Il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di psicanalisi, sebbene non fosse iscritto all’albo. Diamine, il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di qualunque cosa, era la mia wikipedia personale, se avevo bisogno di scoprire quale specie di scarafaggio infestasse la città di New York e quale quartiere ne fosse maggiormente colpito non avevo che da chiedere a lui: mi avrebbe fornito tabelle, filmati e interviste ai cittadini e agli scarafaggi.
Solo che di uno psicanalista non iscritto all’albo non sapevo che fare, a me ne serviva uno in grado di prescrivermi il farmaco con cui andare in overdose e farla finita con questa vita di merda.

Però il professor Delbruck aveva una copia delle mie chiavi di casa, che al momento stavano in cima alla lista delle priorità.

L’ho trovato seduto sulla finestra con la chitarra in mano che cercava di suonare Io Sono Fatto Di Neve. Non si è accorto di me, e me ne sono stato un po’ lì ad ascoltare questa canzone triste che mi stringeva lo stomaco e irradiava alcaloidi saturi di rancore.

Una volta una ragazza mi aveva dedicato una canzone di questo gruppo, un po’ di tempo dopo che ci eravamo lasciati. Si intitolava Una Palude, e parlava di come dopo la fine di una storia il cantante si sentisse di merda. L’avevo interpretato come un tentativo di ricostruire il rapporto fra di noi, ma mi sbagliavo. C’ero anche rimasto male, che scherzo del cazzo, ma vabbè, magari per lei il testo significava tutt’altro, non era molto brava ad interpretare le canzoni dei Ministri.
Mi ricordo che considerava Lei Non Deve Stare Male Mai come l’emblema della devozione cieca che un uomo deve avere verso la donna che ama, e io obiettavo che dietro quella venerazione veniva mostrato l’annullamento dell’individuo, e insomma, mi sembrava un rapporto parecchio egoista, ma la ragazza voleva quel tipo di relazione lì, non ci eravamo lasciati benissimo.

Da allora “cercare con estrema cura possibili compagni di avventura” era diventata una regola ferrea, per evitare sorprese.
Però mi spiaceva non averle dedicato anch’io una canzone, è un gesto che unisce la passione per la musica alla necessità di mandare un messaggio, ed è la cosa più pratica se non possiedi talento artistico, né una casa discografica, uno studio di registrazione e un album in uscita entro breve.
Scrivere un racconto non è altrettanto efficace, magari lei non legge racconti. Magari l’ultimo libro che ha letto è il libretto del dvd di Beyoncè che regalava TV Sorrisi E Canzoni. Magari è una capra. Ci sta di innamorarsi di una capra, le capre hanno belle tette e uno sguardo intelligente nel loro viso semita.
Chiedilo a Saba, quante cose trovi nel suo belato.

Ecco, con una canzone queste cose non succedono. Arriva dappertutto, la passa la radio.
Pensa a quando Tom Waits ha scritto Who Are You, pensa alla donna cui era dedicata. Pensa a come dev’essersi sentita ogni volta che la ascoltava alla radio e sapeva di essere lei quella che continua a scappare dalle finestre in abiti costosi.
Dio, come avrei voluto una ex stronza a cui dedicare Who Are You di Tom Waits.

Un rapido conteggio sulla punta delle dita mi ha fatto realizzare che ex stronze non ne avevo neanche una. Al limite squallide, ma non valevano la pena di essere ricordate.
Il pensiero mi ha gettato addosso nuovo sconforto, che mi ha riacceso l’ipofisi, che mi ha aiutato a sopportare il dolore, che mi ha reso di umore migliore, che mi ha quasi fatto desistere dal piano autodistruttivo.
Ma è stato solo un momento, ormai la decisione era presa. Mi sono mostrato al professor Delbruck e gli ho chiesto le chiavi di casa e un cocktail di barbiturici.
Mi ha dato solo le prime. Per l’altro ha detto di non volersi assumere la responsabilità. Però conosceva un buon analista in grado di aiutarmi.

Tempo una settimana e stavo seduto in uno studiolo a fissare una signora in pile coi capelli brizzolati, divisi nel mezzo in un taglio piuttosto mascolino. Più che una psicoterapeuta sembrava una guida alpina. Mi è venuto da chiederle se le piacevano le capre.

“Mi parli del suo rapporto con suo padre”

Ma che gliene frega a questa del mio rapporto con mio padre?

“Lei non si è sentito amato da bambino e sta inseguendo l’approvazione di suo padre”

Ma non mi può prescrivere del temazepam e lasciarmi abbracciare il mio destino senza tante menate?

“Mi descriva il rapporto con sua madre utilizzando solo aggettivi di tre sillabe”

Maledetti altruisti devoti alla salvezza dell’umanità, ma perché non vi salvate fra voi e ci lasciate in pace?

“Sua madre è stata iperprotettiva e le ha fatto perdere il valore della gratificazione. Perciò adesso lei si sente inadeguato qualunque cosa faccia.”

Il giuramento di Ippocrate comprenderebbe anche il rifiuto a operare i calcoli renali, se vogliamo essere coerenti fino in fondo.

Poi mi ha messo in mano dei fogli e una matita.

“Disegni il suo posto nel mondo, come si vede e come la vedono gli altri. Disegni le cose importanti per lei, disegni sé stesso mentre compie la sua azione preferita.”

L’ho guardata, ho guardato il foglio. Non so disegnare neanche l’omino stecco, mi viene tutto sproporzionato. L’ho guardata di nuovo.

“Se glielo mimassi?”

Mi ha fissato in silenzio.

Il figurativo era oltre le mie capacità, ho improvvisato un’opera astratta.
Mondrian, per esempio, coi suoi spazi regolari avrebbe rappresentato al meglio il mio bisogno di equilibrio, e di dare una forma a tutto ciò che vedo.
Non è facile andare dritti senza un righello, mi tremavano le mani per l’ansia da prestazione, e il prodotto finale sembrava più un Mirò. Ho cercato di aggiustarlo, ma ogni tratto di matita non faceva che peggiorare il lavoro. Alla fine ho consegnato un Pollock.

“Interessante. Lei dovrebbe imparare a valorizzarsi di più, vincere le sue paure ed essere più indulgente verso sé stesso. Si ricordi che i fallimenti fanno parte del gioco, e sono indispensabili per potersi migliorare, pertanto vanno accolti, e non demonizzati.”

“Va bene. Adesso potrei avere le mie pastiglie, per cortesia?”

“Mi spiace, io sono freudiana, credo nella guarigione attraverso una lenta e dolorosa presa di coscienza. Se vuole la strada facile deve rivolgersi a quei cazzari degli junghiani. Oltretutto non ci vuole molto a capire che lei e le dipendenze avete un bellissimo rapporto. Se le prescrivessi un oppiaceo non farei che spostarla da una prigione a un’altra, mentre quello che le serve davvero è di liberarsi.”

“Il mio piano era quello”, confessai. “Vorrei uccidermi.”

“Glielo leggo in faccia. E non cercherò di dissuaderla, i consigli non servono a niente, se non a farci sentire ancora più incapaci di seguirli. Ma ci sono diversi modi di arrendersi, e non tutti contemplano la morte. Non quella fisica, perlomeno.”

“Mi sta suggerendo di diventare un sommelier?”

“No, di trasformare i suoi fallimenti in un obiettivo.”

“Meno male, preferisco la ciucca anarchica a quella regolamentata”

“Lei sta spingendo un masso in cima a un monte, e ogni volta si frustra vedendolo rotolare di nuovo giù. Il fallimento le toglie la voglia di riprovare, e adesso ha deciso di arrendersi. Perché a cosa serve impegnarsi se il risultato è sempre zero?”

“Va bene non dissuadermi, ma non credo che l’istigazione al suicidio sia etico, dottoressa.”

“No, ma che suicidio. L’unico suicidio utile è quello della ragione. Lasci perdere il buon senso e si affidi alla pancia. Cerca sempre una ragione a tutto, ma non è detto che debba esserci per forza. Certe cose succedono e basta. Lo scopo non dev’essere per forza arrivare in cima, potrebbe essere anche solo spingere la pietra.”

“Uscirebbe con me domani sera?”

“Mi è proibito dal codice deontologico uscire con un paziente.”

“E se non fossi un paziente uscirebbe con me?”

“No”

“Questo danneggia la mia autostima”

“Ma preserva la mia. E comunque imparare ad accettare i rifiuti è un passo verso la guarigione.”

“Lo farò, grazie mille!”

Sono uscito più sollevato. Adesso sapevo cosa fare: avrei accettato i rifiuti. Anzi, di più, me li sarei presi in casa!

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
El Chapo Guzman – Los Tucanes de Tijuana

Cari viaggiatori delle musichine, ve la siete fatta passare la ciucca di Sanremo? Lo sapete che sono stato costretto a togliere dalla bacheca di facebook qualcosa come quaranta persone, che non ne potevo veramente più di informazioni in tempo reale sulle vicissitudini del festival, mannaggia a loro? A me non piace il festival, non ho neanche la televisione, l’ho regalata per non sapere niente del festival, non accendo neanche la radio in quei giorni, ma se devo anche chiudere il computer diventa difficilissimo!

Poi lo so che gli estimatori salteranno su a dire ma no, guarda che queste ultime edizioni non sono becere come quelle che ricordi tu, ci sono i cantanti bravi, gli ospitoni, e giù a fare nomi ed esempi, e io a scrollare la testa e dire ragazzi, davvero, non è il caso, e loro niente, che la canzonemononòta, e Gazzè, e quell’altra bravissima, e poi c’è sempre quello che giustifica il suo interesse dicendo che va bene, il festival fa cagare, ma nella categoria merda sul marciapiede è il prodotto migliore che ci sia e quindi va visto.

Sarà, io le merde sul marciapiede cerco di evitarle, per esempio domenica ho incontrato un gruppetto di casapau che volantinava e ho attraversato la strada, perciò chiudiamo lì la parentesi nazionalpopolare e torniamo alla rubrica di musica radical-chic che vi piace tanto da restare ad aspettare per settimane sperando che tornasse, pur sapendo che avrebbe tardato un po’.

Grazie, vi sono riconoscente per la pazienza dimostrata, anche se adesso che vi ho rivelato che non state più sulla mia bacheca di feisbuc magari fate gli offesi e mi snobbate.

Dove eravamo rimasti? L’ultima volta che ho scritto era dicembre, avevamo appena lasciato il Messico illegalmente insieme a El Chapo Guzman e avevamo raggiunto la Colombia sul pulmino dei Tucanes De Tijuana, annusando una strana polverina bianca che ci hanno giurato essere bicarbonato.

Gli effetti bizzarri del bicarbonato centroamericano (che poi la Colombia sarà centro o sud? Vabbè, cosa sto a cercare, tanto qualcuno che me lo dice lo trovo sicuro)

Scesi dal pullman ci siamo sentiti stranamente leggeri, che il bicarbonato di quei posti ti picchia in testa che è una meraviglia, e ci siamo infilati in una bettola di Bogotà, dove il gruppo che ci ha accompagnato doveva tenere un concerto.

La testa ci gira, forse è l’altitudine, forse qualche virus, pigliamo un’altra nasata di bicarbonato, che magari ci schiarisce le idee, ma le cose peggiorano ancora, e ci schiantiamo a un tavolino, dove ordiniamo una bibita.

Nel frattempo il gruppo attacca a suonare uno dei suoi pezzi forti, El Cholo, e dal tavolo accanto si alza uno con una camicia veramente orrenda, e grida una frase in spagnolo che non capite, perché quando c’era da iscriversi a un corso di lingua avete scelto il portoghese perché faceva più fico e poi fra un’insegnante di venticinque anni brasiliana col culo scolpito e una di cinquantacinque manchega coi baffi come Dalì non avete avuto dubbi.

Per fortuna che la voce narrante non ha problemi di traduzione e può venirvi incontro: il tizio con la camicia orrenda ha detto che “l’unico Cholo è El Cholo Valderrama!”.

Adesso vi spiego di chi si tratta.

Uno dei generi tradizionali di questa parte di mondo è il joropo, una specie di valzer suonato con strumenti a corda e, tuttalpiù maracas. Ochei, aspettate a cambiare pagina, vi giuro che è divertente! Pensate che in Colombia si tiene anche un festival, il Torneo Internacional del Joropo, che non potrà essere più brutto di Sanremo, via! Quantomeno sono sicuro che Mengoni non ci si è mai esibito.

Insomma, il leader indiscusso di questo genere si chiama Orlando “Cholo” Valderrama, ed è a lui che si riferisce il nostro amico al bar. È il suo cantante preferito, e una volta in un ristorante gli ha autografato il chicharron.

Senza la divisa di Bartolini ho stentato a riconoscerlo.

Nel 2008 il nostro Cholo si è pure portato a casa il prestigioso Grammy Latino, che è come quello più famoso, solo che i cantanti indossano la toga e il voto viene espresso mostrando il pollice in su o in giù. Chi vince è portato in corteo su una biga e lo sconfitto viene divorato dai leoni al Colosseo.

Tra i più famosi artisti premiati ricordiamo Christina Aguilera, Ricky Martin e la nostra Laura Pausini, premiata solo perché quell’anno erano finiti i leoni.

Faccio notare che spesso ci riferiamo al Centro e Sud America come a paesi sottosviluppati, ma intanto a casa loro Fabio Fazio in televisione non ce lo fanno andare.

E basta, che devo ancora scrivere la roba

Dai, la settimana prossima vi parlo di una vincitrice del Grammy Latino che non è Laura Pausini.

Per ora ascoltatevi un pezzo del Cholo, che non è quello che avevo scelto, perché su youtube non c’è, e neanche so dirvi se sia bello, che mentre scrivo sto ascoltando della musica vera, mica sta merda, figurati, appena partito il video si sente un muggito, ti pare che vado avanti? Sappiatemi dire se merita, ci vediamo la settimana prossima.

(continua)