4. Dove l’estinzione appare inevitabile

Esistono diverse vie d’accesso alla terrazza del MUCEM, a seconda di ciò che vi spinge lì.
Un turista interessato alla mostra su Picasso può munirsi di biglietto ed entrare dal pianterreno, e solo in un secondo tempo decidere di terminare la visita salendo all’ultimo piano per rinfrescarsi al bar con una bibita che costa più del biglietto stesso, un po’ per via del già citato paradosso francese e un po’ perché sono dei ladri.
Un free climber si arrampicherebbe lungo la facciata, ma con un certo scazzo, quella è gente abituata a imprese ben più ardue, salirebbe tenendosi con una mano e facendosi foto al cellulare con l’altra.
Un commando di teste di cuoio si calerebbe dall’elicottero dopo aver cosparso la terrazza di fumogeni, quindi ucciderebbe tutti i terroristi, e prima di dichiarare il tetto sicuro missione compiuta andrebbe a saccheggiare il bar, più per rappresaglia che per necessità, che sotto sotto questa truffa delle bibite non va giù neanche ai francesi più patriottici.

Se stai entrando nell’edificio per rivedere la tua ex dopo mesi dal vostro ultimo incontro in cui le hai dato, senza troppi giri di parole, della troia opportunista, la passerella lunga e nera che collega museo e forte diventa una scelta obbligata:
oltre ad essere un indiscutibile oggetto d’arte ti offre un panorama inedito sulla città, un bellissimo scorcio del porto e della basilica sulla collina, e soprattutto ti fa sentire come un dannato alle porte dell’inferno molto meglio di come farebbe l’anonimo ingresso principale.
La griglia che riveste la facciata si alza oltre il parapetto e si ripiega all’interno, diventando una specie di tettoia, e l’effetto che dà al visitatore sospeso sulla passerella è quello di una gigantesca bocca irta di zanne pronta a dilaniarlo.
Il Louvre, per esempio, sembra essere erbivoro. Forse è per quello che attira più visitatori.

Gabriele si guardò intorno, non c’erano facce familiari. Turisti anche lì, che entravano nel museo, leggevano i cartelloni con la storia della costruzione, fotografavano il castello d’If attraverso la griglia metallica, si allontanavano in fretta dal bar dopo aver chiesto un prezzo.
Si stese su una chaise longue e guardò il castello anche lui, e anche lui si tenne la sete, nonostante la gola fosse diventata sabbia, chissà perché.

Il telefono vibrò discretamente, non riuscì a imitarlo e scattò in piedi ruotando la testa come la lampada del faro.

Naïma si era tagliata i capelli molto corti, indossava un abito formale che tuttavia non riusciva a renderla meno desiderabile: la camicia abbottonata fino in cima gli faceva muovere le dita nelle tasche. Stava benissimo. Maledizione, era splendida.
Gli venne incontro con un sorriso capace di disinnescare bombe, avrebbe voluto abbracciarla e basta, abbracciarla e abbandonarsi a quello che sarebbe venuto: qualunque cosa fosse sarebbe stato bellissimo e definitivo. Sarebbe stato così semplice.

Restò immobile, incapace di sciogliere l’espressione tesa che aveva in volto, e bastò quello perché anche lei saltasse giù dal quadretto dell’utopia, per atterrare nel solito vecchio corridoio gelido pieno di vetri rotti.

Sul terreno della battaglia i due eserciti si fronteggiavano in un silenzio carico di morte. I primi a rompere la tregua furono gli arcieri, che fecero piovere sul nemico i loro saluti. Molte sicurezze caddero sotto quella prima ondata, e i loro compagni giurarono vendetta con le mani già imbrattate di sangue. Non ci sarebbe stata pietà, nessuno la meritava.
Uscirono i cavalieri, e abbracciarono l’esercito avversario con le spade in pugno. Gli altri schierarono picche e scudi. Le frasi di circostanza calpestavano le prime file e venivano trafitte da risposte appuntite sulla fiamma. Ritirarsi non era più possibile, era uccidere o essere uccisi.
Finalmente l’assalto della fanteria ruppe gli ultimi indugi, adesso non c’erano più schemi, solo sopravvivenza, brutale efficacia, parole scagliate per distruggere.

Sarebbe stato così semplice.

Per quanto cercassero di evitarlo sentivano che ogni parola li faceva scivolare verso i vecchi discorsi. Anche le frasi più innocue nascondevano la miccia che poteva dar vita all’incendio, i silenzi erano carichi di tensione che demoliva invece di costruire.
Non era ancora il momento di seppellire le incomprensioni, avrebbero dovuto accorgersene prima.
Si arresero all’evidenza.

“Stai ancora con lui?”, iniziò Gabriele.

Naïma lo colpì con un’occhiata bipenne capace di sfondare toraci.

“Scusa, credevo fosse una domanda legittima”
“Non lo è, e lo sai benissimo”
“Quindi ci sono argomenti da evitare? Se devo stare attento a quello che dico è meglio saperlo prima”
“Perché sei venuto fin qui? Cosa vuoi ancora da me?”

La domanda più semplice del mondo è quella a cui non sai rispondere.

“Perché mi manchi” sarebbe l’unica risposta, ma non risolverebbe più niente. Metterebbe solo chi la pronuncia di fronte all’ennesima porta chiusa, e i fallimenti pesano, i buchi nella pancia ci mettono sempre di più a rimarginarsi, e allora scusa ma è meglio il rancore che mi tiene dalla parte del più forte, se non altro mi permette di difendermi, di non sentirmi sconfitto. È orgoglio, certo, ma meglio quello, meglio soffrire in due che da solo.
Quello che ci estinguerà non saranno le bombe, ma le sovrastrutture.

“Mi spiace averti detto quelle cose, l’ultima volta, ma ero ferito. Mi hai fatto molto male, sei stata disonesta con me.”
“Non ci credo che sei venuto fino a Marsiglia solo per litigare ancora, dopo tutto questo tempo! Gabri, è finita, sto con un altro, fattene una ragione! Vai avanti!”
“Quindi stai ancora con lui. Beh, certo, quando ti ricapita un’occasione del genere? Va tenuta stretta. Mi domando se lo ami davvero. Mi domando se hai mai amato me, davvero.”
“Se è questa l’opinione che hai di me non capisco perché sei venuto a cercarmi.”
“Forse volevo sapere perché ci siamo lasciati.”

“Possibile che dopo tutto questo tempo tu non l’abbia ancora capito? Esiste ancora solo quello che provi tu? Come stavo io non te lo sei mai chiesto, eppure te l’ho spiegato in tutti i modi. Ti ho detto che stavo male. Ti ho detto che mi stavi perdendo, e la tua risposta è stata va bene. Va bene? Fermami, cazzo! Non lo voglio fare, sono innamorata, ma non mi vedi? Ho bisogno che tu ci sia davvero vicino a me, non mi basta una sagoma di cartone! Mi sono umiliata, ti ho implorato di considerarmi, e tu ti sei girato di là! Cos’avrei dovuto fare, restare lì a elemosinare attenzione? Umiliarmi un’altra volta?”

“Ti ho detto di fare la scelta migliore per te, non significava disinteresse. Ho messo i tuoi bisogni prima dei miei, perché non lo vuoi capire?”

“Hai messo te stesso prima di tutto! Che è il modo in cui sono andate sempre le cose fra noi! Tu, tu, ancora tu e poi se avanzava un po’ di tempo, magari io. Lo sai che la sera tornavo a casa e piangevo? Mi sentivo sola. Avevo passato tutta la sera con te, e mi sentivo sola.”

“E adesso sei felice?”

“Neanche questo sei stato capace di capire. Hai visto l’ingiustizia dove c’era un tentativo di salvarsi. Ti sei sentito tradito, ma perché? Tu non c’eri più, non c’eri mai stato, che diritto avevi di protestare?
Ti sei sentito la vittima di un sopruso, ma cos’è che ti ho portato via? Un po’ di tempo? Ti ho dato tutto quello che avevo e l’hai trattato come spazzatura. Mi hai fatto sentire inutile, addirittura disprezzata. Mi sono detta che era colpa mia perché non riuscivo a essere abbastanza bella o interessante per te.
Adesso ho qualcuno che me lo ricorda ogni giorno, glielo leggo negli occhi ogni volta che mi guarda, e io ci vivo di quelle parole non dette, di quelle attenzioni.
Non lo capisci, io non mi basto da sola come fai tu. Io certe volte faccio fatica a reggere il mio sguardo nello specchio, se neanche negli occhi dell’uomo che amo riesco a trovarmi dei pregi non è più vita.”

“Tu vuoi vedere solo quello che ti fa comodo, Naïma. Hai voluto tutto e subito e neanche ti è bastato. Ho passato mesi a discutere, a metterti davanti le cose che facevo per te, e tu ti voltavi di là e ripetevi che non c’ero. Non c’ero mai, neanche quando ti stavo davanti. Quando sei partita mi sono sentito liberato di un peso, ma non eri tu, erano tutte le tue paure idiote che mi pesavano. Era il non riuscire a zittirle. Mi sono confrontato per tutto il tempo con loro invece che con te, ripetendomi che prima o poi se ne sarebbero andate, e invece erano sempre lì, e alla fine ci hanno schiacciato. Loro e il tuo egoismo del cazzo.”

“Certo, alla fine è comunque colpa mia. Io sono l’egoista, l’opportunista, l’insensibile. Tu poverino sei un santo, puoi trattare gli altri come oggetti, ma la tua noncuranza è buona, non va toccata. Tutto quello che fai tu è lecito, anche se mi scava dentro e mi ammazza un po’ alla volta, è un gesto d’amore, bisogna accettarlo. Sei tu l’egoista, non io. Sei tu l’insensibile.”

“Io sono rimasto solo quando mi hai lasciato, e sono venuto qui per parlarti. Non mi sono trovato un’altra persona dopo due giorni. Non ho pescato nel mazzo il più ricco di tutti, quello che mi serviva nel lavoro. Sono rimasto dov’ero a leccarmi le ferite, io.”

“Tu non vedi altro che quello, non riesci ad andare oltre. Mi dispiace, Gabriele, è inutile continuare a parlare, ci facciamo del male e basta. Adesso devo tornare al lavoro. Per favore, non cercarmi più.”

Naïma sparì dalla terrazza come una visione: un attimo prima era lì, con gli occhi lucidi e i muscoli tesi a non esplodere, quello dopo c’era solo lui a confrontarsi col suo ricordo. Come a casa, come sempre. Era andato fin lì per portare a spasso il suo fantasma, adesso lo avrebbe semplicemente riportato indietro e non sarebbe cambiato niente, non lo aveva rimpicciolito, non lo aveva reso più innocuo. Lo aveva solo portato a fare una gita.

Un paio d’ore più tardi, seduto sul pullman per Genova, Gabriele cercava di ricostruire la conversazione, di osservarla dal punto di vista di lei. Quando gli sembrava di esserci riuscito saltava fuori qualcosa, una frase detta chissà quando, che tirava giù tutta la struttura e lo lasciava a masticare altro veleno. Non riusciva a chiudere. Doveva capire dov’era l’errore, doveva capire tutto, le ragioni di lei, le sue, chi aveva sbagliato cosa. C’erano delle responsabilità, era in un tribunale dove interpretava accusa, difesa e giuria, per forza che non ci stava capendo più niente. Un momento si dava ragione e un altro torto, e un altro ancora voleva solo uscire e andarsene, al limite anche farsi sbattere in prigione e scontare la sua pena, bastava finirla. Era spossato, ma non cedeva. Aveva bisogno di arrivare a una risposta, anche se non ci sarebbe stato più nessuno a cui sottoporla. Naïma era il passato, adesso più di prima, eppure continuava a considerarla parte del disegno. Immaginava di arrivare finalmente a una soluzione, di tornare da lei come un uomo nuovo ed essere finalmente la persona che lei desiderava.
Non erano passate neanche due ore e si era già scordato tutto quello che era appena successo. stava ricominciando da capo, come se vivesse in un mondo che aveva perso ogni contatto con quello reale.
Era davvero ripiegato su sé stesso, ignaro dei bisogni di chi aveva vicino, e quando non vedi altro che il tuo ego come puoi capire chi ti sta intorno, o confrontarti con un punto di vista diverso dal tuo? Come lo capisci che stai sbagliando, se è il tuo stesso errore a impedirtelo?

Se non ci estingueranno le sovrastrutture lo faranno le teste di cazzo.

3. Dove ci si pongono interrogativi sul prezzo delle bibite in Francia e su altre cose non meno importanti

Le strade erano deserte, non un bar, una vetrina illuminata. Tolto l’assembramento intorno al Vieux Port sembrava che il centro fosse stato evacuato.
In Rue Pollak si fece attirare da un po’ di movimento in cima alla strada. C’era un locale frequentato da beoni eterogenei, di fronte alla ciucca crolla ogni pregiudizio. Un nero gridava qualcosa a una donna, lei gli rispondeva allo stesso volume, tutto nell’indifferenza delle finestre affacciate su quel tratto di strada.
Non si fermò, aveva bevuto abbastanza e voleva solo sparire sotto una coperta e smettere di pensare.

In Place du Marché des Capucins la strada era sbarrata da pile di cassette per la frutta. Era la piazza del mercato, i banchi erano stati smantellati, ma qualcuno esponeva ancora la merce, e gli esercizi intorno sembravano in piena attività. Pasticcerie arabe, alimentari halal, un minimarket.
Gli venne fame, nella pasticceria i dolci erano accatastati in disordine come scaricati da una ruspa. Tutta quella confusione alimentare gli rendeva difficile la scelta. Si fece consigliare dal proprietario, un uomo basso con una lunga barba.

“Ti piacciono le mandorle?”, fece quello, e senza attendere risposta prese un pezzo di carta e pescò una specie di cannolo da uno dei mucchi.

Bene, per la colazione dell’indomani aveva trovato il posto giusto, pensò Gabriele tornando verso l’albergo, e bastò quella piccola determinazione per fargli ritrovare abbastanza buonumore da restare a galla.

La distesa di tavolini davanti all’hotel adesso era occupata da uomini in caffetano impegnati in chissà quale discussione molto concitata. Si sentivano anche dalla camera nonostante le finestre chiuse, e non smisero di salmodiare fin oltre le due. Il resto della notte se lo prese un bambino disperato, da qualche parte nell’edificio.

In quello stesso momento Naïma era in una casa che lui non avrebbe mai visto, probabilmente stava dormendo accanto a un uomo che lui non avrebbe mai voluto vedere. Avevano costruito un loro linguaggio comune che a Gabriele sarebbe risultato estraneo, i legami della sua storia precedente si erano sciolti, ormai per lei era poco meno che un estraneo. Era questo pensiero a non lasciarlo dormire, ben più degli strilli che echeggiavano in corridoio e del brusìo giù in strada.
Da sei mesi stava inseguendo un fantasma, manteneva una conversazione con un interlocutore che aveva la faccia di Naïma, ma di fatto era sempre lui. Se avesse dedicato i suoi pensieri a una pianta sarebbe stata la medesima cosa. E nonostante ne fosse consapevole non riusciva a tirarsene via.
Aveva ragione Pierre, doveva vederla e liberarsi di quel peso. Per sé stesso, non per ottenere qualcosa: Naïma era andata, l’aveva persa, ma per andare avanti doveva fare pace col suo ricordo, o non se ne sarebbe liberato mai.

Fece finta di dormire per ingannare il mattino, ma quello non si fece fregare e arrivò prima che potesse riposarsi.

Il mercato stava aprendo, in tutto il quartiere di Belsunce i commercianti allestivano le botteghe. Se volevi comprare un tajine, una wok, un piatto disegnato o delle babbucce colorate non avevi che da entrare in un negozio a caso e allungare una mano.
I banchi di frutta erano rigogliosi, facevano venir voglia di diventare vegani e vivere di macedonia, ma quello che cercava in quel momento era caffè. Forte. Amaro. Voleva un bar, e quella maledetta città ne sembrava sprovvista.

Superò il porto, non gli andava di sedersi ancora in quei posti fighetti. Aveva in mente un tavolino poco frequentato in cui farsi servire uno di quei deliziosi croissant caldi e una baguette con burro e marmellata con cui accompagnare il caffè.
In Place de Lenche ne trovò uno già aperto e si mangiò il fabbisogno energetico della città di Pescara.
Il croissant era ottimo, e meno male, perché quel brodo nero nella tazzina aveva un sapore che lo offendeva come essere umano.
Se vuoi vendere acqua torbida vagamente aromatizzata nessuno te lo vieta, il mercato è libero, ma almeno sii onesto coi tuoi clienti e chiamala in un altro modo. Chiamala Noncaffè, Mancoperilcazzocaffè, Eaudepalude.

Erano le nove, aveva ancora del tempo per sé, e anche per avvisare Naïma.
Il pensiero gli fece contrarre lo stomaco, e visto quello che ci stava versando dentro fu un bene.

“Ma toddetto che se va de la! Nun la sai legge staccartina!”

Gli italiani all’estero sono rumorosi, i romani sono i più rumorosi di tutti. E lui ne aveva un paio alle spalle. Non è che volesse aiutare dei compatrioti in difficoltà, ma quel berciare gli stava guastando la colazione.

“Cosa state cercando?”, chiese.
“Oh! Uno che ce capisce! Sia ringrazziata lamadonna!”, esultò la donna. Era bassa, secca e rugosa. Ricordava un cagnolino con gli occhi a palla, disidratato. Nervosa, puntava le dita verso il bar e la piazza e la strada e il porto e diceva cose a vanvera senza rispondere alla domanda, peraltro circostanziata, e si fermava e rimbrottava il marito.
Lui era molto più alto, indossava un cappellino da baseball con scritto Ischia e teneva una videocamera appesa al polso di cui sembrava essersi dimenticato. Ciondolava come sotto l’effetto di un oppiaceo, e come dargli torto? Stordirsi di narcotici doveva essere l’unico modo legale per gestire una moglie come quella.
Era la classica coppia in vacanza con cui ti andrebbe di socializzare tenendo in mano una scure.

“Questo prima che chiede ninformazzione stamo freschi! Cercamo a cattedrale!”
“In fondo alla via”, tagliò corto Gabriele, indicando il cartello Rue de la Cathédrale.
“Ma ce stava pure a scritta! Vedi a sapè le lingue!”

Già, Marsiglia ha anche una cattedrale, che lui nel suo trip neoromantico postatomico si era dimenticato di considerare. Doveva trovarsi a un paio di minuti da lì, tanto valeva darci un’occhiata.

“Non dovevi chiamare qualcuno, prima?”, gli chiese a tradimento la sua coscienza.
“Vabbè, dopo lo faccio”, le rispose in una scrollata di spalle non troppo immaginaria.

La vide spuntare appena imboccato il vicolo, ma era una falsa prospettiva: l’edificio stava lontano dalle case, slegato dal contesto urbano. Era grande, non bella. Neobizantina, qualunque cosa volesse dire. Per lui era solo un’altra grossa chiesa a righe con la cupolona e i campanili in facciata, e in mezzo a quella distesa spoglia sembrava un’astronave in sosta. I turisti venivano scaricati dai pullman e intruppati al suo interno in ranghi stretti. Da un portone laterale atrettanti plotoni armati di macchina fotografica e selfie stick venivano espulsi e si dirigevano sotto il sole verso il grosso cubo nero che dominava l’estremità opposta di quel piazzale metafisico. Il MUCEM.

“Adesso però la devi chiamare”
“Magari prima ci faccio un giro sotto per vedere se è aperto”

Era una costruzione splendida. Sembrava una scatola nera intarsiata da un gigante, e si stagliava sul bianco della banchina come un adesivo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, era inquietante come una visione del futuro. Per quanto lo riguardava era anche dello stesso colore.

“Apre fra un’ora, chiamala”
“Magari faccio due passi qui sotto e la incontro che sta andando a lavorare”

Non la incontrò lì sotto e neanche un po’ più in là. Si avvicinò all’ingresso dei dipendenti con la cautela di un artificiere, ma non riuscì a fermarsi abbastanza per guardare oltre la porta a vetri, gli sembrava di essere nudo, pitturato di rosso, con una freccia luminosa a gravitargli sopra la testa e che appena avesse rallentato e allungato il collo sarebbe risuonata una sirena e tutti l’avrebbero visto e additato. È lui! È venuto a vedere Naïma!

Il resto della fantasia proseguiva con insulti nella sua direzione da parte di tutta Marsiglia compreso il sindaco, che lo raggiungeva seguito da una scorta in abito da parata e gli consegnava su un cuscino la chiave di un’altra città con l’invito ad andarsene immediatamente.

Tirò dritto a passo spedito, rosso in viso e svoltò oltre l’angolo. Era il retro del museo, non c’era niente lì tranne uno specchio d’acqua condiviso col forte Saint-Jean che stava di fronte. Si chiese se fosse permesso stare lì, se fosse arrivato un guardiano a scacciarlo avrebbe dovuto buttarsi in acqua e scappare a nuoto. Cosa che peraltro gli avrebbe permesso di non passare più davanti all’entrata principale.
Si obbligò a rallentare il respiro e i passi, uscì dall’altra parte e andò a sedersi su una panchina davanti al mare. Le mura del castello d’If si indovinavano sull’isolotto di fronte, confuse con la desolazione della spiaggia rocciosa. Il mare era dello stesso colore del cielo, invitava a tuffarsi. Se invece di quel pellegrinaggio si fosse spinto fino al Parc des Calanques avrebbe respirato aria migliore e ci sarebbe scappato anche una nuotata fra gli scogli. Ormai era tardi, il battello ci metteva troppo tempo, rischiava di perdere il pullman. Niente da fare, era lì e doveva fare quello per cui era venuto, parlare a Naïma e chiederle.. scusa? Torniamo insieme? Sei felice? Stai ancora con quel tizio? Cosa le voleva chiedere davvero? Il sole gli sovraesponeva i pensieri, eliminava tutte le sfumature. Riusciva a ragionare solo per assoluti. E gli faceva venire sete. Tornò sulla strada, e sotto i portici del porto vecchio prese una bibita gassata che costava come un Veuve Clicquot.
Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli il paradosso tutto francese per cui le bibite costano più care della birra e per una bottiglietta d’acqua devi prima fermarti al bancomat.

Lo schermo del telefono lo fissava per un po’, poi si spegneva e lui lo stuzzicava un’altra volta. Non voleva essere lasciato solo nel momento delle decisioni importanti, ma poi non decideva niente e restavano lì a sostenere una gara di sguardi in cui l’unica sconfitta era la batteria, già al 34%.

“Sono a Marsiglia. Ti va un caffè?”

Tutta la mattina a pensarci e se ne veniva fuori col messaggio più laconico della storia. Aveva dovuto prendersi di sorpresa o non avrebbe mai scritto niente, sarebbe rimasto lì ad aspettare finché non fosse diventato troppo tardi per fare qualunque cosa. Aveva cominciato a scrivere perché e se fosse il caso e a risalire fino alle ragioni in cui, poi si era sentito ridicolo e aveva scritto la cosa più diretta possibile. Pure troppo.
Riprese il gioco di sguardi con lo schermo, in attesa che la spunta raddoppiasse e si colorasse di blu.

“Prende qualcos’altro?”, lo interruppe la cameriera.
“Sì, prendo un..”
DING, fece il telefono.
Argh, disse lui.
“Niente”, aggiunse, e se ne andò col cuore pieno di elio.

La risposta era divisa in qualcosa come sedici messaggi: Naïma apparteneva a quella categoria di persone che non riescono a sostenere il peso di una finestra carica di parole, e ogni due o tre devono spedire. Quando stavano insieme il telefono gli vibrava in tasca per minuti interi ogni volta che dovevano organizzarsi per uscire. Se litigavano lo stillicidio durava ore, una volta aveva dovuto spegnere il telefono per non scaricarlo.

Era sorpresa che fosse lì. Ma non sembrava irritata. E si diceva disposta a vederlo. Appena possibile. Quando finiva di lavorare. Verso le cinque. Che bella sorpresa. Ma cosa ci faceva a Marsiglia.

Le rispose che era a cinque minuti dal suo posto di lavoro e che avrebbero potuto vedersi al bar del museo, sulla terrazza. Dopo non poteva, aveva il viaggio di ritorno e doveva ancora raggiungere la periferia orrenda senza perdersi né venire sequestrato dalle bande criminali che scorrazzano da quelle parti sui loro veicoli truccati e privi di tagliando assicurativo.

Disse che andava bene, ma poteva dedicargli solo poco tempo, mentre le sarebbe piaciuto andare a cena, era tanto che non si vedevano, chissà quante cose avrebbero avuto da dirsi. Lo disse in dieci messaggi.

(continua)

  1. Dove si piange la scomparsa di Jean-Claude Izzo e non solo la sua

Se questo fosse un romanzo di Jean-Claude Izzo comincerebbe con un uomo appena arrivato in città..

Il flixbus lo scaricò accanto a un campo da pallone polveroso e senza porte, fra capannoni deserti e palazzi sdentati con una finestra intera per piano.
Appena dietro il tetto in lamiera del lungo edificio a bordo strada si vedeva spuntare, lucida come un blocco di granito, la torre CMA, simbolo del rinnovamento che si stava mangiando la città come un virus. Il Panier, le case intorno alla cattedrale, il vecchio porto: Marsiglia stava diventando una piazza di cemento per diportisti e uomini di commercio. Più sicura e proiettata verso il futuro, era il motto. Il prezzo da pagare non era alto, soltanto l’anima.

E tu, Gabriele Di Raimondo, a quale voce darai ascolto? Scenderai al porto e raggiungerai il centro accompagnato dalle lusinghe dei cantieri, dal ronzio soporifero della nuova tramvia sopraelevata e dal fruscìo dei soldi che corrono da una mano all’altra? O abbraccerai il degrado della periferia, delle utilitarie ammaccate, dei negozi di magliette di plastica, degli alimentari halal, fino a trovare la strada che passa sotto l’Arco di Trionfo Delle Vittorie Generiche e diventa Canebière, e porto, e Marsiglia, quella che hai conosciuto sui libri e nelle parole di lei?

C’è sempre una lei nei romanzi di Izzo, e ce n’è una anche qui. Naïma.

Si erano conosciuti a Genova che era quasi un anno. Lei seguiva un master in architettura in un laboratorio prestigioso sulle colline fuori città, lui seguiva le serie tv americane sul computer dell’hotel in cui faceva il portiere, durante i turni di notte. Si erano trovati pascolando sui gradini di una chiesa nel centro storico, insieme ad altri avventori di un bar fighetto lì accanto.
Gabriele conosceva un paio dei colleghi di Naïma, si era avvicinato per salutarli e non se n’era più andato. Una settimana più tardi ci erano tornati insieme, sui gradini della chiesa, incuranti di ciò che accadeva oltre i loro sorrisi stupefatti.

Due mesi, poi lei era tornata a Marsiglia senza preavviso: un’assunzione al MUCEM, il museo più importante della città, era il sogno della vita, sarebbe stato folle rinunciarvi per una storia senza futuro come la loro. O perlomeno questo era ciò che le aveva detto con la faccia più convinta che era stato capace di venderle. Perché sarebbe stato egoista chiederle di restare per lui, e soprattutto sarebbe stata una responsabilità che non si sentiva pronto a sobbarcarsi.
Una decisione adulta, di cui non si era pentito per due settimane intere. Poi l’aveva chiamata e le aveva detto che erano degli irresponsabili, non si butta via una relazione così bella, potevano trovare lo stesso il modo di vedersi, magari la prossima settimana vengo a trovarti, eh?

“No”
“Come no? Dai!”
“Ho detto no, non ti voglio vedere”
“Ma ti sei offesa? Lo so che ti ho detto io di andare, ma cerca di capire, mi sembrava la decisione migliore per te”
“Ci ho pensato molto, e ho capito che con te non stavo andando nella direzione che voglio. Ho fatto una scelta, non cambio idea.”

E in un attimo si era trovato dentro un romanzo giallo: c’era il morto, c’era l’assassino, mancava solo il movente del delitto.
Per fortuna non ci vollero 350 pagine di indagini, bastarono un paio di domande dirette e qualche silenzio fin troppo eloquente perché saltasse fuori il nome di Serge Grimaldi, capo della sezione Sviluppo Culturale E Relazioni Internazionali. Naïma era mezza araba ed era stata assunta mentre viveva in Italia: sullo sviluppo culturale aveva dei dubbi, ma la relazione internazionale c’era tutta.

Dal romanzo giallo all’Harmony più becero. Povera Marsiglia, ridotta a cornice di una storiella così squallida.
Gabriele era più deluso che ferito, aveva giurato a sé stesso che non l’avrebbe cercata più: la memoria di Jean-Claude Izzo non meritava di essere accostata a certe vicende da portinaie. Avrebbe voltato pagina e si sarebbe costruito un’immagine nuova, più letteraria: un portiere d’albergo deluso dalla vita che cerca consolazione in fondo alle bottiglie. A proposito di clichès, eh?

Fino all’Arco di Trionfo era stato sfascio e miseria, poi si era trovato in cours Belsunce e l’impressione di stare in un film di Rossellini era svanita. Al di qua del monumento era di nuovo Europa, marche di negozi familiari, la linea del tram e un ampio viale alberato.
Non che prima si fosse sentito a disagio, comunque. Naïma gli raccontava che quando arrivi in città corri il rischio di venire scippato già sui gradini della stazione Saint-Charles.
Da Arenc a lì non se l’era cagato nessuno, forse il pericolo valeva solo per chi viaggiava in treno. Magari gli scippatori trovavano più da lavorare davanti alla stazione ferroviaria che a un campetto di periferia. Naïma era sempre un po’ melodrammatica, certe volte gli dava proprio sui nervi.

Svoltò sulla Canebière. Le parole di lei saltavano fuori nella descrizione dei suoi anni di ragazzina, quando percorreva quei marciapiedi avanti e indietro con le amiche, a farsi avvicinare dai ragazzi e ad allontanarli con sufficienza.
A quell’ora non c’era molta vita. Tre algerini si facevano foto improbabili davanti a ogni edificio vistoso, una signora anziana portava a spasso un cagnolino minuscolo. Un ragazzino gli passò vicino su uno scooter. Aveva il casco, ma per essere almeno un po’ contro il sistema stava in ginocchio sul sedile.

L’albergo era nella traversa dopo, schiacciato fra un kebabbaro e un bar di arabi. Per raggiungere il portone dovette farsi largo fra i tavolini che si estendevano lungo tutto il marciapiede, fin quasi alla strada.
Oltre il piccolo ingresso il portiere guardava in tv la partita degli Europei: giocavano Galles e Irlanda del Nord, e dalla sua espressione non si stavano impegnando granché.
Salì in camera, fece una doccia e stette per un po’ seduto sul letto a guardare la sua immagine nello specchio vicino alla porta.
Ma cosa ci faceva lì?

Una gita. Nient’altro. Non sono qui per vedere lei.
Poi, se è il caso, se me la sento, ci possiamo prendere un caffè insieme, parlare un po’.
Se capita, dieci minuti per cancellare la tensione, fare pace.
Non vale più la pena di mantenere questo stato di guerra, scommetto che pesa anche a lei. Sono sicuro che se la chiamassi per dirle che sono qui mi vorrebbe vedere subito.
Magari domani la chiamo, le chiedo come sta.
Se ne è valsa la pena.
Ma domani. Forse.
Stasera me la prendo per me.

Dieci minuti più tardi osservava perplesso l’area del vecchio porto. Lo specchio d’acqua davanti a lui era chiuso su tre lati da una spianata di cemento, e la vista sul mare è sempre stata nascosta dalla collina su cui sorge Notre Dame de la Garde. Barche da diporto coprivano una buona metà della superficie. Ebbe l’impressione di trovarsi in un parcheggio.

Marsiglia ospitava alcune partite del campionato europeo in corso in quel periodo. Per l’occasione erano state allestite nel piazzale una ruota panoramica e una scatola grande come un camion su cui campeggiava il logo della radio locale. Entrambe emettevano suoni molesti.
Sotto il cubo della radio quattro coppie di ballerini si destreggiavano in una dimostrazione di qualche danza latina. C’erano poche cose capaci di deprimere Gabriele come la musica latina. Quando la sua vicina di casa la ascoltava lui interrompeva qualsiasi attività e andava a mettere su i Clash.
Quel giorno aveva lasciato la musica in albergo, dovette allontanarsi in fretta verso uno dei dehors sul frontemare.

Scelse quello con la cameriera carina. Bionda, occhi chiari, un bel fisico. Una per cui perdere la testa, insomma.
Le fece un sorriso accattivante quando gli portò la birra. Ne ricevette uno cordiale e distaccato che lo fece sentire solo. E neanche due patatine.
Vuotò il bicchiere in fretta e riprese a camminare.

La freccia a destra diceva Panier. Una scalinata saliva verso delle case poco attraenti e ancor meno antiche. A meno che il centro storico non cominciasse subito dietro sembrava che anche quella parte di città avesse vissuto il trauma della ristrutturazione.
Esitò, quello era il quartiere di Naïma. Era nata lì, aveva abitato in Rue des Moulins prima di trasferirsi con la famiglia fuori città, verso Cassis. Se la sentiva di infilarsi in quel campo minato di malinconie?
D’altronde se avesse continuato a camminare in quella direzione sarebbe arrivato al MUCEM, dove probabilmente si trovava lei ora. Meglio affrontare il suo ricordo, almeno per il momento.

Place de Lenche. Il nome era familiare, probabilmente compariva in un romanzo, magari ci si sparava qualcuno, vai a sapere. Troppo pulita, piena di tavolini. Sembrava la tipica piazzetta genovese restituita alla movida del venerdì sera. Non c’era niente da vedere lì, tranne il piccolo Bar de la Place, dove un vecchietto leggeva La Marseillaise all’ombra della tenda rossa all’ingresso.
Non certo un locale da turisti quello, ma non ci si fermò lo stesso, se avesse voluto andare al bar della bocciofila ne aveva uno anche vicino a casa. Costeggiò la piazza per il lungo e proseguì in Rue de l’Évêché, lasciandosi guidare solo dalla curiosità.
Nessun ragazzino a fregarsi motorini, né puzza di piscio e sacchi dell’immondizia abbandonati agli angoli. La Marsiglia di Izzo sembrava essersi trasferita altrove.

Un negozio con la facciata dipinta attirò la sua attenzione. Lo conosceva, l’aveva visto su google maps una sera a casa sua. Alzò gli occhi, in cima alla strada i tavolini del 13 Coins gli fecero l’effetto di un pugno.

“Ti faccio vedere una cosa”, gli aveva detto, sedendoglisi in braccio. Si era messa ad armeggiare su internet e lui ne aveva approfittato per annusarle il collo, che sapeva di sandalo e tabacco. Le aveva infilato il naso fra i capelli, scoprendole un orecchio.
“Hai delle orecchie perfette”
“Che scemo, chi è che guarda le orecchie delle donne?”
“Io, e le tue sono perfette”. Ci aveva infilato la lingua.
Le mani erano scivolate sotto la maglietta, ad abbracciare la pancia rotonda.
“Dai, smettila. Lo sai che bar è questo?”
“No”, rispose lui senza guardare, per non disturbare il fiume di emozioni che stava ricevendo dagli altri sensi, tutti sveglissimi. Il corpo di Naïma era il suono di un pianoforte, le note morbide, talvolta sussurrate, altre gridate, erano piene e calde sotto le sue dita.
“Come no? Ma sei pazzo? È il 13 Coins, il bar di Izzo! È in tutti i suoi romanzi! Non mi avevi detto che ti piaceva?”
“Non me lo ricordo”, tagliò corto. La letteratura che aveva in mente in quel momento veniva venduta in librerie sordide con la luce bassa frequentata da uomini dall’aspetto equivoco. Ed era accompagnata da un sacco di fotografie.
Naïma gli piantò addosso i suoi occhi di onice nera.
“Gabriele Di Raimondo! Mi hai avvicinato parlandomi di Jean-Claude Izzo e adesso viene fuori che neanche conosci il 13 Coins? Era solo una scusa per rimorchiare?”
Restò un momento in bilico su quello sguardo, poi fece quello che faceva ogni volta che lei lo guardava. Ci cadde dentro.

(continua)