Innanzitutto una nota per i milioni di lettori che arrivano qui da fuori Genova:
Melina Riccio è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che può capitare di incontrare in giro per Genova, mentre butta mangime ai piccioni o si trascina dietro il suo carrello per la spesa. Può sembrare una delle tante pensionate che ciondolano per i nostri centri storici, ma Melina Riccio è molto di più, è un’artista di strada. Anzi, a Genova per qualche anno è stata la writer più popolare, la Banksy locale, direi. Fino a qualche anno fa, in città come altrove, non era difficile imbattersi nei suoi “murales”. Si trattava di brevi elenchi di parole, talvolta in rima, riguardanti perlopiù il nostro rapporto con l’ambiente cittadino e la natura, cose semplici tipo “la spazzatura fa paura alla natura”, o “amore certo casto bello”, scritte in stampatello con un pennello piuttosto largo sui muri e sui grossi bidoni metallici dell’indifferenziata. Ne parlo al passato perché da un po’ di tempo non mi capitano i suoi lavori sotto gli occhi, e magari si è ritirata per sopraggiunti limiti di età, ma magari invece è attivissima, non prendetemi in parola su questo (ma neanche sul resto, sono un cazzaro).

Melina Riccio - Costruttori di Babele

Essendo uno spirito inquieto, Melina Riccio ha portato la sua opera in giro per l’Italia, magari senza coprire grosse superfici coi suoi slogan futuristi, ma semplicemente lasciando la sua firma corredata da una stella. Fuori dalla stazione di Roma, o da quella di Venezia, un occhio attento può ancora rilevare il tag di Melina, scritto piccolo su una piastrella o enorme su un palo dell’illuminazione.

Negli anni ci si è interrogati molto se quella di Melina fosse davvero arte o semplici scarabocchi, ma non credo di poter dare io la risposta definitiva (anche perché l’ho già fatto). Quello che però mi sento di dire oggi è che se Melina Riccio avesse un sacco di soldi da spendere per le sue opere nessun critico avrebbe dei dubbi, quella sarebbe arte contemporanea e la gente pagherebbe un sacco di soldi per andarla a vedere esibirsi. Certo, Melina Riccio a quel punto non dovrebbe limitarsi a dipingere e fare collage, dovrebbe anche scrivere musica e cantare, e a quel punto tutti si renderebbero conto di quello che io ho capito solamente ieri sera, quando per la prima volta in vent’anni sono riuscito ad andare a un concerto di Bjork.

Bjork, una retrospettiva in quattordici puntate

Bjork è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che ogni tanto fa uscire un disco che divide a metà la critica: da una parte quelli che la considerano un genio assoluto e dall’altra quelli che trovano i suoi lavori inascoltabili e pallosi oltre l’umano. Per capire da che parte stia dovremmo andare per ordine e proporre una retrospettiva ragionata in quattordici puntate in cui analizzo ogni singolo brano a partire da quando suonava con gli Sugarcubes, ma farei felice solo me stesso e solo per i primi dieci minuti, perché comunque è vero che Bjork è pesante, non lo scopriamo oggi. Ma è anche un genio, forse addirittura superiore a Melina Riccio.

Di Bjork con gli Sugarcubes avevo scritto qui, perciò partiamo dalla sua produzione solista, che è più facile e si inizia col botto.

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Il suo primo disco solista lo incide nel 1977 a 11 anni, ottiene il disco di platino in Islanda, ma la verità è che il disco era una raccolta di cover in islandese e ha venduto 5000 copie su una popolazione di poco superiore a quella di Messina. Lasciamo perdere.

Debut è del 1993, e insieme ai due album successivi, Post (1995) e Homogenic (1997), compone l’intera discografia di Bjork che si può ascoltare senza cominciare a sentirsi scomodi sulla sedia. A dar retta a certe voci, il resto della produzione della cantante è stato fortemente influenzato dalla sua relazione con Matthew Barney, un artista visivo statunitense che ha conosciuto nel 2001 e con cui ha convissuto fino al 2013. Non è un’ipotesi così astratta, Vespertine è l’album che segue la trilogia meravigliosa, ed è appunto del 2001, e prima di incontrare questo personaggio Bjork si accompagnava a musicisti del calibro di Tricky e Goldie.

Ora, di sicuro Bjork non è un contenitore vuoto che chiunque arrivava riempiva a piacimento (nessuna allusione sessuale qui), e anche nei primi dischi è molto presente quella dissonanza sonora che dilagherà successivamente, ma le influenze sonore dei due signori qui sopra, e anche di Howie B, che collaborò al terzo album, si sentono parecchio.

La stessa cantante ha pubblicato una specie di guida all’ascolto dell’album che celebra la fine della sua relazione col compagno, Vulnicura, del 2015, spiegando come l’intero album sia una specie di processo di elaborazione del lutto e descriva i suoi diversi stati emotivi prima e dopo la rottura.

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Ce la siamo persa, Bjork. Da Vespertine in avanti la sua voce e la sua musica sono state accomunate solo per essere registrate contemporaneamente sulla stessa traccia, ma andavano ognuna per la sua strada ignorandosi a vicenda. Tappeti sonori densissimi, effetti barocchi, echi, atmosfere ambient, la produzione di Bjork negli anni ha preso una strada che anche i critici più eccitati hanno cominciato a guardare prima con sospetto, e poi con sempre più disaffezione. Dall’altra parte le sue apparizioni in pubblico sono state caratterizzate da abbigliamenti sempre più bislacchi e complicati, fino al Coachella di quest’anno, in cui si è presentata sul palco, fra le altre cose, in un abito su cui erano stati cuciti quasi 1500 led che reagivano al suono.

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Non mi piace dare la colpa a qualcun altro di questo suo ripiegarsi su sé stessa, preferisco credere che faccia tutto parte di un suo percorso interiore che non siamo tenuti a capire o apprezzare, ma solo accettarlo e andare avanti. Se e quando deciderà di tornare a meravigliarci col suo pop extraterrestre saremo qui ad aspettarla.

Io però nel frattempo avevo comprato il biglietto per il suo concerto di Milano, e mentre la data si avvicinava stavo maturando una certa apprensione. Su setlist avevo già sbirciato la scaletta del concerto, sempre la stessa per tutte le date, e conteneva praticamente solo canzoni degli ultimi due album: il pesantissimo Utopia e il meno pesantissimo ma comunque sempre difficile da digerire Fossora. Perdipiù ero da solo, non essendo riuscito a imbarcare nessuno dei miei amici e familiari in questo progetto assurdo. “A vedere chi? Ma tesseiffuori!”, mi hanno risposto tutti quelli a cui l’ho chiesto. L’unico che avrebbe accettato è stato il mio amico Musicadimerdillo, che è abituato ad ascoltare gente che suona la verdura sotto la doccia, e per lui Bjork è una passeggiata nel bosco, ma quel giorno doveva strapparsi le unghie a morsi e non poteva venire.

Sono andato a Milano da solo. Prima del concerto una voce ha spiegato che Bjork non vuole vedere telefonini durante il concerto, perché la distraggono e danno anche fastidio a chi vi sta vicino, perciò sul sito sarebbero state messe a disposizione gratuitamente foto comunque migliori di quelle che potrete fare voi coi vostri cellulari di merda. Per questa ragione le foto che trovate a corredo del mio post non le ho scattate io, le ho prese dal sito ufficiale. I video invece li ho scroccati a quelli che se ne sono sbattuti le balle e il telefono l’hanno usato lo stesso.

Vabbé, ma il concerto com’è stato?

Qui i pareri si dividono. Qualcuno che l’aveva già vista altre volte l’ha trovata particolarmente intonata, ma noiosa oltre l’umano, quindi in linea con la sua produzione discografica. Matteo Bordone, giornalista del Post, è uno di questi, e il giudizio molto severo che esprime nel suo podcast (che non vi linko, essendo solo per abbonati, ma se siete abbonati lo avete sicuramente già ascoltato) è che fa sta roba complicatissima da ascoltare e poi neanche te la spiega: in un’ora e quaranta di esibizione ha detto solo “grazzi” un paio di volte alla fine. Però la trovo una critica ingiusta: ochei, non ti fa gli spiegoni sul palco, ma rilascia interviste, scrive roba sui social, non è un’artista chiusa in casa che produce roba ermetica e ti lascia l’incombenza di interpretarla. Io ai concerti difficilmente vedo artisti che chiacchierano col pubblico. Certo, ci sono quelli che introducono le canzoni dicendo due parole, ma ce ne sono tantissimi che salgono sul palco, fanno la loro roba e se ne vanno senza dire niente né fare soste. Cazzo, ho visto De Gregori per anni e in tutto l’avrò sentito pronunciare meno di dieci parole.

Il concerto di Bjork è la versione in grande, più tecnologica, più rumorosa e (poco più) musicale del portone di casa di Melina Riccio.

MELINA RICCIO - Drawing - Outsider Art Now

Ci sono questi due livelli di tende trasparenti su cui vengono proiettate le immagini, e la scenografia è grossomodo tutta lì. C’è una piattaforma su due piani e Bjork e le sue ragazze lo percorrono avanti e indietro, c’è una specie di cabina che ricorda un po’ la testa di un polpo.
Le ragazze in questione sono le Viibra, un settetto di flauti e clarini che fanno anche da corpo di ballo, muovendosi in sincrono e componendo figure. Il resto della band sono Bergur Þórisson (che lascio scritto senza la traslitterazione così vi resta la curiosità di sapere come si pronuncia), ingegnere del suono, Katie Buckley all’arpa e soprattutto Manu Delago, percussionista bravo abbastanza da giustificare tutto quel circo e il costo del biglietto. Per dire, ad un certo punto si è messo a suonare delle ciotole dentro una vasca piena d’acqua, ma in generale la base ritmica del concerto, quando c’era, si sentiva forte.

Il concerto è stato un’ora e quaranta di musica noiosa, ma la coreografia, le immagini che scorrevano alle spalle dei musicisti, il carisma di quella piccoletta stramba vestita da omino Michelin, e probabilmente il fatto che questo fosse uno dei pochissimi concerti a cui ho desiderato partecipare per anni, hanno fatto scorrere il tempo molto velocemente. Il tizio seduto accanto a me con un grosso problema di traspirazione ha contribuito ad allungarlo un’altra volta.

Non è un’esperienza facile, e probabilmente non è neanche davvero un concerto. È più vicina a uno di quei videogiochi fatti apposta per mostrarti le capacità della nuova console, ambientati in un luogo pieno di forme che si muovono e suoni che hanno poca musicalità, ma sotto tutta quella roba messa lì per confonderti c’è sempre la stessa Bjork di Post, che gioca con la techno e agita il braccio sopra la testa per tenere il ritmo, che strilla e si mette a ballare. O perlomeno ci prova, visto che l’abito è piuttosto ingombrante.

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Prima del pezzo che chiudeva il concerto ci ha detto “if you feel like dancing don’t hold it”, come se fosse facile mettersi a ballare su quella roba, ma poi gli strumenti si sono allontanati e il ritmo si è fatto sentire più chiaramente, e se non fossimo stati tutti seduti e sedati dal tappeto sonoro ininterrotto che ci ha portati fin lì magari ci sarebbe venuta voglia di alzarci e saltellare. Invece la musica finisce, ci alziamo e ce ne andiamo.
Io peraltro stavo vicino all’uscita, e cinque minuti dopo la fine del concerto ero già all’imbocco della tangenziale.

Magari è stato più noioso e superfluo e ridondante di molti altri concerti, ma per me che era il primo, e su cui avevo pochissime aspettative, è stato pazzesco. Quando ho riconosciuto in mezzo a quel casino Venus as a boy mi sono lasciato scappare un’esclamazione che quello vicino a me ha staccato gli occhi dal telefono su cui seguiva la partita dell’Italia; quando ha presentato i musicisti, sentirla parlare con quel suo accento assurdo, dopo una vita che la ascolto solo attraverso delle casse (vabbè, anche stavolta in realtà, ma ci siamo capiti) è stata un’emozione.
Insomma, io Bjork la voglio rivedere prima possibile, e stavolta non voglio comprare il biglietto in piccionaia, voglio stare davanti. Non mi importa del costo, ne vale la pena. Per lei ne vale la pena.

5.

Qui è dove mi alzo la mattina carico di ottime intenzioni e decido di smetterla con questa vita priva di stimoli e amici ignoranti e sopravvivere trascinandomi nella mediocrità e musicadimerda e teatro come se il teatro fosse l’unica cosa che mi salverà dalla buzzurra in cui ciabatto da anni, con le crocs.
Qui è dove vado a visitare il museo di arte contemporanea di Porto.

Perché va bene leggere, suonare, tutta l’arte è importante, ma signori miei, è solo nell’arte contemporanea che l’uomo trova le sue risposte. Quando ti trovi in una stanza tutta bianca, con delle vetrate che si affacciano su un parco stupendo, e la luce di una calda mattina invernale inonda le pareti spoglie, e tu sei lì, unico testimone di quell’incontro fra l’umano e il divino, e osservi una tavola da surf segata in quattro, che incombe su quel vuoto come il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio, in quel momento lo capisci: l’arte non è appesa ai muri, l’arte sei tu. È tutto quello che ti attraversa e viene metabolizzato e rimesso in circolo, il messaggio, il significato, l’ispirazione sono tutte chiacchiere, sei tu quello che rende quel pezzo di poliuretano l’espressione di una sensibilità artistica, tu che sei lì e lo osservi. L’ha capito benissimo Christo quando ha intruppato migliaia di buoi con lo zainetto e il cellulare su una piattaforma galleggiante in mezzo a un lago. Se ti fa prendere il treno apposta per farti ore di coda e ti fa tornare a casa felice di essere stato partecipe di una passeggiata scomoda e umida e lentissima che se fossi andato a camminare ai giardinetti spendevi meno e ti restava anche il tempo di guardarti un film e pulire casa, non ci sono cazzi, quella è arte. Se domani vai a Venezia a fotografare l’autografo di Melina Riccio sul muro della stazione in fondo al ponte di Calatrava rendi arte anche Melina Riccio, e non solo una sciroccata che imbratta i muri di Genova. Che poi che differenza ci sarebbe fra lei e Banksy, a parte che uno disegna e l’altra scrive in un italiano discutibile?

E la forma più paracula di tutte le arti è proprio l’arte contemporanea. Quattro cerchietti disegnati a biro su un foglio a quadretti incorniciato in una cornice ikea di quelle più economiche fanno bella mostra di sé in un percorso dedicato a un artista scarno, Michael Krebber. Devi vedere la visione d’insieme, è un provocatore, è una tappa di un percorso, c’è un significato. Sticazzi. Lo decido io il significato, se me lo spiega lui mi addormento dopo due minuti, anche perché me lo spiega in tedesco. E la spiegazione che mi do io mi appaga, e mi godo tutta la sua opera con calma, senza sentirmi come se mi fossi perso un passaggio. Per quello è arte paracula, perché se non capisci qualcosa viene subito a batterti sulla spalla e a dirti va bene così, rilassati, non sei tu, tranquillo.
Giotto è molto più pretenzioso, per dire. Con lui fatichi a identificarti nel processo, ti dice delle cose e pretende che le capisci, che ti studi la storia della prospettiva, la simbologia, il contesto storico. I contemporanei montano una passerella gialla sul lago e ti chiedono solo di camminarci sopra e farti due foto, segano una tavola da surf, tagliano una tela. A posto così, il resto metticelo tu.

famo a capisse

Li adoro i contemporanei, appartengono a una generazione che si esprime secondo un linguaggio che pesca nello stesso calderone da cui raccogliamo tutti. Abbiamo un retroterra comune, e questo facilita il dialogo. Ogni volta che esco da Genova vado a cercare il museo e mi ci perdo. A Praga, a Milano. Oltretutto l’edificio è sempre interessante quanto il suo contenuto, e Serralves non fa eccezione: art deco e modernismo, qualunque cosa significhi, io il massimo che capisco è questo è il pavimento e quello no, devi camminare qui. Ma che bello lo stesso camminare per il parco e infilarsi nella palazzina a curiosare la mostra di Mirò e non capirci un cazzo e sentirsi in pace col mondo. C’era una scopa con gli occhi! Mirò usava dei colori carichi che ti fanno venire voglia di indossarli, ma di più, di averceli dentro sempre, anche i neri sono neri carichi, neri neri. Poco tempo fa uno scienziato ha inventato un colore nero capace di assorbire il 99.965% della luce, che ne fa il nero più nero esistente al mondo, almeno finché a qualcuno non verrà in mente di estrarre il cuore della mia ex. Mirò non lo sapeva e ha usato un nero molto meno nero e più lucido, ma è così ricco il nero di Mirò che il vantablack non lo paragono neanche.

Marzia dovrebbe farsi i capelli blu

Di meno bello c’è solo arrivarci, al museo di Serralves. La guida ti dice di scendere con la metro a Casa da Musica, un altro edificio figo che non ci crederesti, e prima o poi lo vado a visitare anche dentro, e poi di andare in quella direzione. Quello che non ti dice è che in quella direzione ci devi andare finché non superi la frontiera col Belgio, poi giri a sinistra. Ho camminato lungo un viale dritto e lungo che mi ha fatto finire in mezzo a palazzoni così tetri che sembrava la pagina del modernismo socialista, e ho pensato a Marzia che leggerà queste righe e mi prenderà per il culo per il mio solito superpotere, ma che se fosse stata con me mi avrebbe ringraziato per averla portata davanti alla sede del partito comunista portoghese ad ammirare il murale molto comunista, ma poi mi avrebbe insultato senza neanche prendere fiato da lì fino al museo. Quindi vedi che bello è viaggiare da soli? Niente insulti, ti fermi a fotografare i palazzoni tetri e ti godi il fascino della banlieue, che anche in portoghese avrà il suo nome ma che secondo me non è evocativo come banlieue e soprattutto non richiama alla mente film memorabili.

superbloc

Già che sono al museo e non ho idea di come tornare in centro e piuttosto che farmela a piedi chiedo se posso restare a vivere lì che oltretutto in una sala ho fatto amicizia con una custode così carina che restare a vivere lì non mi sembra neanche un’idea tanto assurda, vado a mangiare al ristorante del museo. Perché c’è anche un ristorante, ed è contemporaneo pure lui, pensa che figata. Se vai al museo degli impressionisti non sperare di mangiare un’insalata dell’800 perché è finita nella spazzatura da un paio di secoli. Al Dox di Praga c’è un baretto che fa anche da mangiare, ma è un baretto. Qui c’è il baretto da scappati di casa al piano interrato, e al primo piano c’è il ristorantone buffet con vista sul parco e camerieri che ti vengono a servire il vino e ti chiedono come stai e tu non capisci perché dei camerieri portoghesi dovrebbero essere gentili con te, visto che storicamente i camerieri portoghesi non sono gentili mai ma mai (qui la storia dei camerieri portoghesi raccontata dal mio amico Alessandro), e considerata la strada lunghissima che hai fatto per arrivare ti sembra plausibile che da qualche parte lungo Avenida da Boavista ci fosse un posto di frontiera e nessuno ti abbia chiesto i documenti perché Schengen o perché erano in pausa colazione, che da queste parti è serissima, visto che come abbiamo già visto i dolci portoghesi sono una roba che ti ci vuole una settimana a finirli.

Dopo pranzo mi affaccio alla balaustra nell’atrio per capire seriamente se dovrò rifarmi la strada a piedi, rubare una macchina, chiedere ospitalità, chiamare un taxi o buttarmi di sotto, e in quel momento esce dalla sala di Klebber la custode carina di cui sopra, che mi vede e mi fa un cenno di saluto. Allora scendo e le chiedo come tornare in città. Le chiederei anche come si chiama e se è fidanzata e cosa fa stasera, ma sono pur sempre Pablo il Sociopatico, e dopo che mi ha spiegato come scendere al fiume in cinque minuti e prendere il tram non riesco a reggere l’idea di me che la sto fissando con la faccia ebete e mi ricompongo e scappo lontanissimo. Poi dici che non conosci mai nessuno.

(continua)