Santostefano è quel giorno che non sa di niente fra la colossale mangiata di natale e la monumentale ciucca di capodanno. Tutti i negozi sono chiusi, tutti gli amici sono chiusi (nei negozi?), non si esce perché non si sa dove andare, in casa non si sa cosa fare e più di uno il giorno di santostefano ha cominciato a drogarsi per vedere cosa succedeva e poi non è stato più capace di smettere. Sono sicuro che quelli che si ammazzano prima di natale lo fanno perché consapevoli di non poter reggere l’infinito nulla di un santostefano. Io per fortuna ho un gatto che attira l’attenzione su di sé mostrandomi che le pisciate sul letto non sono la cosa peggiore che riesce a combinarmi. In effetti il Punitore di Garth Ennis con le pagine zuppe è una tragedia a cui non ero preparato. Grazie, João, per questa nuova consapevolezza, se un giorno sarò un uomo migliore sarà merito tuo. Peccato che non potrai godertelo, perché per allora sarai diventato un paio di guanti.
Non è giusto soffrire soli, mal comune mezzo gaudio dicono, perciò adesso vado a prendere il sassofono e mi esercito un paio d’ore sulle note lunghe, così anche i vicini potranno condividere con me questo giorno infelice.

la desolazione di santostefano

Una volta non era così. Mi ricordo di un anno in cui mi svegliai la mattina dopo i bagordi del 25 con un barattolo aperto di funghetti sott’olio in grembo, una grossa macchia di unto che si allargava sul maglione nuovo e i passi minacciosi di mia moglie nella stanza accanto. Naturalmente il maglione me l’aveva regalato lei, e altrettanto naturalmente la macchia non sarebbe andata via mai più. Saltai giù dal divano facendo volare il gatto che mi dormiva ignaro sulle ginocchia, e mandandolo a rovinare su un presepe in cristallo veramente brutto, ma anche veramente caro, che ci aveva regalato sua madre l’anno prima, e avevamo dovuto esporre per pagare il fio della sua visita di lì a pochissimo. Sapete quel luogo comune per cui raddoppiare le colpe dimezza la punizione? È falso. Federica, mia moglie, sapeva riconoscere il suono di una madonnina di cristallo che si sfascia su una piastrella in gres porcellanato, anche attraverso una porta e diversi metri di corridoio, e i suoi passi acceleravano improvvisamente nella direzione del salotto, la sua voce rauca da tabagista incallita mi presentava un trailer del film che stava per andare in onda:
“Checcazzo hai rotto adesso?”

una roba così, per capirci

Adesso. Lascia intendere che non era la prima cosa che rompevo, e che la sua pazienza era già stata messa alla prova, come sottolineato da quell’esclamazione così scurrile. Se fossimo in una serie televisiva sarebbe il momento del flashback, e se la serie televisiva fosse prodotta dal canale HBO il flashback comincerebbe con una scena di sesso molto esplicita. Purtroppo il mio blog non è finanziato da reti via cavo americane specializzate in softporno, quindi niente scena di sesso, ma in fondo è una fortuna, perché il flashback serve ad introdurre il personaggio di mia suocera.

Alla signora Violetta Francioso non ero mai stato simpatico, neanche prima che mi beccasse a letto con sua figlia. Questione di pelle, non si può essere simpatici a tutti, e quella volta che ci eravamo insultati per un parcheggio sotto casa sua non aveva aiutato, ma che fosse la madre della mia ragazza lo avevo scoperto solo un minuto più tardi quando avevamo fatto la stessa strada fino allo stesso portone, perciò per me non conta. Per lei evidentemente si, perché è una donna rancorosa, e questo suo astio nei miei confronti non mi aveva reso le cose più facili quando il mio rapporto con Federica era peggiorato. Ultimamente il nostro matrimonio sembrava finito in un vicolo cieco, ci si parlava poco, e spesso per rinfacciarsi stupidaggini, e si passava un mucchio di tempo separati: se io ero in cucina a leggere lei stava in salotto davanti alla televisione, appena spuntavo di là lei si ricordava di avere l’armadio da riordinare in camera da letto. Le distanze sono un concetto relativo anche in un appartamento condominiale lontano dal centro, quando non vai d’accordo col tuo coinquilino.
Non lo so perché ci eravamo allontanati fino a quel punto, forse non c’erano più argomenti di cui parlare, forse non c’erano mai stati e avevamo sempre fatto finta di non saperlo perché stare da soli ci sembrava un destino peggiore. Non lo so, e neanche m’interessa, le storie finiscono e cambiare è giusto e necessario, e anche in quei giorni aspettavo che il nostro malato terminale tirasse finalmente le cuoia per raccogliere i miei stracci e andarmene verso una nuova vita più soddisfacente. “Non potevi prendere tu la decisione?”, mi chiederà qualcuno. No, sono un vigliacco, e poi farsi lasciare ti mette in una posizione di vantaggio nella spartizione dei beni comuni, e quell’appartamento era davvero confortevole.

La signora Violetta Francioso per come la ricordo.

Insomma, l’unica persona convinta che le cose fra me e Federica potessero continuare era proprio l’ultima che avrei visto a difendere la santità della nostra unione: la signora Violetta, mia suocera. Si era invitata a pranzo da noi quel giorno per cercare di salvare un matrimonio in crisi, o impedire a quella cretina della figlia di rompere per prima, rinunciando così ai vantaggi di cui sopra.
E fu così che mi ritrovai in piedi in mezzo al salotto con una macchia indelebile sul cuore, le schegge pericolose di una donna che mi detestava e la tempesta perfetta appena dietro la porta. C’è gente che si è sparata in faccia per molto meno.

La prima cosa che mia moglie vide fu il gatto: le si fiondò in mezzo alle gambe soffiando come un cobra e mandandola a sbattere contro lo stipite della porta. Lasciava una scia di zampette rosse sul pavimento, doveva essersi tagliato con una scheggia; per come la vedevo io se il gatto era ferito la colpa era di quella cicciona malvestita e dei suoi soprammobili letali. Uno a zero per me.

La vista del sangue fece dimenticare a Federica la ragione per cui mi aveva raggiunto in salotto, si precipitò dietro alle impronte rosse come Pollicino, lasciandomi il tempo di pensare a una via di fuga.

Mi levai il maglione e lo usai per raccogliere i cocci in un unico mucchietto. Ce n’erano ovunque, sul divano, sul tappeto, pezzi di Sacra Famiglia erano volati fin sotto la finestra, non proprio ciò che il Papa intende quando parla di “diffondere il verbo”, ma ognuno fa quel che può, no?
Usando l’ex-regalo della mia quasi ex-moglie come un guanto raccolsi il mucchio di vetri e mi affacciai in corridoio con circospezione: nessuno. La porta di casa era aperta, forse stava correndo dal veterinario col gatto sanguinante in braccio. Meglio, potevo sbarazzarmi del corpo del reato senza testimoni.
Feci quattro passi verso la cucina, ma ne uscì Federica, e quasi ci sbattemmo contro. Aveva il gatto in braccio, gli aveva fasciato una zampa. Lo sguardo di lei cadde su ciò che io tenevo in grembo, e a vederci da fuori, uno davanti all’altra, io che guardo un involto nelle mani di mia moglie, lei che guarda il mio, tutti e due agitati e scompigliati, dovevamo essere proprio ridicoli. Però la signora Violetta non stava ridendo. Era apparsa come dal nulla nella cornice della porta aperta, e ci fissava come un arbitro di boxe pochi attimi prima di dare il via al match.

Ecco, quello fu un santostefano felice. Cioè, no, nella classifica dei miei momenti più imbarazzanti sta subito sotto quell’altra volta in cui la signora Violetta scelse il momento sbagliato per entrare in una stanza. Ripensandoci è incredibile come quella donna riuscisse sempre ad entrare in scena nel momento peggiore, doveva avere una specie di sesto senso: “Il mio senso di suocera sta pizzicando! Spalanchiamo questa porta e vediamo cosa succede qui dietro!”
Però a distanza di anni non posso dire che quello fu un brutto giorno di santostefano, perché una volta rassicurati i vicini e i carabinieri che avevano chiamato, convinti che ci stessimo ammazzando, finì tutto per il meglio: Federica se ne andò in lacrime, sua madre se ne andò in lacrime, il gatto non so, credo che se sia andato alla chetichella e da allora non ho più visto nemmeno lui.

Adesso ho un altro gatto, vivo in un altro appartamento e sono tornato a trascorrere degli orrendi santistefani piovosi in cui non succede niente, talmente niente che arrivo a rimpiangere quei bei momenti carichi di tensione. Quasi quasi mi risposo.

Funziona così: si prende una scena di un film e si sostituisce un elemento importante della storia con un altro, cambiando completamente il contesto, ma cercando di matenere la struttura il più possibile fedele all’originale.

Per esempio, ecco una scena che conosciamo tutti:

Ora, che succederebbe se invece del bicchiere volasse una teiera, come è stato suggerito nei commenti di un gruppo che ho iniziato a frequentare e che poi magari vi racconto?

La teiera

Il carrello avanzava piano sulle piastrelle che odoravano di lisoform, seguito da una manciata di occhi attenti. Nella grande sala non si udiva alcun rumore, tranne il respiro affannoso di qualche ospite più malandato degli altri, o lo scricchiolio di una sedia: alle cinque tutto si fermava, i giocatori di carte riponevano il mazzo, la televisione veniva spenta, l’uomo al tavolino riponeva le parole crociate, e tutti si mettevano a fissare la porta a molla che conduceva alla cucina, in attesa dell’infermiera.
Era l’ora del tè, un rito celebrato con la solennità di una messa per gli ospiti della casa di riposo Villa Ebe; forse perché oramai, persi i parenti e gli amici, non avevano più nient’altro da aspettare che quello, nell’amara quotidianità in cui si era trasformata la loro esistenza, il tè delle cinque era l’ultima parentesi di dolcezza. Fosse stato anche saccarosio.

La giovane in divisa avanzava con la schiena rigida, intimorita dagli sguardi che sentiva addosso. Era stata assunta da poco, non aveva ancora acquisito la disinvoltura delle sue colleghe, e spingeva il portavivande con piccoli movimenti nervosi, facendo tintinnare il servizio in porcellana ikea.
Si fermava accanto ai tavoli, versava il tè e deponeva la tazzina sul tavolo di formica con movimenti rapidi. Qualcuno chiedeva un velo di latte, qualche goccia di limone, e l’infermiera cercava di accontentarli mantenendosi a distanza, come per timore che la persona che le sedeva davanti potesse infettarla con la sua vecchiaia.
Quando giunse al tavolo della signora McMurphy, una donnina magra e tremante a causa di una lunga malattia, i suoi gesti si fecero ancora più goffi nel tentativo di accelerare quella pratica penosa, e forse fu quello a causare l’incidente.
La signora McMurphy allungò il braccio in avanti, schiaffeggiò la teiera che la ragazza teneva in mano e la mandò a frantumarsi sul pavimento.
AAAAAH!!! Fecero tutti gli ospiti in coro, soprattutto quelli che ancora aspettavano di essere serviti.
AAAAAH!!! Fece l’infermiera, scioccata.
AAAAAH!!! AAAAAAH!!! Fece la signora McMurphy che si era trovata improvvisamente inondata di acqua bollente.

La porta della cucina si aprì di scatto e fece il suo ingresso la capo infermiera, signorina Ratched, una corpulenta bionda sui sessanta/ottanta, dove solo i primi sono da considerarsi anni.
Dotata di una forza micidiale e metodi brutali, acquisiti in una lunga corvèe presso la base militare di Daychopan, fra le impervie rocce afghane, la capo-infermiera era il terrore dell’istituto.
Qualcuno dei più longevi ricordava ancora di un episodio finito in tragedia, diversi anni prima: un ospite dei più difficili, un mezzo indiano sordomuto, aveva subìto un brutto trattamento per essersi rifiutato di terminare il riso bollito. Umiliato e desideroso di vendetta l’aveva seguita in bagno, dove aveva tentato di strangolarla; la donna era riuscita a liberarsi dalla sua presa, poi aveva scardinato un lavandino usando solo le mani e gliel’aveva tirato addosso, uccidendolo sul colpo. Non c’erano state conseguenze legali, la vittima non aveva parenti e la direzione era riuscita a far passare l’accaduto come un incidente, ma da allora nessuno osava neanche fiatare quando lei era nei paraggi.

“Che sta succedendo?”, echeggiò nella sala, di colpo muta come un relitto sulla spiaggia.
Le bastò un’occhiata per capire tutta la storia, ma le giornate a Villa Ebe erano talmente noiose che non le sembrava vero di potersi divertire un po’.
“Nessuno esce di qui finché non scopriamo chi è stato!”

L’infermiera giovane era ai suoi primi giorni di lavoro, e la sua superiore non l’aveva incontrata che al colloquio di assunzion;, ignorava le storie su di lei ed era convinta di dover rispondere soltanto alla direttrice, per questo la sua risposta fu più sgarbata di quanto la signorina Ratched fosse disposta a tollerare.

“Chi cazzo sei tu?”
“Siii!!”, esclamò il donnone, e mollò una testata in faccia alla collega, poi un calcio alla signora McMurphy, che oltre ad essere stata inondata di acqua bollente si trovò stesa sul pavimento con una costola incrinata, e pensò che ne aveva avuto abbastanza di quella vita di merda, e spirò. Gli altri vecchietti si alzarono tutti in piedi in un’imitazione piuttosto fedele degli ominidi davanti al monolito nero di un vecchio film di fantascienza, e cominciarono a protestare che non se ne poteva più di quei modi brutali, e che a loro il tè non era ancora stato servito e la signora McMurphy ne aveva ricevuto più di tutti gli altri, e si strinsero in cerchio intorno alla capo-infermiera, che non godeva più tanto, a vedersi circondata da quell’orda di vivi morenti, e cominciava a chiedersi come tirarsene fuori. Quando il primo piattino la colpì alla tempia con una forza che non si sarebbe aspettata da quei corpi decrepiti smise anche di sorridere.

Il bouquet

“Guardala! Pare ‘na zoccola!”
“Magda!”
“Che? E guardala! Che è, un vestito quello? Tutto trasparente! E la gonna? Che, non aveva i soldi per comprarla?”
“Abbassa la voce, sei in chiesa!”
“Eh! Proprio! In chiesa! E che si va vestiti così in chiesa? Con tutte le tette di fuori? Scommetto che al prete gli è venuto duro!”
“Magda!”
“Che? Ai preti non gli viene?”
“Piantala con ‘sti discorsi! Stai parlando di tua nuora, insomma!”
“Ah che allegria, proprio!”
“Sst! Stanno dicendo quella cosa del giuramento!”
“Ma la senti? Con questo anello ti spuoso! Ti spuoso, dice! Vent’anni che sta in Italia e manco a parlare ha imparato!”
“Oh, ebbasta! È a tuo figlio che deve piacere, mica a te! E se non sa parlare si vede che è brava in altre cose.”
“E lo so io in cosa è brava, quella!”
“E la finisci! Ti ha pure sentito la madre della sposa, ma che figura!”
“Be? E che si guardi! Se guardava di più quella zoccola che c’ha per figlia adesso non eravamo qui a fare ‘sto teatro!”
“Appunto, un teatro stai facendo! Statti zitta, che tira il bouquet!”
“Ah!”
“Occazzo! Ti ha fatto male?”
“…”
“Magda?”
“..va bene. Va bene! Mi sono presa dei fiori in faccia, va bene! Adesso non se ne va nessuno finché non viene fuori chi è stato a presentare a mio figlio ‘sta zoccola, va bene?”
“ты ранен?”
“Sii!”

“Passiamo alle notizie di cronaca. Un matrimonio è terminato in rissa, ieri, presso la chiesa di Nostra Signora Delle Anime Addolorate Crocifisse, quando la madre dello sposo ha ricevuto in faccia il bouquet lanciato dalla nuora. A farne le spese è stato il padre di lei, avvicinatosi per prestarle soccorso, e rimediando invece un calcio ai genitali.
Non parlo la loro lingua, credevo mi stesse insultando. – si è giustificata in seguito la donna.
Il gesto violento ha scatenato la reazione dei parenti, e in breve si è accesa una rissa che ha coinvolto tutti i presenti all’interno dell’edificio, compreso il parroco, due suore e tutti i chierichetti.
Solo l’intervento delle forze dell’ordine ha potuto riportare la calma, lasciando sul terreno diversi contusi che hanno dovuto essere medicati al pronto soccorso, e naturalmente il matrimonio appena nato, la cui rottura sembra irrimediabile.”

Niente

Due eserciti schierati si studiano in silenzio. Da una parte ci sono soldati con elmi e armature, stemmi che campeggiano sugli scudi lucidi; dall’altra i ranghi sono meno serrati, spuntano pietre e pezzi di legno, le bandiere sono brandelli di stoffa, ma nessuno prova vergogna a farle sventolare sopra la testa. Disciplina e rabbia si confrontano, separati solo da pochi centimetri di asfalto, se qualcuno allungasse una mano potrebbe appoggiarla sulla spalla dell’avversario, ma nessuno lo fa. Ci sono state scaramucce fino a ieri, ma stamattina nessuno si muove. Hanno gridato, impartito ordini, cadenzato canti di guerra, ma adesso nessuno fiata. Stanno aspettando, sanno che se ci sarà battaglia sarà l’ultima. È finito il tempo delle minacce e delle provocazioni, questo è il giorno in cui si decide il destino degli uomini su quel terreno, e alla fine della giornata qualcuno dovrà andarsene con le buone o pagarne le conseguenze.
L’estate picchia sulle teste dei soldati, quelli che indossano un elmetto si sentono come dentro una stufa, e magari è questo che scalda i pensieri di qualcuno, l’idea che in una bella giornata così non bisognerebbe combattere, che non esiste nessuna ragione sufficiente a farti stare fermo in mezzo a una strada intabarrato in una divisa antisommossa perché qualche figlio di nessuno si è messo in testa di giocare all’idealista. Idealista di cosa, se poi sei il primo a sfruttare gli altri perché non hai voglia di cercarti un lavoro, e domani tornerai sul marciapiede a chiedere l’elemosina per te e per il tuo cazzo di cane.
Sul fronte opposto la pelle resa scura dal sole è lucida di sudore, e l’aria sopra quell’esercito senza armi odora di cipolla e di resina, e si, anche di ideali, che si schiantano contro gli scudi trasparenti di questi servi del potere. Ma non oggi, oggi vinceremo noi poveri, noi onesti, noi il popolo libero degli edifici occupati. Spaccheremo quelle teste dentro i caschi, gli faremo ingoiare tutte le minacce e le cariche ingiustificate e i morti ammazzati da nessuno.

Un grido esplode fra le prime linee, una divisa si affloscia. Il rumore che si propaga in cerchi sempre più ampi è il suono che fa l’odio, e si allarga e cresce in grida che diventano gesti che diventano mani che sollevano armi..

“Va bene! Si è preso una sassata! Adesso di qui non se ne va nessuno finché non viene fuori chi è stato!”
“Ma che cazzo dici! Non si è preso proprio un cazzo di niente, fa solo finta!”
“ssii”

..che si abbattono.

Quando comincia la bella stagione mi capita di trovarmi in macchina in viaggio verso Genova, e finire improvvisamente imbottigliato in una di quelle code che sai quando ci entri e non sai quando ci esci, e non è mai una bella sensazione. All’inizio magari si, abbassi i finestrini, ascolti l’allegro cinguettio dei gas di scarico del camion alla tua destra, e speri di cavartela con dieci minuti di ritardo, ma ci sono delle volte in cui scopri che ce ne devi aggiungere qualcuno di più prima di arrivare a destinazione.
Io per esempio l’altra sera ce ne ho aggiunti centodieci. Due ore per andare da Ronco a Nervi, e va bene che si chiama Nervi, ma non significa che deve per forza farmici arrivare nevrastenico. Aggiungete poi una buona mezz’ora per arrivare a San Desiderio, che quando comincia a farsi l’ora di cena e sei a stomaco vuoto e sei inscatolato in macchina da ore, è più di un santodesiderio, somiglia a una specie di allucinazione mistica.

Io lo so chi è che provoca le code, ne ho anche già parlato da qualche parte qui sopra, probabilmente in una stagione simile a questa, sono i Milanesi Che Vanno Al Mare. Sono la categoria peggiore che esista, anche più dei famigerati Tedeschi In Gita Sul Lago. Se dovessi stilare una classifica dei mezzi di trasporto più lenti che si possano incontrare per strada questa vedrebbe i Tedeschi In Gita Sul Lago soltanto secondi, e il Carro Dei Monatti addirittura terzo. I primi sono sempre loro, i maledetti Milanesi Che Vanno Al Mare, sfreccianti giù per la A7 nei rettilinei fino a Serravalle, ora ribattezzata Serravalleautlet, cauti nelle prime curve fino a Busalla, paralizzati nel tortuoso tratto appenninico. Non importa che siedano su macchine dotate di ogni sicurezza, dall’abs alle ruote cingolate, ogni volta che incontrano una curva, sebbene di lieve entità, frenano in corsia di sorpasso, scalano quinta seconda, avanzano ai quindici all’ora nonsisamai metti che dietro la curva si apre un baratro pieno di coccodrilli un camion ribaltato in fiamme un chiosco abusivo di gelati o piadine, che quelli delle piadine sono inarrestabili, li aprono ovunque, in continua concorrenza con l’arabo dei kebab. E tu dietro non puoi far altro che assecondarli, maledicendo l’ingegnere della motorizzazione che li ha patentati, e aspettare che si degnino di liberare la corsia e andare a parcheggiare nelle apposite piazzole.
Ma no, loro possiedono auto di cilindrata a sedici zeri e prezzo a ventiquattro, non si abbasserebbero mai a occupare la corsia di destra, non è sufficientemente nobile per i loro lussuosi e potenti veicoli, così mostrano tutta la propria incapacità nella corsia più esterna, impedendo il sorpasso a chi si trova dietro.
Quando dietro ci sono solo io pazienza, mi tolgo la soddisfazione di restituire loro gli abbaglianti con cui mi hanno allietato nel breve rettilineo qualche chilometro prima, e appena possibile mi gonfio come un tacchino facendomi strada con la mia modesta lanciaipsilon; ma quando dietro c’è tutta la Valle Scrivia, il Basso Piemonte e buona parte di Lombardia con qualche accenno di Svizzera, Francia e Germania, allora sono cazzi. Allora basta uno di questi figli di una tangenziale per paralizzare tutto il paralizzabile.

Questa considerazione la posto alla vigilia di un esodo che si prospetta lungo e difficoltoso, fino a Moneglia, in una domenica assolata e trafficata, ma soprattutto di ritorno da Moneglia, quando il uicchend lungo sarà agli sgoccioli, e tutti i Milanesi Che Vanno Al Mare si trasformeranno nei non meno pericolosi Milanesi Che Tornano Dal Mare, e si immetteranno in autostrada tutti insieme con le loro grosse macchine che non sanno stare a destra, e tutti vorranno sorpassare chi gli sta davanti, e si creerà un lunghissimo ingorgo nel quale, ci scommetto, verrà a trovarsi una piccola indifesa lanciaipsilon, che non aveva altra colpa che di essere stata invitata a un matrimonio in Riviera.

Stavolta però mi faccio furbo, mi porto dei fumetti e un panino.