse Alessandro.

Era un manifestino di un concerto, che nel nostro francese stentato traducemmo più o meno con:

QUESTA SERA
ORE 22.00
MOUSTIERS ST. MARIE
FESTA PATRONALE (o FETTA PATERNALE, ma ci sembrava meno probabile)
CONCERTO SKA REGGAE CON
LE NEGRE VERDI (o qualcosa del genere)

“Ska reggae? È provenzale?”
“Cantano in francese..”
“Io ho fame!”

Due ore dopo eravamo già in giro per le vie di Moustiers St.Marie, un paese così piccolo, così tirato a lucido e soprattutto così illuminato schifosamente ad arte da sembrare un presepe. Gabriele propose di fermarsi ad aspettare la neve finta, ma Alessandro aveva già puntato un ristorante che proponeva il tipico menù provenzale.

Ma cosa si mangia in Provenza?
Tirammo giù un elenco delle cose a nostro dire tipiche di quella regione della Francia:

la lavanda
i caselli in autostrada
le mucche

“Come le mucche?”
“Le mucche. Io ho visto le mucche.”
“Sarà..”

Entrammo nel ristorante pronti a mangiare carne di mucca alla lavanda, e a pagarla ogni dieci bocconi buttando soldi nel cestino del pane.
La lista delle portate era differente, qualcuno scelse l’insalata del terrore,

“ma no, terruàr vuol dire contadino!”
“meno male, non avevo voglia di mangiare visceri umani.”

qualcuno ripiegò su una più rassicurante bistecca ai ferri, io infransi un tabù che mi portavo dietro dall’infanzia, e ordinai le lumache.
Alessandro era seduto vicino a me, sul lato del corridoio, e stava facendo gli occhi a girandola.
Pensai che fosse un altro dei suoi strani atteggiamenti, ma poi mi resi conto della ragazza seduta al tavolo accanto, proprio davanti a lui, e di colpo smisi di masticare, mostrando a tutti gli avventori il contenuto della mia bocca spalancata.
Dire che fosse bella è poco, perché non era soltanto bella, era provocante, ma anche provocante non rende l’idea.
Era la vista del rifugio dopo tre ore che ti arrampichi sotto il sole, con lo zaino pieno di sassi sulle spalle, il Succubo che arriva a tormentare le notti dell’uomo di Dio, la prova d’esame alla Scuola di Eccitanti. Ogni volta che metteva in bocca la forchetta trovavamo più difficile restare seduti, ogni spermatozoo nei nostri corpi era sveglio e vigile, e spintonava, e ci gridava “Riproduciti! Riproduciti puttana miseria!”.
Indossava una maglietta rossa con una generosa scollatura, che non si preoccupava di celare la generosità sottostante, e quando a un tratto si chinò a raccogliere il tovagliolo, da qualche parte qualcuno ululò.
Alessandro tremava, non credeva possibile che esistessero cose simili. Io mi chinai come aveva fatto lei, per raccogliere gli occhi rotolati sotto il tavolo, e già che c’ero per cambiare posizione, che restare seduto composto era ormai divenuto impossibile.
Non mangiammo altro, Stefano e Gabriele erano di spalle, e anche se si rendevano conto che dietro di loro sedeva l’incarnazione di tutte le pippe del mondo non si voltarono mai, per non essere troppo sfacciati. Io stavo già oltre, mi chiedevo se potesse essere troppo sfacciato saltarle addosso e strapparle i vestiti a morsi.
Poi si alzò, e fu come se si portasse via una parte di noi. Una a caso.
Pensai alle api che pungono e, cercando di volare via, si strappano il pungiglione e muoiono. Mi sentivo strappare via il mio pungiglione, e senza neanche averlo piantato da nessuna parte, che tormento! Guardai andare via la ragazza incapace di parlare, anche solo di voltarmi ad osservare la reazione di Alessandro, ma lo vidi passarmi davanti che la ragazza non era neanche ancora sulla porta del ristorante, aveva gli occhi sbarrati e le mani protese verso di lei.
La seguì fuori del locale, e in quel momento ritrovai le mie facoltà.
Gli altri due aspettavano che facessi lo stesso, o perlomeno che mi mettessi a piangere.
Suggerii invece di andargli dietro, non sapevamo come poteva comportarsi, e l’accompagnatore di lei sembrava piuttosto solido.

“Io devo ancora finire, vacci tu che hai già il piatto vuoto.”
“Il dolce non lo vuole nessuno?”

Dopo il dolce fu la volta del caffè, e poi vuoi rinunciare all’ammazzacaffè?
Dividemmo il conto in quattro, e Gabriele pagò la quota di Alessandro.
“Troviamolo. Lo voglio vivo”, disse.

Fuori dal ristorante non c’era traccia di lui, né delle sue ossa frantumate, segno che la colluttazione col ragazzo massiccio che accompagnava la sirena non doveva esserci stata. Le persone camminavano tranquille, nessuno correva a sedare risse, e non si sentivano rumori allarmanti, solo una musica lontana. Eravamo ancora in tempo per salvarlo.
Seguimmo le note e il flusso della gente fino a una piazza in cui era stato montato un piccolo palco, con grossi amplificatori ai lati. Una rudimentale macchina del fumo generava una nebbia talmente fitta da rendere impossibile capire se ci fosse effettivamente qualcuno a suonare, ma dal casino che facevano dovevano essere almeno in dodici.
Sotto il palco ballavano tutti, giovani, meno giovani, una vecchietta sull’ottantina, un cane nero senza collare, Alessandro non era lì.

“Alessandro non è qui”, dissi a nessuno, i miei due soci erano spariti nella nebbia. Si alzava minacciosa e rapida come il prezzo della benzina, e presto ci avvolse tutti quanti. Mi aspettavo di veder apparire un galeone fantasma, Jack lo Squartatore, il mostro di Lochness..
Apparve Alessandro.

“Dove sei stato?”
“Dove sono gli altri?”
“Dove sei stato? Dov’è lei? Che hai fatto?”

Ripetè il gesto misterioso e sorrise. Capii tutto. Il bastardon sosteneva di essere riuscito a infrattarsi con la sirena, grazie al segreto potere del Manovròn. Gli risi in faccia, gli dissi che era un povero illuso, che se si fosse avvicinato a meno di due metri da lei il suo ragazzo l’avrebbe macinato, e lui continuò a sorridere e a fare strani gesti. Mi chiese ancora dove fossero gli altri, e li seguì scomparendo nella nebbia.
E dire che all’inizio mi era sembrato il più innocuo del gruppo, in pochi giorni si era rivelato possedere una bomba chimica nelle scarpe, una mente da codice penale e una capacità di cadere addormentato distorta e potenzialmente omicida.
Decisi che per il resto della vacanza mi sarei tenuto distante da lui il più possibile.
Naturalmente non fu possibile.

Saranno passati si e no dieci minuti, il gruppo di straordinari musicisti aveva deliziato il suo pubblico con un paio di canzoni praticamente identiche, simpatico attacco reggae, ritornello micidiale con ritmi raddoppiati e chitarre distorte, quello che i più esperti definiscono ska core; se mi avessero sfregato violentemente i testicoli su una grattugia da parmigiano avrei provato sensazioni più interessanti. Sull’assolo di tromba più afono del mondo qualche melomane decise di essere stato stuprato a sufficienza, e mandò in corto l’impianto elettrico, provocando una fiammata da un riflettore che cancellò il parrucchiere dalla lista delle priorità del cantante. Tutte le lampadine esplosero in un simpaticissimo effetto popcorn, gli amplificatori emisero uno squassante grido di dolore e spirarono, la macchina del fumo si spense, ma non ci fu nessun cambiamento evidente, se non che quello che adesso ricopriva palco e spettatori faceva bruciare gli occhi e puzzava molto più del precedente.
I miei amici emersero dalla nebbia tossendo e ridendo, mi dissero andiamo andiamo e mi trascinarono alla macchina.
Seppi più tardi che l’artefice di tutto era stato Stefano.
“Suonavano di merda!” fu la giustificazione, approvata all’unanimità. Nessuno fece parola con Alessandro della sua sparizione appresso alla ragazza popputa, la storia delle sue conquiste in terra straniera non se l’era bevuta nessuno.

La mattina seguente un urlo mi strappò ai dolci sogni in cui con un semplice gesto riuscivo a convincere l’assistente di Patrick De Pagaion a mostrarmi la paperella.
Saltai fuori dalla tenda, e capii che quel giorno in agenzia avrei dovuto scegliere la quarantenne di Zanzibar.
Gabriele giaceva davanti alla tenda, con le gambe all’interno e tutta quella roba che di solito dovrebbe stare dentro una gola, all’esterno. Qualcuno lo aveva sgozzato nella notte.
Pensai subito ai vicini tedeschi, ma non vidi scarponi intorno.
Alessandro! Forse Gabriele gli aveva fatto un accenno al manovròn e quello lo aveva ammazzato per proteggere il segreto di famiglia!
Non era nella tenda, probabilmente si era reso conto di ciò che aveva fatto ed era fuggito con la macchina di Gabri. Cazzo, eravamo anche bloccati lì!
“Cazzo, adesso dobbiamo dividere il conto soltanto in due!”, esclamò Stefano quando si rese conto dello stato delle cose.
Corremmo fino al parcheggio e trovammo Alessandro seduto in macchina al posto di guida.
Si era addormentato appena aveva messo in moto.
“Femmine!”, gli gridai svegliandolo, di soprassalto ed eccitato.
“Alle, hai ammazzato Gabriele!”, gli dissi sconvolto.
“No, non l’ho ammazzato io!”
“Ah, va bene. Andiamo a fare colazione?”

(continua)

Era il momento di montare la tenda, dividere il gruppo in due, e scegliermi un compagno per la notte che non cercasse di attentare alla mia intimità posteriore. Quest’ultimo timore era andato affievolendosi, conoscendo i ragazzi non li facevo più dei pervertiti, un po’ deragliati e stronzi si, ma secondo natura. Lasciai che a decidere fosse il caso, e mi trovai in tenda con Stefano.
Gabriele e Alessandro montarono in un attimo un prodigio, perfetta sotto ogni aspetto, angoli squadrati, verandina tesa come il panno verde del biliardo, doppi servizi, mansarda, dava un’impressione di solidità addirittura fastidiosa.
La nostra era più.. non so se squallida renda l’idea. La tenda di Stefano era piccola, storta, i picchetti non c’erano o se c’erano avrebbero fatto più bella figura a non esserci, per quanto erano malconci. La copertura esterna era soltanto appoggiata, e donava a tutta la struttura una precarietà che ricordava le favelas brasiliane. Completava il tutto la scelta tattica del posto, sopra una grossa radice, contro un rubinetto, dove ogni dieci minuti qualcuno veniva a lavare pentole, vestiti, bambini e cani.
Avremmo stonato anche in mezzo a Ground Zero, ma vicino alla tenda di Gabriele eravamo proprio la vergogna del campeggio. Non mi sarei certo lamentato, sono sempre stato uno che si adatta, e attualmente quella tenda era tutto ciò che potevo chiamare casa, lì come altrove. Proposi ai miei compagni di celebrare l’arrivo con un salto al lago, la spiaggia era proprio al di là della strada.
Non mi sentirono, la strada era proprio al di là della tenda, e con quel viavai di macchine non potevi neanche sentirti pensare, e ad aprire troppo la bocca te la ritrovavi piena di terra.

Cinque minuti dopo eravamo tutti stesi a prenderci gli ultimi scampoli di sole, sulla spiaggia più rachitica che avessi mai visto, ma stanchi come eravamo ci sembrava i Caraibi.
Davanti a noi, in mezzo al lago, un isolotto molto invitante ci occludeva la vista dell’altra sponda.
Gabriele, che aveva uno spirito intraprendente, o forse era solo più stronzo degli altri, mi lanciò la proposta:

“Perché non ci andiamo a nuoto? Saranno duecento metri, non di più”.
“E se mi morde uno squalo?”
“Non ci sono squali nei laghi”
“E se mi morde una tinca?”
“Cos’hai da perdere? Non hai detto che tutto quello che possiedi è nella borsa che hai in tenda?”

Aveva ragione, l’avevo detto, più o meno dopo che avevamo seminato la Polo targata Roma, ma non mi era sembrato che qualcuno mi avesse dato ascolto.

“Vorrei poterla rivedere, quella borsa.”

Però l’idea mi tentava, mi buttai in acqua e cominciai ad allontanarmi dalla riva con poderose bracciate. Gabriele mi seguiva a fatica, fermandosi ogni due o tre a prendere fiato. Non aveva il mio allenamento, il pivello.
In pochi minuti raggiunsi l’isolotto e mi sedetti ad aspettare il mio compagno, ostentando tutta la sfrontatezza di cui ero capace.
Cinque minuti dopo Gabriele approdò sulla spiaggia, e dovette sbracciarsi per avvisare quelli dall’altra parte che mi venissero a recuperare, ero svenuto.
Non fu il momento più elevato della vacanza, ma neanche il più basso, come scoprii l’indomani, quando risalimmo il canyon fino a Castellane. Avevamo saputo che delle agenzie del luogo organizzavano “avventurose discese fra le rapide del Verdon”, e non ci sembrava vero poterci confrontare con un’impresa no limits da pubblicità degli orologi.

Un losco organizzatore di divertimenti acquatici ci convinse a comprare un pacchetto comprendente discesa guidata in canoa del Verdon e trasbordo alla base, sita nei pressi. Non avevamo la minima idea di come si governasse una canoa, in quattro possedevamo l’esperienza sportiva di un focomelico, io ero quasi morto neanche ventiquattro ore prima, ma il gestore dell’agenzia era un buon venditore, o forse nessuno sapeva abbastanza bene il francese da ribattergli di non rompere le palle, fatto sta che ci ritrovammo di lì a due ore su un prato, in mezzo a dei rasta muscolosi e cannaioli che ci buttavano in mano delle mute da sub sgangherate, giubbetti di salvataggio che dovevano avere visto tempi migliori e caschetti certamente rubati in qualche cantiere. La nostra guida si rivelò essere un ometto tozzo, con una pancia che non lo classificava fra gli atleti della nazionale francese di canoa, piuttosto fra i partecipanti di una gita premio Weight Watchers. Gabriele propose di risalire in macchina e scappare, Stefano, ben più attaccato al denaro, lo indusse alla ragione a schiaffi. Alessandro non parlava già da un po’, osservava l’assistente del panzone, una ragazza magrina, che poco più in là indossava la muta sopra un fisico troppo proporzionato perché nessuno la notasse. Guardandomi in giro mi resi conto che l’avevano notata tutti, tranne Gabriele che continuava a lamentarsi.

La guida, che non parlava l’italiano, e quindi ci aveva presi per dei cecoslovacchi, ci spiegò a gesti che avremmo dovuto salire sul pulmino, che era quella cosa scassata laggiù in fondo che tutti avevamo preso per un cassonetto. Era un vecchio fiat 900 con le portiere aperte, non per far prima, ma perché proprio non si chiudevano. Le gomme non erano neanche più lisce, vertevano decisamente sul trasparente, i fari se li dovevano essere venduti da qualche mese, e adesso due orbite buie sfoggiavano il marroncino elegante della ruggine antica. Gabriele riprese a dire “raga, andiamocene!”, ma ormai era tardi, i rasta fumati ci avevano circondati, e non avevano l’aria di volerci lasciare liberi tanto facilmente. Avevano trovato le loro vittime, adesso si sarebbero divertiti.
Salimmo a bordo e fra preghiere, gemiti e qualche bestemmia sussurrata, la guida cicciona ci menò sani e salvi al torrente. Non era per niente confortante, avevamo percorso duecento metri su un rettilineo, ed eravamo riusciti a fare il pelo a due macchine che venivano in senso opposto.

Sul fiume c’era pieno di gente, canoisti come noi, gente col gommone da rafting, altri a nuoto, sembrava di essere in coda per il traghetto verso la Sardegna. Ora cominciava la vera difficoltà, nessuno di noi sapeva come tenere una pagaia in mano, le istruzioni del nostro accompagnatore si limitavano ad un “così vai, così no, se pagai di qua vai a sinistra, di qua a destra”. Ci sentivamo tutti alla vigilia di una tragedia.
Stefano e Gabriele occuparono la prima canoa, io e Alessandro la seconda, completavano il gruppo una coppia di italiani maldestri, degli olandesi con la paperella, la guida cicciona e la sua giovane e prosperosa assistente.
Una volta in acqua Alessandro vide la guida indossare il caschetto e salire sul suo monoposto segnato dalle infinite battaglie, e all’improvviso lo riconobbe.
“Cazzo, lo sai chi è quello??”
“La guida più grassa del mondo.. anche se a vederlo sulla canoa non sembra neanche tanto ciccione..”
“Quello è Patrick De Pagaion! Il campione universale di canoa!”
“Quello? Ma piantala!”. Non mi intendevo assolutamente di campioni di canoa, ma se quello era De Pagaion io ero Braccobaldo Bau.
“E’ lui ti dico! Vestito da beone estivo non l’avevo riconosciuto, ma adesso ne sono sicuro!”
Come se ci avesse sentito il pingue atleta partì a razzo fino al centro del torrente, quindi si voltò con una piroetta e ci fece segno di seguirlo. Stava proprio nel mezzo di una forte corrente, come se fosse seduto sul divano di casa sua, mentre noi facevamo il possibile per non speronarci uno con l’altro. Non sapevo se fosse davvero il leggendario De Pagaion, ma certamente in acqua ci sapeva fare.

Partimmo in fila indiana, Alessandro estasiato dalle manovre della guida, Stefano e Gabriele in un pericoloso zig zag che disturbava tutti gli equipaggi presenti in quel tratto di torrente, gli olandesi già annegati.
La discesa era meno peggio di quanto sembrasse, e non ci procurò grosse difficoltà. Non avevo tenuto conto, però, della tremenda narcolessia di Alessandro. All’improvviso, forse cullato dalla corrente, forse perché aveva passato tutta la notte a parlare, che alla fine i vicini di tenda tedeschi gli avevano gridato qualcosa di incomprensibile accompagnato da uno scarpone fin troppo eloquente, crollò addormentato, lasciando mezza canoa senza controllo. E proprio in vista di un passaggio veloce, in mezzo a scogli affilati come la lingua di mia sorella quando le presento una fidanzata. Sentivo l’orologio della mia vita ticchettare gli ultimi secondi, e mi trovai a chiedermi se non avessi fatto meglio ad andare a lavorare e ricomprarmi tutto l’arredamento. Va bene mollare tutto e andarsene, ma non intendevo all’altro mondo, porco giuda!
“Alessandro, svegliati cazzo! Siamo morti!”
Niente, lo stronzo dormiva quello che con tutta probabilità sarebbe stato il suo sonno eterno. Beato lui, io invece ero sveglio e avrei dovuto godermi tutti i particolari del trapasso di entrambi, che immaginavo parecchio dolorosi. E bagnati, e non erano neanche passate tre ore dai pasti! Se mi veniva una congestione?
“Se almeno avessi una copia di qualche rivista femminile da leggere, piomberei in catalessi in un paio di secondi e finirebbe tutto senza dolore!”, esclamai, e avvenne il miracolo. Alessandro si tirò su di colpo gridando “Femmine! Dove!”, e si rese conto della situazione.
“Opporcapaletta!”
“Si, siamo morti.”
“Aspetta, fai come faccio io!”, mi gridò, e si mise a compiere uno strano movimento con la sua pagaia, una cosa che non capii bene, di una semplicità estrema, ma nello stesso tempo complicatissima. Stupito abbozzai un gesto simile, certo di non poter mai ripetere una cosa così complessa, e mentre ero lì che mi preparavo all’urto con le rocce, incredibilmente il movimento di pagaia uscì naturale dalle mie mani, e la canoa riprese il controllo, superò l’ostacolo e scese dolcemente nell’acqua più tranquilla.
Alessandro si voltò e mi squadrò severo: “Non dire a nessuno quello che hai visto!”
Io non avevo la minima idea di cosa fosse successo, e anche la frase perentoria di Alessandro mi lasciò parecchio confuso.
“Scusa, cos’è successo?”
“Ti ho detto di non parlane più, basta!”
“Ma di cosa?”, cascavo proprio dalle nuvole.
“E va bene, hai vinto, ti racconterò tutto.”

(continua)

Partire. Mollare tutto e via, ultimamente il pensiero mi aveva girato per la testa a lungo, ma solo come una sensazione lieve, un rumore di fondo costante, al quale dopo un po’ non fai più caso. E così era stato, avevo finito per abituarmi a considerarlo un passatempo, mi ci baloccavo durante le giornate, mentre mi dibattevo fra i ritmi ossessivi del lavoro in ufficio e il caos della città intorno. Come l’uscita di sicurezza nei grandi magazzini, sai che c’è, la vedi tutti i giorni, e anche se nessuno la userà mai ti dà sollievo. È ben per quello che si chiama “di sicurezza”.
Io ogni tanto buttavo un occhio su questa via di fuga dalla realtà, quando questa diventava troppo pesante da sopportare. Dentro me sapevo che non sarei mai uscito di lì, la porta principale non ha allarmi che suonano, ma se un giorno avessi dovuto servirmene sapevo dov’era, e come si apriva: erano anni che ne studiavo la serratura.

Ci avevo fatto l’abitudine a quella vita, anche se non la sentivo mia, facevo finta di niente, ma non me l’ero scordato che ciò che volevo era qualcos’altro, che non aveva niente a che vedere con quella vita da prigioniero del consumismo. Non li avevo scordati lo studente che occupava l’istituto, il militare che si era fatto un mese di più per non essersi assoggettato alle regole della caserma, l’indisciplinato, l’anticonformista a tutti i costi, le avevo sempre rifiutate le loro regole, imposte da una società in cui non mi riconoscevo. E adesso cos’era accaduto? Come mi ero trasformato in quel personaggio finto, che vive fra l’ufficio e il monolocale, quella specie di Dilbert che abbassa la testa di fronte alle comodità di uno stipendio fisso? Mi ero messo il guinzaglio da solo, e seppure fingessi di non esserne responsabile, che mi piacesse addirittura, stavo tradendo un ideale, e sotto sotto ci stavo male. Avevo un sogno ricorrente: ero morto, in attesa di che si scegliesse la mia meta eterna, e mi trovavo a essere giudicato da un tribunale di fricchettoni, in zaino e treccine, e capivo che la sentenza sarebbe stata severa.

La sera che mi svuotarono l’appartamento fu proprio al culmine di un periodo nero. La ragazza che frequentavo mi aveva piantato dopo aver scoperto che ci provavo con un’altra, quella con cui ci provavo mi voleva solo come amico e ancora meglio come amico che non la cercasse mai, al lavoro andavo sempre più malvolentieri, e i risultati si vedevano, tanto che il direttore in persona mi aveva ripreso più di una volta.
Mi resi conto che qualcosa non andava già dalle scale, al posto della mia porta d’ingresso c’era un grosso occhio nero rettangolare. Non era così quando me n’ero andato, la mattina.
Dentro era un macello, tutti i cassetti aperti, ogni oggetto di valore, seppur modesto, era stato portato via, la televisione, lo stereo, l’intera collezione di compact disc e film, il microonde, il frigo. Ma come accidenti avevano fatto a portarsi via il frigo? Il divano e le poltrone, ma com’erano venuti, col furgone dei traslochi?
In quel momento entrò la vicina cicciona, credo si chiami Loprevite, Lopresbite, per me è sempre stata la Vicina Cicciona che incontravo sulle scale, quella che non si faceva mai i fatti suoi:
“Signor Pablo, ha ricevuto una lettera da sua madre!”, mi frugava nella cassetta della posta, “Signor Pablo, ho detto alla sua ragazza che è andato da quella signorina con l’accento lombardo”, raccontava di me alle persone sbagliate, “Signor Pablo, sono venuti gli operai dei traslochi, ma siccome non avevano le chiavi hanno dovuto smontare la porta”, ma la cosa peggiore, era completamente cretina!

Ero seduto per terra, a guardare l’angolo vuoto dove una volta stava il mio televisore, e a constatare come vi fosse pochissima differenza fra una televisione accesa e uno spazio vuoto e polveroso, quando il vecchio desiderio ritornò a trovarmi, ma questa volta non fu il passatempo ozioso dei pomeriggi di lavoro, mi investì la voglia di fuggire con una violenza che mi fece sudare lungo la spina dorsale. Ebbi un fremito, il pensiero delle responsabilità che istintivamente gli ponevo davanti si sbriciolava senza opporre la minima resistenza, mi appariva sempre più chiaro come in poche ore queste si fossero ridotte all’osso: non avevo una ragazza, il lavoro era in crisi, cosa mi legava ancora a quella città (a quella vita, mi chiesi con terrore)?
Non è che decisi, non potrei parlare di una decisione, presupporrebbe che mi fossi messo a pensare alla cosa, ma non fu così. Ero seduto per terra con la faccia spenta, e il momento dopo stavo buttando in una valigia, troppo brutta e vecchia perché potesse interessare i ladri, quelle poche cose rimaste che ancora rappresentassero una qualche utilità. I vestiti c’erano quasi tutti, tranne i completi, gli unici capi di un certo pregio, che non avrei comunque portato, li indossavo solo sul lavoro. Presi qualche maglietta, i jeans, raccolsi tutte le cose più comode e meno eleganti, vecchi maglioni, scarpe da tennis, un berretto di lana, la sciarpa, un giubbotto leggero e un giaccone invernale, non avevo la minima idea sulla destinazione del mio viaggio, l’importante era sparire.

Non mi presi neanche la briga di telefonare al lavoro per giustificare la mia assenza, né di fare una denuncia di furto. Salutai la vicina, ma solo perché mi si era intrufolata in casa per scoprire cosa fosse successo. Alla fine l’aveva capito anche lei..
“Ma ci sono stati i ladri?”
“No, signora, trasloco, vado a vivere all’estero.”
“Oh”, le sarebbero occorse altre due ore per cancellare l’ultimo pensiero che aveva avuto e tornare all’idea del principio, quella dell’impresa di traslochi.
“Ecco, se mi cerca qualcuno dica che possono trovarmi qui”, le misi in mano un biglietto che avevo trovato sul fondo della valigia, un ingresso a un museo in Finlandia, “Arrivederci”.
Non sarei andato in Finlandia. Non avevo una vera idea di quale sarebbe stata la mia meta, ma certo in Finlandia faceva freddo, e di freddo ne avevo abbastanza a casa mia, da ottobre a maggio, quando il sole è una cosa di cui hai sentito parlare. No, niente climi rigidi per Pablo, grazie.
Avevo sentito parlare di un’agenzia che ti organizza il viaggio in compagnia di altri, che come te hanno deciso di partire nello stesso giorno, mi ci recai per vedere chi stava scappando da una casa svaligiata e da una vita depredata. Non credevo che avrei trovato altri casi analoghi, ma magari saltava fuori qualche idea interessante.
La signorina col naso a punta e il sorriso accattivante mi presentò due opportunità per l’indomani:

una single quarantenne in partenza per Zanzibar, due settimane in hotel tre stelle;
tre ragazzi nel Verdon, campeggio da stabilire, programma incerto quattro giorni, poi Paesi Baschi.

“Niente per oggi? Neanche se mi sbrigo? Guardi, ho già la valigia in mano.”
La ragazza allargò le braccia, “se mi invita posso proporle un cinema sotto casa mia”.
Non mi sarebbe dispiaciuto, in un altro momento, ma volevo scappare da ogni possibile responsabilità, la presi per una battuta.
Ochei, sarei partito l’indomani coi tre ragazzi, mi sembrava che rispondessero abbastanza alle mie scarse esigenze organizzative.

Il mattino seguente mi presentai all’appuntamento con gli sconosciuti, e cominciammo le presentazioni.
Gabriele, uno spilungone con la faccia da checca, che quando si presentò con la sua vocina stridula rafforzò le mie convinzioni riguardo le sue attitudini sessuali. Col cavolo che avrei diviso la tenda con lui! Poi c’era Stefano, un biondo parecchio ambiguo, dava l’idea di quelli che amano legare il partner al letto e frustarlo, vestiti da nazista. Gli occhiali che indossava non riuscivano a nascondere il suo aspetto da pervertito, credo non ci sarebbe riuscito neanche con un costume da scolaretta.
Quando cercai di immaginarlo vestito da scolaretta fu anche peggio. Forse era l’amante di Gabriele, forse ero finito in una gita di culi. Avrei fatto meglio ad andare con la quarantenne, magari ne prendevo anche un po’. Lo studiai ancora un attimo, lui continuava a fissarmi con l’espressione distaccata, più che nazista–prigioniero sembrava un rapporto entomologo–insetto. Rabbrividii con discrezione.
L’ultimo elemento si chiamava Alessandro, e non sembrava affatto minaccioso, il classico tipo tranquillo che vedi vomitare birra alle feste paesane. Probabilmente era il passivo dei tre. Bene, avevo trovato il mio compagno di tenda, quello con cui avrei anche potuto dormire su un fianco senza dovermi svegliare all’improvviso con una mano sul culo.
Saliti in macchina mi ci sedetti accanto, sui sedili posteriori, e bastarono un paio di chilometri per farmi rivalutare da capo la dislocazione nelle tende: gli puzzavano i piedi da paura! Un odore che ti prendeva alla gola, roba da far lacrimare gli occhi. Se Stefano era il nazista e Gabriele il prigioniero omosessuale, Alessandro in questo gioco del lager faceva certamente il bidone di gas tossico!
Aprii il finestrino di un dito, cercando di non dare a vedere che soffrivo.
“Minchia Alle! Come ti puzzano i piedi!” strillò Gabriele con la sua vocina da castrato, e spalancò il finestrino, subito imitato da Stefano e da me.
“Vabbè, scusate, ma le calze con questo caldo!”
“Hai mai pensato di farteli ingessare? Magari nella grafite..”
“No, secondo me dovresti farteli tagliare. Pensaci, non è così brutta la vita su una sedia a rotelle, avresti anche lo sconto al cinema.”
“Ma sei sicuro? Perché se è vero me li faccio tagliare io!”

Su questi discorsi impegnati l’allegra comitiva si mise in marcia, e in un paio d’ore raggiungemmo il confine di stato, salutati da un tripudio di sms delle varie compagnie telefoniche, che ci annunciavano che chiamare in Italia ci sarebbe costato come un trapianto di cornea. Poco male, non avrei saputo chi chiamare, in ogni caso. Avevo voglia di sparire, non di prendermi una vacanza, e non mi sarei di certo fatto rintracciare da un cellulare. Un’idea feroce, ma irresistibile mi trapassò il cranio, e scagliai l’apparecchio dal finestrino, fra gli sguardi stupefatti dei miei compagni di viaggio.

“Era un modello superato, lo volevo cambiare!” dissi ridendo.

In quel momento ci si affiancò una Polo targata Roma, con una donna seduta al posto del passeggero che si teneva un occhio, la faccia piena di sangue, ci fece segno di accostare.
Aveva il mio cellulare in mano, immaginai in fretta cosa poteva volere, e anche i miei soci ci misero pochissimo a capirlo. Adesso avevo una ragione in più per sparire! Gabriele diede di gas, il motore dell’Alfa era più potente, e riuscimmo a seminarla.

La tensione si stemperò piano piano, fra le centinaia di caselli di cui è costellata l’autostrada francese, neanche ce li avessero spruzzati sopra, e le imitazioni di Rain Man proposte da Alessandro ogni volta che si addormentava. Quel ragazzo era incredibile, era lì che ti parlava e di colpo plop, piegava la testa su un fianco, spalancava la bocca e cadeva in uno stato letargico. Gli altri mi spiegarono che soffriva di una curiosa forma di narcolessia che lo colpiva solo quando era su un mezzo, auto o treno che fosse. Non era pericoloso, a patto che non guidasse, chiaro.

“Devi vederlo sull’autobus, quando crolla addosso alle vecchiette! È l’incubo del ventisette barrato!”

Poco prima di mezzogiorno trovammo la nostra uscita, Le Muy, e cercammo sui nostri incartamenti la direzione da prendere per i paesi del Verdon. Sarebbe stato molto più semplice con una cartina stradale, ma grazie alla memoria del Ghiro dai Piedi Sudati, che aveva lasciato tutto l’occorrente in camera sua sul comodino, tutto ciò che avevamo erano dei racconti di viaggio di escursionisti più organizzati di noi che Stefano aveva scaricato da internet. Molto liriche, ma in quel momento perfettamente inutili. Riuscimmo a sbagliare strada quattro volte in cinquecento metri, un record che neanche un pullman di ciechi. Spulciando qua e là stabilimmo una specie di percorso che avrebbe dovuto portarci a Draguignan, e da lì al lago di St. Croix, la nostra meta.
Sotto la freccia per Draguignan ce n’era una che indicava Trans, cosa che fece esclamare a Gabriele, sempre col suo falsetto odioso, “Guardate come sono organizzati in questo paese, hanno le indicazioni anche per andare a zoccole!”.

A Draguignan ci imbattemmo in un ufficio del turismo, e ci sembrò una buona idea fermarci a recuperare delle cartine della zona, sempre maledicendo Alessandro e la sua memoria fallace.

“Adesso devi riscattarti” lo minacciò Stefano “Tu sei quello che parla francese meglio di tutti, vai al banco e chiedi indicazioni!”

Anche se toccava a lui prendere contatto con gli autoctoni entrammo tutti, si sa che gli italiani all’estero si spostano in branco; e appena entrati nel locale manifestammo un’altra caratteristica del Nostro Fiero Popolo:
avevo adocchiato una signorina molto carina dietro il banco, e con un balzo felino precedetti Alessandro, ma di strettissima misura, che anche lui in quanto a vista rapace non scherzava, e finimmo per sbattere contro il banco, sotto gli sguardi impietosi di tutti i presenti.
«Bonjour! Nous avons besoin de renseignements sur le Verdon», o qualcosa di simile. In realtà in due non riuscivamo a produrre francese sufficiente per un tema di seconda elementare, ma la ragazza aveva splendidi occhi azzurri, che colmavano le nostre lacune e ci facevano sentire due novelli Verlaine, solo un po’ più allegri e meno culattoni.
Una vecchia che sembrava uscita da un documentario sulle mummie ci apostrofò in perfetto italiano: “Posso esservi d’aiuto?”. “No, no, siamo a posto, grazie!”
Ormoni 1 – Praticità 0.

Grazie alle indicazioni di quell’angelo riuscimmo a raggiungere il lago di St.Croix, e girammo i campeggi dei dintorni per trovare quello col miglior rapporto qualità/prezzo/vicinanza al lago/figa. Poi, dato che nessuno aveva i requisiti richiesti, quello col miglior rapporto prezzo/vicinanza al lago/figa, quindi a scalare prezzo/figa, e quando ci rendemmo conto che le belle ragazze alloggiavano tutte in albergo ripiegammo su un modesto camping sulle rive del lago, dalle parti di Salles Sur Verdon.
Oddio, prima di vedere l’acqua dovevamo traversare una piana assolata con due rami secchi piantati in terra che il proprietario dello stabilimento chiamava “il boschetto”, quindi una strada a tre corsie perennemente affollata di automobili, camion, biciclette, tutti uniti dalla caratteristica di tirare su un casino di polvere e fare un sacco di rumore, e infine una giungla nera, ritrovo di tutti i maniaci del sud della Francia.

(continua)