Il solito raffreddore mi sveglia che fuori è ancora buio. Ho freddo sotto le coperte, il naso mi cola e il mio continuo girarmi finirà per svegliare Marzia. Mi alzo, scrollo il gatto dal maglione sulla sedia e lo indosso mentre scendo in cucina.
Mi soffio il naso con un foglio di scottex, ma so già che non basterà; apro la stufa e comincio a far cadere la cenere con un ferro, poi metto a bollire l’acqua per il tè. Alle mie spalle il ticchettio delle zampe di Jack sul pavimento mi comunicano la sua urgenza di uscire. Non gli dò molto peso, sarebbe altrettanto impaziente se mi vedesse infilare le scarpe un’altra volta, appena rientrati dalla passeggiata.
Legna nella cassetta non ce n’è più, dovrò uscire in ogni caso se voglio scaldare un po’ casa. E’ incredibile come finisca sempre la mattina, indipendentemente da quanta ne porti in casa, da quanta se ne bruci, arrivi alla mattina che la cassetta è comunque vuota. Forse se la mangia Jack, per obbligarmi a uscire per prenderne dell’altra.
Mi volto e lo trovo
arrotolato nella sua cesta, che mi guarda con un occhio chiuso.
Il fatto che mi stia guardando denota che l’occhio chiuso è quello cieco, ma questa è una considerazione marginale.
Vabbè, inutile cincischiare, tanto se si fosse mangiato la legna non lo ammetterebbe mai, strappo un altro foglio di scottex per risoffiarmi il naso e mi infilo gli scarponcini.

Il cielo è terso, fuori, con delle sfumature rosa pastello dietro l’Alpe. La piccola chiesa si staglia sulla vetta come un ritaglio incollato a una fotografia.
In basso i tetti del paese sono ancora bianchi, bianco il campetto del parroco, e bianca la cupola del campanile proprio di fronte alla strada. Sembra la papalina del pontefice, di un bizzarro pontefice che vesta una tonaca rosa. Forse è un papa gay.
Cerco di immaginare il papa nell’intimità della sua stanza, che si guarda allo specchio avvolto in una vestaglia rosa, col collo impellicciato, e un vezzoso neo sulla guancia, ammicca e sculetta, poi si porta una mano davanti alla bocca e manda un bacio..
Non riesco proprio a immaginarlo vestito così, gli stivali neri e la fascia SS al braccio mi rovinano sempre il quadro.

Ovunque mi volti i colori tenui di una strada fresca di alba mi invitano a soffermare lo sguardo. Ci vorrebbe la macchina fotografica, è un peccato lasciare che una simile bellezza possa evaporare senza traccia, ma bisognerebbe essere un bravo fotografo, che non sono, e forse neanche basterebbe.
Che non è l’immagine del rosmarino che spunta dalla neve, o il fumo del mio camino, a pizzicarmi i sensi, è il ghiaccio che crepita sotto le scarpe, il pensiero della cucina calda quando rientrerò, Jack che mi guarda già impaziente davanti al cancello, e la voglia di camminare nel silenzio di un bosco innevato, e non c’è apparecchio che sappia fermare queste sensazioni.

Bisogna che qualcuno inventi una macchina fotografica per l’anima.

Stamattina mi sono alzato presto, se le otto e mezza possono definirsi presto, e come ogni mattina ho dovuto, per prima cosa, vestirmi e portare Jack a fare due passi. C’era una luce strana, schermata dalla foschia che avvolgeva il fiume, che accentuava il giallo delle foglie, quelle sugli alberi e le prime già in terra, e sfumava i bordi alle cose; dava l’impressione di trovarsi in un quadro di Monet, sebbene non ne ricordi uno ambientato in un viale autunnale, ma cosa vuoi farci, da quando non faccio più ARTErnativa i dipinti si sono mescolati come prima di uscire dal tubetto dei colori, e l’alzheimer non mi aiuta affatto.

Comunque succede che mi sono trovato a pensare a una conversazione con un amico avuta ieri sera, nella mia prima uscita da quando siamo stati colpiti dalla recessione (perlomeno la prima senza il piattino in mano a chiedere spicci ai passanti): eravamo in Piazza Delle Erbe a lamentarci di come dovrebbe chiamarsi Striminzito Marciapiede Delle Erbe, essendo stato tutto lo spazio al centro ingoiato dagli ombrelloni e dai tavolini, quando ti incontro un altro amico, che poi è quello con cui ho avuto la conversazione, che mi dice che vuole andare a vivere da solo e trasferirsi in centro.

Ci avevo pensato anch’io tanto tempo fa, quando dividevo gli angusti spazi di Castello Renzi con Renzi Senior e la buonanima di Mario, e tutti i miei amici vivevano a Genova, e soprattutto stavo lottando con tutte le mie forze per entrare nelle mutande di una tizia che appunto in centro abitava.

Ora che ho realizzato che per le sue mutande sono passati più uomini che alla fermata del 18 barrato, che ho abbandonato la Tenuta Renzi, che ho conosciuto la futura nonna dei miei nipotini, che sono entrato nelle fila rivoluzionarie dell’Ejercito Cadigattista Di Liberaciòn Nacional, che vivo in una casa col riscaldamento a legna, che mi vado a tagliare la legna nei campi, certe malinconie me le sono fatte passare con gioia. E li compatisco un po’ quegli amici che vogliono abbandonare la praticità della delegazione per trasferirsi nel casino del centro, col rumore costante, l’impossibilità di trovare posteggio e tutto il resto.
Che poi uno che sta a Bolzaneto non se la gode davvero granché la lontananza dalla città, subisce gli stessi disagi e non ha neanche i locali sotto casa dove andare a distruggersi, e allora tanto vale..

Però io l’altra mattina nel vialetto sotto la ferrovia, quando ancora la luce era bassa, ho incontrato una famiglia di cinghiali, e uno dei piccoli è venuto ad annusare Jack a neanche un metro dai miei piedi, ed è qualcosa che nei vicoli non ti succederebbe mai. Tuttalpiù potresti imbatterti in una famiglia di spazzini alla fine del turno, e ammetterai che non è proprio la stessa cosa, che oltretutto non hanno neanche il caratteristico manto a strisce.