E insomma sono stato a Parigi, che è come Torino ma più grossa e molto più cara, e a differenza di Torino è strapiena di italiani. Ora qualche lettore di vecchia data si ricorderà del mio punto di vista riguardo i nostri connazionali all’estero, ma per i nuovi arrivati credo sia necessario fare un riassunto: li detesto con tutte le mie forze. Se li vedo mi allontano, se mi ci trovo in mezzo fingo di non capire la loro lingua, se li sento parlare mi parte subito il pregiudizio, e me ne vergogno un po’, perché sono sicuro che gli italiani all’estero non sono tutti uguali, ed essendo io stesso all’estero con loro significa che o sono uguale a loro o il mio pregiudizio è sbagliato, perciò dovrei tacere.

Tuttavia l’idea che l’italiano nel mondo sia una delle specie in natura più vicine alla scimmia urlatrice durante l’accoppiamento mi resta appiccicata addosso ogni volta che varco i confini nazionali.

La cosa brutta è che gli italiani all’estero non fanno che confermare questo mio pregiudizio, rendendomi difficile superarlo.

Ecco alcuni esempi di italiano all’estero durante la mia ultima visita a Parigi:

  • Signore over 40 sul treno che mostra alla sua compagna tutti i video della vacanza a un volume che se fossimo allo stadio quando la mia squadra segna probabilmente lo sentirei lo stesso;
  • Signora che sullo stesso treno decide di rendere l’aria più gradevole al suo naso e spruzza del profumo in tutta la carrozza;
  • Signora che racconta di essere entrata al Louvre solo per fotografare la Gioconda e di essere uscita subito perché c’era troppa gente;
  • Signora che la Gioconda l’ha fotografata ed è riuscita a entrare e uscire in meno di venti minuti. L’ho fatto anch’io la prima volta che sono stato a Parigi, ma facevo seconda media ed ero in vacanza con una persona che i musei non li frequenta e, spiace dirlo, appartiene a quella categoria di italiani all’estero da cui mi tengo alla larga;
  • Signore che, sempre sul tema Gioconda, ha espresso ad alta voce il desiderio di riportarla in Italia;
  • Signora al Musèe d’Orsay che spiega a un ragazzino quella sensazione di smarrimento che si prova davanti a un’opera d’arte, nota come Sindrome di Stoccolma.
  • E vorrei chiudere ricordando della signora incontrata qualche anno fa a Londra, in una cappelleria di Regent Street.

Poi io sono di quelli che i francesi non sanno fare il caffè, quindi cosa mi lamento a fare dei miei connazionali quando faccio le stesse cose, ma perlomeno cerco di non farmi notare e nei musei come nelle chiese tolgo la suoneria al telefono, non bercio e rispondo educatamente. E rispetto la fila, pezzi di merda.

E comunque questa cosa del caffè va approfondita. Per anni ho creduto che un caffè buono fuori dall’Italia fosse impossibile da ottenere, ma l’esperienza mi ha smentito più volte. Negli anni ho bevuto caffè dignitosi in tutto il Portogallo, a Barcellona, da un tizio con la motoretta per strada a Praga, a New York, a Londra e perfino a Guiyang, nel sudovest della Cina, ma qualunque locale francese, che sia Parigi o Marsiglia, ti riempie una tazzina di una bevanda che sa solo vagamente di caffè. Sono giunto alla conclusione che siano proprio loro a volerlo così, come gli americani amano il bicchierone di brodazza i francesi preferiscono questa specie di tè. E non lo fanno solo col caffè, in un locale di fronte al Palais du Luxembourg ho chiesto una cioccolata calda e mi hanno portato quella roba che la macchinetta al lavoro mi propina quando si rompe l’erogatore del latte: acqua, zucchero e una spruzzata di polvere di cacao.

A parte i miei connazionali, e il dramma del caffè, il viaggio a Parigi è andato molto bene, ho speso diverse migliaia di soldi in cose indispensabili tipo mangiare o comprarmi delle scarpe fighissime e ho scoperto nuovi angoli della città ancora sconosciuti nonostante fosse la quarta volta che ci andavo.

Non mi metterò a riportare il solito diario di bordo perché quello della Cina si è trascinato per undici episodi, e qui non credo neanche sia necessario, in fondo Parigi bene o male la conosciamo tutti, è una città europea più o meno uguale a quelle che abbiamo qui da noi e nessuno fa cose particolarmente strane o insolite, a parte incazzarsi col governo e fare casino finché non ottengono qualcosa.

Ecco quindi una lista di aneddoti e brevi recensioni che potrebbero tornare utili nel caso doveste recarvi nella capitale della Francia. Potete anche leggervi quella che ho scritto la volta scorsa, che si trova qui.

Il TGV
Puoi prenderlo da Milano Porta Garibaldi o, come noi, da Torino Porta Susa. Parte alle sette e qualcosa e in stazione la mattina del primo gennaio non c’è un cazzo di bar aperto che ti prepari un caffè. E fa un freddo cane.

Il treno in seconda classe è poco differente da una seconda classe di un qualunque interregionale, tranne che i sedili si inclinano un pochino senza disturbare chi sta dietro e hai un tavolino pieghevole come quelli degli aeroplani. E ci si dorme malissimo.

E infatti non si è dormito neanche un po’

Marais
Il Marais è quell’area cittadina che si estende fra il 3° e il 4° Arrondissement, dove Arrondissement è come l’amministrazione parigina chiama i suoi quartieri. Ce ne sono venti e vengono contati a spirale dal centro. Quindi quando trovate un airbnb che sta nel diciottesimo arrondissement lo scartate convinti che sia lontanissimo, e invece per 45 soldi a notte potevate dormire nel quartiere dei pittori a Montmartre, stolti!

Noi stavamo nel Marais, appunto, a cinquanta metri da Place des Vosges, in un monolocale grande come il mio bagno dove se uno doveva fare la cacca l’altro usciva per non sentirsi come quando porti il cane a fare i suoi bisogni, che si spreme e intanto ti guarda.

Place des Vosges ospitava gli aristocratici e i nobili prima della Rivoluzione, ancora adesso è possibile visitare la casa di Victor Hugo e diversi edifici di un certo pregio estetico. Dopo la Rivoluzione di nobili non se ne trovavano più, e in piazza si sono trasferite le gallerie d’arte. Ce n’è una ogni due metri, tutte specializzate in quello che va di più oggi, l’arte contemporanea. E la street art: quando le cerchi su internet tutte le gallerie ospitano opere dei nomi più famosi, come Banksy o Obey. Poi ci vai e trovi una statuetta di Minni fucsia. Però sono divertenti, me ne sono girate tipo mille in uno spazio di dieci metri quadri.

Place des Vosges

Il resto del quartiere è tutto negozietti, boutique hipster che dopo la quarta scopri che vendono tutte gli stessi articoli, gli stessi gioielli, lo stesso modello di cappotto. Come i negozi etnici si servono da un unico fornitore thailandese così le boutique hipster parigine riempiono i loro scaffali coi prodotti di un’azienda coreana, di proprietà di un signore che ha studiato arte moderna e ha i baffi.

Nel Marais si trovano anche il grosso della comunità LGBT e di quella ebraica, ma entrano in contatto solo quando nel privè del cruising bar si scopre che uno dei due è circonciso.

La Tour Eiffel
Ci sono stato sopra la prima volta, da bambino, e ammetto che mi piacerebbe tornarci, che ho una fissa per i palazzi alti, sarà che sono rimasto dodicenne, ma da allora ogni volta che ci capito sotto è un incubo di gente, e desisto.

Oltretutto sembra che con gli anni vada sempre peggio.
Per dire, a me piace arrivarci dal Trocadero, il palazzo che ci sta di fronte: esci dalla metro, giri l’angolo e te la trovi davanti, tutta insieme. L’ultima volta che sono stato a Parigi l’effetto è stato quello, di sorpresa.
Adesso appena sali le scale e sbuchi in strada devi scavalcare una marea di ambulanti che coprono la strada di piccole torri di plastica con le lucine o ti vendono l’ombrello, e di turisti che contrattano o cercano di passare.
E ti saluto effetto sorpresa. In più giri l’angolo e c’è un muro di gente lungo tutta la balaustra e sulle scale, tutti col telefono in mano a farsi selfie. Io così tanta gente al Trocadero non ce l’avevo mai vista, ci sono rimasto male.

A questo punto molto meglio regalarsi il primo incontro con la Torre dal finestrino della metro: se prendi la 6 da Montparnasse passi sul ponte di Bir-Hakeim, e te la trovi accanto, vicinissima e solitaria.
Sotto lo stesso ponte, se siete di quelli come me che amano visitare le locations dei film, ci hanno girato una scena di Inception.

L’altro ottimo sistema per godersi la vista senza prendersi a spallate è scendere al fiume prima di attraversare il ponte: non c’è praticamente nessuno, e quando cala il sole le luci della struttura si riflettono nell’acqua, regalandoti un’inarrivabile atmosfera da limoni.

Dopo un po’ finisce per piacerti

Montmartre
Anche qui i turisti si sprecano, e anche in questo caso per delle attrazioni vabbè.
Vai a Pigalle, che è appena sotto la collina, e non c’è nessuno fino al tramonto, anche perché ci sono soltanto sexy shop e locali di striptease, finché non aprono cosa ci vai a fare? C’è qualcuno che fa le foto al Moulin Rouge, ma a quell’ora c’è sempre il camion davanti che scarica le bottiglie.
Sali un attimo per Rue Lepic, che sta proprio accanto al mulino, e sei in mezzo al set di Amélie, c’è il cafè Deux Moulins con una decina di fotografi davanti, perlopiù cinesi, e diversi negozi di chincaglierie. Sali ancora fino a Rue des Abbesses e turisti non ce n’è più, e neanche negozi di magneti da frigo. In fondo alla via c’è la stazione della metro più bella della città, ma questo ve l’ho già detto l’altra volta.
Saliamo ancora in Rue Tholozé, una stradina ripida che non offre nessuna attrattiva e infatti cosa ci saliamo a fare. Ci saliamo perché lì davanti, sulla collina, ben visibile dalla strada, si trova l’unico mulino che vale la pena ricordare, quello che si chiama Radet, ma che tutti conoscono come Le Moulin de la Galette. Quello dei quadri di Renoir e Van Gogh.
A quel punto puoi continuare a salire o tornare indietro e prendere un’altra strada, ma tanto lo sappiamo che arriverai in cima, alla piazzetta dei pittori. È lì che vanno tutti i turisti, non ci si scappa. E loro, i fetenti, lo sanno. Tutti lì li trovi, quelli bravi e originali che vorrebbero vivere del proprio talento e gli altri, che sono la maggior parte, che ti propinano le solite caricature, i ritratti, i paesaggi coi colori sparati che fanno un casino alternativo, e le stesse crostone tutte uguali che ritrovo ogni volta che scendo giù per Via San Lorenzo, a Genova.

L’altra grossa attrazione del quartiere è la chiesa, le Sacré-Coeur, con le sue cupole bianche e la pianta a croce greca, nonostante non sia niente di speciale. Ma ha una forma particolare, da chiesetta disneyana, e sta in cima a un monte da cui si gode di una bella vista di Parigi, e poi non sottovalutiamo che ha la parola “cuore” nel nome, c’è ben più del necessario per farla diventare oggetto di interesse per i turisti di tutto il mondo. Per questo oggi ci sono anche truppe di ambulanti che ti vendono i lucchetti a forma di cuore da appiccicare alla ringhiera, come se non ce ne fossero già abbastanza di cazzate e di coglioni che le seguono, puttana la loro mamma.

Altro set, ma del tutto ignorato dai turisti nonostante i richiami al film siano ovunque

Green Tea House
Un piccolo ristorante vietnamita in una delle mille traverse di Champs Élisées, ma se vuoi sapere dov’è di preciso puoi cercarlo su google.
Gestito da una coppia dove lui cucina e lei sta al banco e serve i tavoli, che sono quattro, è il posto migliore che ho trovato in città per mangiare il pho, la zuppa con gli spaghetti e la verdura che cucinano in ogni Paese dell’estremo oriente, ognuno a modo suo. Per esempio i cinesi fanno il tanmian, che per un vietnamita è una roba completamente diversa, ma per me è un’altra zuppa con gli spaghetti e la verdura. Capire le culture diverse dalla nostra è più difficile di quanto si creda.
Non che questo vi autorizzi a sputarci sopra, teste di cazzo.
Comunque i prezzi sono contenuti, che per Parigi è raro, e la qualità notevole. Due giorni dopo abbiamo provato un altro vietnamita vicino a casa, scrauso nell’aspetto e tremendo nel sapore. Non vi dico come si chiama, ma sta vicino a una pasticceria ebraica.

Louvre
Il biglietto costa 17 euri, e ci sta, che ti permette di entrare nel museo più grande del mondo, però sarebbe meglio farlo online, perché la coda alla biglietteria è la più lunga del mondo, e già visitare tutto il museo richiede qualche ora, perché perderne altrettante fuori al freddo?
E già che ci siamo, quando dovete entrare non è necessario farlo attraverso la piramide di vetro che sta al centro, potete usare una qualunque delle entrate laterali. Quella meno affollata si dice essere la Porte des Lions, che se vi trovate con la piramide davanti e il giardino dietro si trova alla vostra destra, in fondo alla lunga ala dell’edificio. Ci sono due leoni all’ingresso, dai, non è difficile.
Quando ci siamo entrati noi erano le cinque, e non c’era nessuno. Nel vero senso della parola, nessuno, né gente che entrava né impiegati del museo a controllarti il biglietto. Solo un addetto al metal detector, che ti mette lo zaino sul nastro e ti passa la paletta addosso. Superato quello ci siamo trovati dentro il museo, coi visitatori che andavano in bagno e quelli fermi sulle scale a capire dove sta Monnalisa (sta lì vicino, peraltro). Vabbè, ce lo controlleranno più avanti. No, quello è un quadro, i quadri stanno dentro il museo, quindi noi stiamo dentro il museo coi quadri, nessuno ci ha controllato i biglietti, abbiamo speso 34 soldi per niente. Abbiamo aiutato il museo, mettila così.

Le opere all’interno non c’è bisogno che ve le descriva, uno entra al Louvre anche solo per godersi i corridoi con le tele gigantesche appese.

Bonvivant
Un café nel Quartiere Latino, incontrato per caso e scelto senza fare troppa attenzione. Ci è andata bene, l’arredo è moderno, in legno chiaro, accogliente, e il personale è giovane e sorride a tutti. Le porzioni sono proporzionate al prezzo, che è proporzionato alla città. Insomma, costa un botto, ma almeno mangi. E mangi bene, devo dire. All’uscita abbiamo scoperto che il locale è consigliato dalla guida Michelin. Ah ecco perché.

Institut du Monde Arabe
Sta vicino al locale di cui sopra, in fondo alla via, e nel mezzo ci sono un casino di fumetterie, quindi per arrivarci ti ci vuole mezza giornata. Non so molto di questo posto, ci sono entrato perché avevo appuntamento lì fuori con una coppia di amici e faceva freddissimo. Ha una terrazza panoramica all’ultimo piano da cui vedi Notre-Dame, e una libreria che non ho avuto tempo di esplorare, ma sembrava ricca. C’è anche uno spazio in cui si organizzano mostre multimediali, mentre eravamo lì ce n’era una che presentava una ricostruzione virtuale di Palmira.

Musèe d’Orsay
Credo di avere già detto tutto altre volte, prima la coda eterna la evitavi comprando il biglietto online, adesso ti becchi la coda eterna di chi ha comprato il biglietto online. C’è sempre il chiosco di fronte all’entrata dove puoi comprarlo sul momento allo stesso prezzo, e senza aspettare, ma poi l’ingresso è comunque soggetto ad attese che ci sta dentro comodo un paio di episodi della vostra serie TV preferita.
Una delle guardie, molto scortese, ha attaccato a gridare a un signore che chiedeva informazioni, e non si sono menati perché è arrivato il suo capo e l’ha allontanato, ma se il tuo lavoro è avere a che fare con la folla e la tua attitudine è quella di menare chi ti fa domande con insistenza forse dovresti cercarti un altro lavoro. Tipo l’ultras allo stadio.
Che altro posso dirvi di uno dei musei più visitati al mondo? Che il guardaroba è veloce e gratuito, lasciateci la giacca, ne vale la pena.

Centre Pompidou
Un altro museo enorme, una struttura di tubi colorati che giace in mezzo alle case con l’armonia di un gatto sdraiato nel presepe. Qui la coda per entrare è lunghissima, ma solo se vai a vedere la mostra dei Cubisti al primo piano, o se non hai già comprato il biglietto. Noi figli del digitale, come al solito, ce lo siamo fatto online, così entriamo subito e ci troviamo a condividere lo stesso atrio con quelli dell’altro ingresso. E alla biglietteria non c’è nessuno. Io davvero boh.

L’esposizione permanente del Centro Pompidou copre tutto il periodo dal Fauvismo all’arte contemporanea, perciò andrebbe visitato subito dopo quello degli Impressionisti di cui ho parlato prima. Sia la permanente che la mostra sui Cubisti sono esaustive, con grossi pannelli informativi a spiegarti i chi e i perché, e qualche opera apparentemente scollegata a fornire le note a piè di pagina. Tipo una grossa vetrina piena di maschere africane per introdurre una sezione dedicata a Picasso, cose così.

All’ultimo piano c’è un ristorante in cui mio padre mi ha portato durante la mia prima visita in città. Era un buffet, costava poco e ti davano un casino da mangiare, e ci andavamo tutti i giorni, a farci delle piattate di qualcosa che non ricordo ma aveva le salsine sopra e a guardare la città, che da lassù se ne vede un sacco. Oggi c’è ancora un ristorante, ma decisamente più raffinato, e sulla terrazza a guardare la città non ci siamo stati perché faceva un freddo che ti gelavano anche le bestemmie.

Fuori dal Centro Pompidou ho da segnalare due cose interessanti: una è un piccolo negozio di falafel, Falafel du Liban, sta alla fine di Rue Rambuteau, a cinquanta metri dal museo. È piccolo, con due tavoli se vuoi stare dentro, e prepara la shawarma più buona che ho mai mangiato.
L’altra nota a margine è Banksy. Il più famoso street artist al mondo ogni tanto compare con qualche opera nuova, in giro per il pianeta, e inizia la caccia: i giornali ne parlano, la gente va a vederlo, il proprietario del muro su cui è comparsa lo rimuove per rivenderselo a cifre paurose o gli altri artisti lo vandalizzano. L’anno scorso, alla fine di giugno, nove suoi disegni sono comparsi in città. Fosse stato per me li avrei scovati tutti e nove, ma non viaggiavo da solo, e la mia fidanzata aveva altre priorità, essendo la sua prima volta nella capitale francese. Mi sono accontentato di quello appena fuori dal Centro Pompidou, su un pannello nella stessa Rue Rambuteau di prima.

sì, quello che tiene in mezzo alle gambe è il suo grosso arnese

Cimitero di Père Lachaise
Ogni volta che vado a Parigi faccio un giro dei cimiteri, ma se sono stato tre volte in questo non mi è mai capitato di entrare in quello di Montparnasse. Stavolta la mia visita è breve, assecondo i desideri confusi di Shasha, convinta chissà perché che i cimiteri debbano essere tutti pianeggianti, e che in dieci minuti ti giri tombe dove chissà, magari la celebrità che la occupa ti fa pure un autografo. Quando scopre che non ci sono cartelli e grosse frecce luminose a indicare il sepolcro che ti interessa perde rapidamente interesse nel luogo e decide di avere visto abbastanza. Il vantaggio di stare con una ragazza cinese è che difficilmente vorrà farsi un selfie sulla tomba di Jim Morrison. A me va benissimo, che la meta successiva è un posto dove non sono mai stato, Belleville.

Belleville
Premetto che, da lettore di Pennac, ho un sacco di ottime ragioni per visitare questo quartiere ed emozionarmi davanti allo Zèbre, e che il tempo a disposizione è stato poco e non sono riuscito a godermi tutto quello che il quartiere offriva, e quindi ahimè dovrò tornarci.
Belleville appare come un quartiere periferico, ha poco in comune con le aree del centro, coi palazzi eleganti e i lampioni art-déco; sembra più uno di quei posti dove loschi personaggi stazionano sul marciapiede e ti fanno venire voglia di attraversare la strada. È abitato praticamente solo da cinesi e da arabi, che si dividono le strade in modo deciso, come si può capire dalle insegne dei negozi.

Ma allora uno cosa ci dovrebbe andare a fare?
Beh, intanto ci sono parecchi graffiti sui muri, un po’ ovunque, se hai tempo e voglia puoi metterti a cercare il tuo artista preferito, capace che lo trovi. Banksy non credo che ci sia, comunque. Invader sì, ma lui è dappertutto in città.
Poi potresti andarci proprio per respirare questa commistione di etnie, che in Francia è abbastanza comune, ma a Belleville è piuttosto intensa; e poi c’è sempre la questione Pennac, se hai letto la saga della famiglia Malaussène non c’è bisogno che ti convinca, probabilmente Belleville era già nella tua lista.

In ogni caso, dovesse capitarti di trovarti lì all’ora di pranzo (credo valga anche per la cena), ti consiglio caldamente di fermarti al Le Tais, un ristorante marocchino dalla sala piccola e dai piatti giganti. È sempre affollatissimo, ma a quanto pare l’attesa per un tavolo non è lunga, e in poco tempo ti siedi in braccio a qualche altro avventore e ti godi un pranzo più che dignitoso. Io a Belleville ci tornerei solo per quel ristorante lì, anche se poi dovrei tenermi la voglia di provare quel cinese sulla strada per il parco, che sembrava interessante, e allora dovrei tornarci una terza volta, e insomma, andare a mangiare con regolarità a Belleville potrebbe risultare dispendioso, meglio trovare qualcosa di analogo a Genova, anche se è più difficile.

Gilets Jaunes
Li ho incontrati sotto l’Arc de Triomphe, di cui non vi dico niente perché cosa vuoi dire di un arco gigante in mezzo a una piazza rotonda da cui si dipanano diversi viali pieni di centri commerciali e negozi costosi? Chiaro che se vi dicessi qualcosa vi parlerei dei centri commerciali, tipo le Galeries Lafayettes dove varrebbe la pena entrare più per la grande cupola colorata che per il negozio in sé, o il Printemps, che ti permette di salire alla terrazza panoramica, o il fatto che a natale entrambi espongono una serie di vetrine meccanizzate piene di buffi animali che fanno cose, non come quelle scrause del presepe sotto casa che al massimo c’è il bue che fa girare la macina del mulino, e alla fine non vi racconterei niente dell’Arco in sé, perché alla fine cosa vuoi dire di un aggeggio così ingombrante costruito solo per celebrare una vittoria militare? Che ci puoi andare sopra, e dicono che ne valga la pena, e che ad avvicinarsi ci sono dei bassorilievi che uno potrebbe mettersi lì e raccontarti, ma mi viene già sonno così, quindi vi parlo dei tizi che ci stavano sotto, all’Arco, sul marciapiede da cui sono sbucato arrivando con la metropolitana.

Erano una decina, e indossavano la casacca gialla che tieni in macchina in caso ti capiti di scendere in autostrada per cambiare una gomma e non ti vada granché a genio di farti investire da qualche camion. C’era anche un muletto, uno di quei carrelli elevatori che si usano nelle aziende, parcheggiato lì vicino. Era quello, ho scoperto dopo, con cui alcuni manifestanti avevano sfondato un portone di qualche ufficio ministeriale quello stesso giorno. Non mi è chiaro come fosse arrivato lì senza che il guidatore venisse arrestato, considerato che a fronteggiare la decina di manifestanti c’era qualcosa come cinquanta poliziotti in antisommossa.
Non sembrava una situazione pericolosa, c’erano più turisti che manifestanti, e uno dei poliziotti che teneva un cannone a tracolla si faceva le foto con delle ragazze orientali. Sono andato a chiedergli se era previsto l’arrivo della grossa manifestazione di quel giorno, e mi ha risposto di sì.
Era sabato, e tutti i sabati a Parigi c’è una grossa manifestazione di Gilets Jaunes che va a finire sotto l’Arc de Triomphe. All’inizio raccoglieva moltissimi francesi incazzati, ma col tempo (siamo già intorno alla decima manifestazione) il numero si è ridotto, anche grazie ad alcune concessioni del governo che hanno accontentato una parte delle richieste, e oramai a scendere in strada sono rimasti gli irriducibili che chiedono le dimissioni del presidente Macron.
Sono arrivati dopo poco, saranno stati due-trecento. Non ci ho capito molto, ho visto cartelli con slogan contro l’Europa, cazzate populiste che vanno tantissimo anche qui, e a girarci in mezzo mi sono sembrati gli stessi irriducibili che incontravo la domenica allo stadio, con le stesse armi di fortuna e le facce coperte, e gli stessi riti di sfida agli agenti che stanno dall’altra parte. Tre tizi vicino a dove stavo si spronavano l’un l’altro ad andare a fare casino. “On va à casser?”, si dicevano. I poliziotti, per non deludere i tanti turisti arrivati fin lì, hanno fatto due manovre avanti-indietro-avanti, fai la giravolta-falla un’altra volta e hanno lanciato due lacrimogeni sui facinorosi, che nel frattempo avevano dato fuoco a qualcosa là davanti. Teatro, niente di più. Non ci sono state cariche, incidenti, situazioni pericolose, dopo un po’ i turisti si sono dispersi e con essi anche la ragione principale di tutto quel trambusto. Ciao, grazie a tutti, ci ritroviamo qui la settimana prossima alla stessa ora.

meh

La mattina dopo, sotto casa, ci siamo imbattuti in un altro corteo, stavolta erano studenti, e si sono limitati a cantare le loro canzoni senza troppo disturbo.

Non ho ben chiaro cosa sia questo movimento, ma credo di aver capito che in Italia non abbiamo capito niente e cerchiamo tutti quanti di appiccicargli un’etichetta e tirarli dalla nostra parte, qualunque essa sia. In realtà sono semplicemente francesi, gente abituata a scendere in strada e fare casino quando vogliono qualcosa, e quest’abitudine non sta a destra o a sinistra, è trasversale. La cosa più vicina che abbiamo qui è il tifo per la Nazionale di calcio, per forza non li capiamo.

Poi non voglio andare oltre perché sono abbastanza sicuro di avere detto delle idiozie e non mi sembra il caso di peggiorare la mia già scarsa immagine pubblica. Non parlo di quello che non conosco, se posso evitarlo. Se volete aggiungere qualcosa voi i commenti sono qui sotto, sarò felice di leggerli.

A parte che ogni volta devo cercare come va l’accento su cinéma, scrivere la recensione di un film come Francofonia non è facile per uno la cui comprensione dell’arte si ferma a questa è una statua e quello è un quadro. Fosse l’ultimo Guerre Stellari mi sentirei di esprimere un giudizio più approfondito, direi che JJ Abrams ha girato un film magnifico che ci restituisce l’epica della trilogia originale, ma resta un omino patetico.

Come patetico? Come sarebbe a dire?”
Avevi un fracco di soldi, un universo intero da cui prendere spunto e perfino gli stessi attori, potevi fare un capolavoro e ti sei limitato a riproporci le stesse situazioni. Non è un film, è un tributo.”
Oh, ho fatto un film magnifico che restituisce l’epica della trilogia originale, non è che posso pure inventarmi una storia!”
Se George Martin avesse pubblicato un romanzo in cui i personaggi rifanno le stesse cose del primo volume lo avremmo crocifisso. Ne ha pubblicati due dove fondamentalmente non succede un cazzo, ma almeno è stato onesto. Tu no, hai cambiato due facce, due sfondi, e ci hai riproposto lo stesso film. Sei un cialtrone.”

Vabbè, non è che la trilogia originale fosse così originale, eh?”

Prendere delle idee altrui e adattarle al proprio lavoro è legittimo, è da quando dipingiamo bisonti nelle grotte che lo facciamo. Ma se prendi il tema del tuo compagno di banco e ci metti la tua firma sotto non si chiama più ispirazione, è plagio.”

Ecco, se avessi dovuto scrivere la recensione del Risveglio Della Forza sarebbe stato facile, avrei potuto riempire pagine solo insultando Abrams, ma qui stiamo parlando di un prodotto complesso, che viaggia tutto sul filo dell’interpretazione: cosa vuol dirci il regista quando ci mostra la nave nella tempesta e Napoleone che cazzeggia per il Louvre? Perché la critica considera più riuscito il suo film precedente, Arca Russa, che a me ha fatto venire voglia di arruolarmi nell’Isis solo per avere una cintura esplosiva?

Forse non dovrei accostarmi a queste forme di arte, ci sono un sacco di Topolini che aspettano di essere raccontati, ma quando sono uscito dal cinema avevo gli occhi pieni di quadri, tessuti e tetti di Parigi, e se non mi mettevo a scrivere queste righe correvo il rischio di mangiare crème brulèe fino alla fine dell’anno, e io non la so fare la crème brulée, ci vuole il lanciafiamme per formare la crosta di zucchero e non trovo nessuno che me lo venda di contrabbando. Mi sono messo con una fumatrice per poterle rubare gli accendini mentre dorme, ma non è la stessa cosa, se lo tieni verso il basso la fiamma lambisce lo zucchero ma ti brucia le dita, e se rovesci la tazza spargi tutta la crema sul tavolo e l’accendino si spegne.

a me comunque piace di più la locandina coi due protagonisti di spalle

francofònia o francofonìa?

Francofonia ci racconta del sodalizio di due uomini molto diversi, il responsabile di tutta la cultura francese durante il dominio nazista, il direttore del Louvre Jacques Jaujard, e il responsabile di tutta la cultura nazista durante l’occupazione francese, il conte Franz Wolff-Metternich. Entrambi vogliono salvare il museo e le sue opere, ma è il nazista che rischia di più: i gerarchi del partito vorrebbero mettersi in casa la Gioconda, e gli ordinano di requisirla, e lui che capisce l’inestimabile valore delle opere e la fine che andrebbero a fare, si inventa la scusa di non sapere il tedesco. Goebbels gli dice portami un quadro di Gericault che ci rifodero i quaderni di mia figlia e lui Uot? Himmler gli dice portami due mummie che le nascondo nel letto a Göring vedrai le risate e lui sge parl pà lallemòn. Alla fine Hitler in persona vuole visitare il Louvre, e Metternich glielo impedisce sfruttando il doppio piano narrativo del film: quando il cancelliere arriva all’ingresso sposta tutta l’azione al presente e ci mostra uno che comunica via skype con una nave portacontainer; nel successivo cambio scena la bigliettaia francese è stata sostituita con quella che sta alla cassa agli scavi di Pompei, che si mette subito in pausa pranzo. Tempo che torna e il film è finito, il Louvre è salvo!

lei sarà pure Marianne, ma l'avrei presa a testate

saranno bizzarri, ma almeno non fanno la bocca a culo di cane davanti ai quadri

I primissimi piani ti fanno notare delle opere che quando ci sei stato tu hai snobbato allegramente: “ah, questa statua ha novemila anni? Questo mi fa ricordare che ho ancora un branzino in congelatore”. L’inquadratura in notturna, lenta, della tomba di Philippe Pot mette i brividi, con quelle figure incappucciate che adesso si girano e ti dicono che sarai il prossimo. La Nike di Samotracia non indossa le scarpe omonime, lo capisci benissimo quando la inquadrano sotto la tunica.

Insomma, per me Francofonia è un grosso sì, l’Episodio VII un grosso vabbè e Macbeth una grossa erezione, e non solo per la presenza sullo schermo di Marion Cotillard, ma di questo parlerò la prossima volta.

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La seconda parte della vacanza comincia alla piazza Charles De Gaulle, quando esci dalla metropolitana e ti trovi di fronte all'Arco di Trionfo.

 

 

È una bella abitudine questa dei parigini, di costruire i monumenti proprio all'uscita delle metro, che arrivi in cima alle scale e ci resti basito, come gli avventori al bar di Amèlie.

Che poi a me l'arcdetrionf neanche piace, così napoleonico, aquile dappertutto foglie fasci edere gentechesinchina, è più fascista dell'architettura fascista, che quella un po' mi piace, così squadrata e priva di gusto da finire per essere la caricatura di uno stile, o forse è perché mi ricorda gli sfondi dei fumetti di Krazy Kat.

Veniamo giù per gli Champs Elysèes con la ferma intenzione di visitare le Galeries Lafayettes prima di entrare al Louvre, che Marzia se non vede due scarpe non quieta.

Eccoci all'Elysèe, non c'è traccia dei grandi magazzini né di Carlà, proviamo ad andare avanti.

Questo è il Grand Palais, dove è allestita la mostra di Monet di cui sono andati esauriti i biglietti appena è cominciata. E i Lafayettes? Saranno dopo.

Ecco il Petit Palais, che i marinai considerano molto più importante del fratello maggiore perché una delle stelle che lo compongono indica sempre il nord. Ma i grandi magazzini non ci sono. E si vede che sono più avanti.

Ed eccoci in Place De La Concorde, e di gallerie lafaiette neanche l'ombra,nè di Carlà, né delle sue scarpe. Marzia è inferocita, ha appena scoperto sulla mappa che si trovano tutti in Boulevard Haussmann, a due passi dall'Opèra, c'eravamo ieri, stronzo!Vorrebbe farmi ripercorrere gli Sciampi di Elisa a calci in culo fino all'Etoile, ma ha male a un piede e c'è da visitare il Louvre.

Il Louvre in breve è impossibile, ma ci si prova. Intanto salti la coda facendo il biglietto alla FNAC, ed è più di un'ora risparmiata. Poi decidi che non vedrai alcune sezioni, fa male ma è necessario. Ho visto uomini più forti di me smarrire la ragione e aggirarsi per la Grande Galerie alla ricerca di un tabacchino, un altro ha aspettato tanto di trovarsi al cospetto della Gioconda che per sopravvivere si è mangiato i figli e poi si è venduto i loro iPod, e voi state ancora al Conte Ugolino.

Del Louvre mi è piaciuto:

  • la risata della signorina al ristorante quando mi ha elencato i contorni: “riz, frites..” e le ho risposto preparatissimo: “Oui, riz frite est parfait!”;

  • l'emozione di trovarmi da solo di fronte a un capolavoro assoluto: Fulmine Divino Contro Il Terribile Uomo Talpa;

  • le scale per accedere ai piani superiori, da cui un tempo scendevano donne dalle gonne ampie e la pelle d'oca, che riscaldare un palazzo di quelle dimensioni non era impresa da poco;

  • la ressa pazzesca davanti alla Gioconda non mi è piaciuta, ma mi ha permesso di godermi un paio di quadri nella stessa stanza senza turisti a sgomitarsi la prima fila, quindi alla fine mi è piaciuta anche lei;

  • le due tele di Gericault e Delacroix, la Zattera della Medusa e soprattutto La Libertà Che Guida Il Popolo, una accanto all'altra per ragioni che la mia professoressa di arte saprebbe spiegare meglio di me, io mi limito a starci davanti e sospirare;

  • la competenza della mia guida, di fronte alla quale ho saputo solo mostrare le mie doti di cazzaro descrivendo “Gesù Alza Le Mani Su Un Tizio”, che fra l'altro non è neanche mia;

  • la vetrina con le armature dei gladiatori, che mi hanno riportato ai fumetti di Asterix, e voi tenetevi pure Bisteccone Rasselcrò;

  • la cortesia della signora che mi ha ricordato che per usare il cavalletto occorre un'autorizzazione apposita. Ochei, però erano già due ore che me lo portavo appresso per le sale e almeno dieci minuti che stavo lì a misurare le distanze fra me e la Venere di Milo, avrei avuto tutto il tempo di andare là e staccarle la testa, mi pare che il Louvre in quanto a misure di sicurezza lasci un po' a desiderare.
    Ti controllano all'ingresso, neanche troppo, giusto lo zaino nello scanner come all'aeroporto, ma se hai dell'acquaragia nella bottiglia d'acqua non gli frega, e intanto dentro l'unica opera davvero sorvegliata è la Gioconda, se volessi buttare giù a spallate il Codice di Hammurabi non so se riuscirebbero ad impedirmelo. Si vede che i vandali di solito ambiscono solo all'eccellenza.

Del Louvre non mi è piaciuto:

  • la gente che fa le foto col flash sbattendosene dei divieti. Le tele si deteriorano, e siccome le tele esposte sono di tutti sono un po' anche mie, ed è quindi normale che ogni volta mi venga voglia di ficcarla in gola al proprietario, la macchina fotografica;

  • quelli che si mettono in posa davanti alle opere. Li schifo in generale, ma specialmente le donne, che si mettono di tre quarti e fanno la faccia maliziosa, sfoggiano sorrisi sornioni come se ti mostrassero il completino sexy appena comprato a Pigalle, mentre alle loro spalle accade di tutto: Giuditta decapita Oloferne, eserciti si sbudellano, crollano imperi, si versano fiumi di sangue, si compiono tragedie inenarrabili, e loro sempre lì, con l'espressione più ambigua che sanno inventare.
    Sono dappertutto, al cimitero appoggiate alla tomba di Baudelaire, al museo davanti a Marat assassinato nella vasca, agli Invalides sotto il sarcofago di Napoleone, sono sempre presenti e cercano sempre di sedurre il fotografo. Si vede che lui si eccita solo così.

  • Ma anche quelli che non ci si mettono, in posa, e stanno così, amorfi, le braccia lungo i fianchi e la faccia inespressiva, e ricordano certi pescioni tenuti per la branchia dal pescatore sorridente davanti all'obiettivo.
    Anche loro sono stati pescati, in un certo senso. Il quadro è il pescatore col cappello verde pieno di ami, che sorride al fotografo, e loro non possono che starsene appesi a bocca aperta e occhio vitreo, al limite domandare alla fine “com'è venuta?”.


Il simbolo di Parigi ce lo siamo tenuto per ultimo.

Spassky consiglia di scendere al Trocadero e svoltare l'angolo per trovarsela di fronte tutta in una volta, bellissima e orribile e bellissima.

Anche la prima volta mio padre mi fece fare lo stesso percorso, e anche allora era una mattina appena dopo la pioggia. Ho svoltato l'angolo e sono piombato in un ricordo vecchio venticinque anni, solo che stavolta da Dante sono diventato Virgilio.

Spassky consiglia anche di portarsi in vacanza una compagna di viaggio che non soffra di vertigini, perché se per salire in ascensore bisogna farsi ore di coda è possibile affrontare le scale a chiocciola senza alcuna attesa, ma solo con qualcuno che non tema le altezze.
Già che ci siete ricordatevi di portare con voi antiinfiammatori e analgesici, che a camminare tanto si rischia la tendinite, ma non mi lamento, abbiamo fatto più strada dei fanti in Russia, un'altra avrebbe ceduto e sarebbe tornata in albergo.

L'Hotel des Invalides da solo non vale il biglietto d'ingresso, che se Napoleone aveva manie di grandezza mica da ridere Luigi XIV ne aveva il doppio, e se non ti interessa visitare il Musèe de l'Armèe (notevole, peraltro) finisci per pagare il biglietto solo per la tomba di Napoleone, un grosso muffin pettinato come il cugino fortunato di Paperino, o la testa di Betty Boop, e una volta che sei entrato e l'hai vista e hai notato la ragazza che ci sta in posa davanti con l'espressione sorniona non c'è più molto da fare. Resti lì dieci minuti, ti guardi il plastico dell'edificio, scendi nella cripta per riguardarla da sotto, noti un'altra ragazza in posa languida, al limite ti siedi e ascolti quel continuo rimbombo che arriva da qualche parte lì intorno e ti chiedi cosa sia. Booom! Booom! Sembrano salve di cannone, sarà mezzogiorno? Booom! Booom! Continuano, irregolari, forse è una sezione del museo lì accanto che proietta dei filmati, o qualcosa del genere.

Quando stai per uscire fermati un attimo all'ingresso e svelerai il mistero: è la porta a molla, quando si chiude sbatte, e il rimbombo viene amplificato dalla cupola della cappella. Suggestivo.

Da lì alla Gare d'Orsay non ci vuole molto, si fa tranquillamente a piedi, e si arriva al museo degli impressionisti dal retro, dove si trova un chiosco di giornali. Vende anche i biglietti d'ingresso senza sovrapprezzo, solo che non lo sa nessuno, ma non nessuno tipo che ci trovi una decina di turisti, nessuno tipo nessuno, tipo che arrivi e c'è lui che sbadiglia, e tu ti paghi i tuoi otto euri ed entri davanti al guardaroba, saltando la biscia chilometrica di persone che aspettano fuori al freddo.

Dal museo degli impressionisti usciamo scarsamente impressionati, tutto Monet è stato spostato al Grand Palais per una mostra di cui non si trovano biglietti da due anni prima dell'apertura, e anche gli altri capolavori sono sparsi per tutto il mondo. Vale comunque una visita, ma è un museo zoppo, ce lo giriamo in un'ora e mezza e abbiamo ancora il tempo di andare a fare shopping nei dintorni dell'hotel.

Due tre recensioni che neanche la Lonliplène:

HOTEL DU MOULIN: Piccolo albergo gestito da una famiglia di coreani, serve essenzialmente clienti di quella parte di mondo, tanto che le indicazioni nelle camere sono scritte in francese e in ideogrammi. Se siete di poche pretese il posto è molto pulito e il personale gentile, e Rue des Abbesses è una base fantastica per girare la città, con due fermate della metro a disposizione, o per rilassarsi fra brasseries e negozietti. È una strada frequentata più che altro da parigini, senza l'invasione di turisti e botteghe di souvenirs che trovate appena più in alto, nei pressi della Basilique du Sacre Coeur, o di sexy shop e locali ambigui che stanno appena sotto, in Boulevard de Clichy, in piena Pigalle.

L'unico neo dell'hotel è la temperatura delle camere, sempre che non vi disturbi svegliarvi di notte con le lenzuola che fumano.

Dopo alcuni giorni realizziamo che i servizi offerti dall'albergo non si discostano dall'essenziale: il personale non ha adattatori per la corrente (le prese francesi non hanno il terzo foro centrale), se ti senti male non hanno termometri per misurarti la febbre, non puoi mangiare in camera a meno che tu non stia morendo e non puoi mangiare nella saletta colazioni perché disturbi i clienti coreani che hanno pagato per la pensione completa.
Dovessi tornare a Parigi sceglierei sicuramente la stessa via, ma forse mi orienterei verso un altra sistemazione, tanto c'è abbondanza.

LES DIX VINS: Piccolissimo ristorante nella via che corre fra Rue des Abbesses e Boulevard de Clichy, di cui però non ricordo il nome. Lo staff è simpaticissimo, ed è composto dal cuoco, dal cameriere, dal barista e dal maitre di sala, tutti in un unico signore rotondetto che ride sempre. Il menu è identico tutte le sere, con 17.50 euri puoi scegliere fra quattro cinque entrèes, quattro cinque pietanze e altrettanti dolci, niente di elaborato, ma molto gustosi e ben presentati. L'esiguità del personale limita il numero dei clienti ammessi, se ci sono solo due persone entrate pure, se ce n'è una a un tavolo più un gruppo di dieci seduto un po' più in là lasciate perdere perché vi manda via, anche se gli altri tavoli sono tutti liberi.

LE RELAIS GASCON: Le insalate giganti piene di roba non sono un piatto che ordino spesso, in genere ti riempiono subito ma dopo un quarto d'ora hai più fame di prima, ma in questo ristorante specializzato in cucina del sud-ovest ne preparano certe veramente sostanziose, traboccanti di ingredienti e coperte da uno strato di patatine fritte tagliate à la Lucilla (a rondelle invece che a bastoncino). Se non amate la verdura potete provare uno dei numerosi piatti di carne, non so dirvi, ma a vederli passare sembravano ottimi.

IMPORTANTISSIMO! Non ordinate il gateau basque!

Può capitare che vi venga voglia di assaggiare quello che ritenete essere un dolce tipico della cucina basca, non ne sapete nulla e avete già mangiato parecchio, ma la curiosità è più grande dello stomaco. Può capitare che mentre aspettate vediate passare dolci carichi di panna montata, quelle fettazze che quando ti scendono nell'esofago sono letali come slavine, e vi sentiate male all'idea di doverne affrontare una.
Può capitare, però, che la cameriera vi metta davanti un dolce composto solo da fette di mela cotta, e che la sua vista vi rincuori e lo attacchiate subito con vigorose cucchiaiate.
A questo punto può capitare che l'altro cameriere, quello indiano, si accorga che vi è stata servita la tarte tatin al posto del dolce basco, e cerchi di rimediare togliendovi il piatto da sotto, ma il gateau basque è una di quelle cose micidiali di prima, e non volete mica morire in un ristorante parigino, e poi avete già cominciato a mangiarlo e giurate al cameriere che va benissimo così.

Il cameriere, come detto, è indiano, ma in lui batte un cuore indipendentista, e accoglie il vostro rifiuto come un'oltraggio alla causa dei suoi fratelli baschi.
Oltretutto la tarte tatin costa 50 centesimi più dell'altra, stai a vedere che la differenza ce la deve mettere lui.
L'incidente diplomatico è evitato quando accettate di pagare voi il sovrapprezzo, ma ormai vi siete fatti un nemico in sala: vi butta davanti il conto senza chiedervi se vi vada un caffè, e dopo aver preso i soldi quasi il resto ve lo tira addosso.
Per fortuna dopo il dolce non vi rimane che uscire, se foste stati al primo rischiavate di farvi sputare nel piatto per tutta la cena.

LES DEUX MOULINS: Questo bistrot in Rue Lepic è meta di pellegrinaggio dall'uscita del film Il Meraviglioso Mondo Di Amèlie, girato in buona parte lì dentro, ma nonostante l'afflusso continuo di persone un posto a sedere si trova sempre.
La cucina è sufficiente, niente di memorabile, il cameriere è distratto e sbaglia quasi tutte le ordinazioni.

La vera delusione però è la crème brulèe, che traccia un solco profondo fra l'illusione della pellicola e la brutalità della realtà. Per appassionati.

E qui le foto:
 

Paris 2011