Immagino la tua faccia e anche la mia assume un’espressione diversa, come quando mi guardavi e mi chiedevi di baciarti, o quella che avevo la sera in cui ti sedevo davanti e la parete grigia ti rendeva parte di un quadro che non avrei mai smesso di contemplare, come si fa con gli stereogrammi, che dopo un po’ viene fuori l’immagine in tre dimensioni oppure un gran mal di testa.

Mi si conficcano negli occhi questi momenti, quando facevamo qualcosa insieme e avevamo ancora i vestiti addosso. Sarà perché erano così rari che me li ricordo tutti; il sesso unisce, ma era altrove che costruivamo il nostro rapporto. Tu dall’analista, io al bar.
Poi ci vedevamo, ti nascondevo i vestiti e ti rivestivo delle mie mani.

Era splendido, finché durava, poi dicevo qualcosa di sbagliato e ti offendevi. Sei sempre stata una donna permalosa, non ci voleva molto a farti perdere la calma. Una volta è bastato dire sì. Va bene, la domanda era “ami un’altra?”, ma se avessi risposto no sarebbe stato lo stesso, quando ti prendevano quei momenti bastava la mia presenza a creare una discussione.

Eri un’esperta di litigio retroattivo, tiravi fuori cose che avevo detto al nostro primo appuntamento, mi sbattevi in faccia frasi pronunciate quand’era ancora vivo Cheope.

Che adesso ci rido, ma è la sindrome del sopravvissuto che guarda indietro e niente gli sembra più così orribile, solo perché è riuscito a superarla.
Se ne vedono di continuo agli incontri per la terapia di gruppo, dove c’è quello che si alza e fa “Ciao a tutti, mi chiamo Peppo, e sono già tre mesi che non rimango coinvolto in un incidente aereo” e tutti ciao Peppo, bravo Peppo. Se lo fai parlare capisci che è ancora traumatizzato, ti dice “Avessi visto che figata, si è aperto uno squarcio nella carlinga e la gente veniva strappata via dai sedili e sputata fuori come i semini dell’anguria. Da morire proprio!”, poi si mette a fissare il vuoto e il sorriso si cristallizza in una smorfia.

Anch’io ogni tanto fisso il vuoto e mi perdo a sfogliare l’album delle figu che mi sono appiccicato addosso, una per ogni taglio che mi hai aperto nella schiena. Lo so, i cerotti funzionano meglio, ma mi mancava solo lo scudetto della Pistoiese per finire l’album, ho dilapidato uno stipendio in quella dannata edicola, non immagini quante doppie ho ancora in giro per casa.

Non tante quanti i tuoi accendini, comunque. E i filtri, quelli li ritrovo ancora nel letto, ma non è colpa tua, sono io che non ho più cambiato le lenzuola: pensavo di aspettare ancora qualche anno e poi venderle come un Pollock inedito.

Ma anche quando fisso il vuoto, senza la dolcezza che cresce col ricordo, né la tenerezza di chi riconosce anche le tragedie passate come una parte preziosa della vita, né l’indulgenza che si riserva ai propri errori, anche quando riesco a dimenticare i momenti in cui ti avrei investita col trattore per come mi facevi le pulci a ogni singola parola che pronunciavo compresi i rutti e i fonemi ad essi correlati, tipo aiuola e uaioming, anche in quei momenti di sospensione del giudizio e dell’incredulità riconosco che l’uomo è una creatura imperfetta e va amato per i suoi difetti, che sono ciò che lo rende unico.
E la donna va amata di più, perché oltre a quello ha pure le tette.

Erano aspetti della tua persona, la linea costiera del tuo carattere, fatto di spiagge su cui fioriscono i gigli e di sassi taglienti e ricci velenosi nascosti sotto la sabbia. Ci vuole coraggio a frequentare quei tratti di costa, e io quel coraggio non ce l’ho avuto. Dici che basterebbe un paio di anfibi, ma al mare con gli anfibi, d’estate, scusa, no.

Ti mettevi la mano davanti alla bocca, e spalancavi gli occhi, e dicevi voglio solo morire, e ggirato con due gì, e quando ti baciavo sapevi di menta e malinconia, e il tuo sorriso era come il fiore di una pianta che sboccia quando decide lui e mai quando c’è qualcuno che lo può fotografare, si vede che è come quei capi indiani convinti che gli freghi l’anima, o i punk londinesi che sticazzi dell’anima io voglio i soldi.

Ti ho trovata in un giorno di pioggia, ti ho persa al primo sole, non sono mai stato bravo con gli stereotipi.
E neanche con le lettere, la prima che ti ho scritto è la stessa con cui ti saluto. Non aggiunge, non spiega, ti lascia com’eri. Sarà che il tempo delle spiegazioni è passato, che non piove più da mesi e si è inaridita la gola, che mi hai lasciato senza parole.

Sono felice, partiamo da lì.
E sono rintronato da tutti i baci e i morsi e le parole e le carezze, e drogato dal profumo della tua pelle e dalla sensazione che mi lascia sotto le dita, e abbronzato dal calore e dalla luce che emanano i tuoi occhi quando sorridi, e divertito da tutte le cretinate che ci siamo detti, che riempiono gli spazi e mi fanno pensare di avere trovato un altro pezzo di me perduto chissà quando.

Ho voglia di averti vicino domani, dopodomani, fra un anno, tirarti i capelli e lasciarti segni sul collo e baciarti per strada e metterti a letto e addormentarmi appoggiato alla tua spalla.
Succederà, e non sarà neanche la cosa più bella fra di noi.
Non siamo una cosa di passaggio, l’ombra su un muro di qualcosa che oh ma cos’era giurerei che fosse un volo di rondini impossibile non è stagione, siamo una formula scritta su un libro polveroso nascosto in una biblioteca celata nelle segrete di un castello sepolto dai rovi nel mezzo di una foresta cresciuta in mezzo a una valle che sta alla fine di un viaggio lunghissimo fra le montagne di una terra dove nessuno parla la tua lingua e quando provi a chiedere informazioni
si incazzano pure. Una cosa che quando la trovi diventi ricchissimo, tipo l’ingrediente segreto della cocacola che trasforma l’oro in piombo delle otturazioni nello studio del dentista.

Scusa, non ce la faccio a rimanere serio troppo a lungo, ma questa cosa la sento davvero, sei il tesoro dei pirati, la bella addormentata e tutto quello che ho sognato di trovare alla fine di un’avventura fin da quand’ero bambino. Non te ne andare.

Sei così bella da fare male, dove per male intendo quella cosa che mi invade quando mi sei così vicina e non posso toccarti.
È lo stesso disagio del ladro di opere d’arte, quello che vuole portarsi a casa la Gioconda per guardarsela tutto il giorno stravaccato sul divano. Che non sarebbe granché come piaga sociale, basterebbe permettergli di portarsi il divano al Louvre, ma la direzione non ne ha mai voluto sapere. I cavalletti per macchine fotografiche si, i divani no, e vagli a spiegare che con un cavalletto puoi martellare le statue più facilmente che con un divano.
Per esempio prima che lo visitassi io l’Atena Nike aveva anche la testa.

Se dovessi scegliere un quadro che ti rappresenti non vorrei accostarti a un Klimt, che il giallo e il rosso che vi accomuna sono un paragone facile, e tu facile non lo sei per niente.
Anche questa, a voler guardare, è una cosa che avete in comune, nessuno dei due si lascia scoprire a una prima occhiata, bisogna sedervisi davanti e studiare tutti i dettagli per mesi, e ogni volta scoprirne di nuovi; bisogna vincere la ritrosia e gli sguardi bassi, tuoi e del quadro, perché anche un quadro sa essere timido e sfuggente, e se non impari a starci davanti rischi di perdere tutta quella meraviglia che tiene nascosta fra i segni del pennello.

Io non lo so ancora che quadro mi ricordi, ho trovato il tuo viso in alcune poesie e ci sono tante canzoni che mi ricordano il tuo modo di sorridere, ma per il dipinto devi aspettare, è un processo lungo, devo frequentarti per un sacco di tempo, scoprire chi sei e come ti muovi e parli e l’effetto che mi danno le mie mani sulla tua schiena.

Certo che non sembrano cose legate fra loro e do l’impressione di cercare solo scuse futili per starti vicino, ma ti assicuro che importanti studi scientifici hanno dimostrato l’importanza del contatto fisico nella ricerca dell’ispirazione artistica.
E non cominciare a puntualizzare che non ti devo mica dipingere, ma solo associarti a un quadro, e allora casomai bisognerebbe conoscere i quadri e non solo per dargli dei titoli cretini; io non so dipingere, sei tu la pittrice fra noi, perciò casomai sarai tu che dovrai scoprire chi sono e come mi muovo e l’effetto che danno le tue mani sulla mia schiena.

Ecco, qui mi fermo un attimo e riprendo fiato, che ho appena avuto una visione pochissimo religiosa, ma mistica non hai idea quanto.

Ciao Dolores,

questa non è la lettera che volevo spedirti. Ne ho scritta un’altra, lunghissima, in cui ti spiegavo il mio punto di vista nel solito modo puntiglioso che conosci. Sono un ragioniere, me lo dici sempre.
Ho trascritto fedelmente ogni pensiero, ogni dubbio che potevo avere riguardo noi due. Ho cercato di rispondere alle tue critiche in modo convincente, e ti ho rivolto domande precise su quello che di te non sono stato capace di comprendere. E quando ho finito di scrivere mi sono chiesto “e ora?”.

Se te l’avessi spedita non avrei fatto altro che prolungare quest’agonia in cui ci dibattiamo da.. quanto? Ho perso il conto, mi sembra che stiamo discutendo da sempre, con te da una parte a farmi l’elenco dei difetti e io dall’altra a difendermi e rimarcare i tuoi.
Forse mi avresti risposto, ma le mie domande sarebbero state comunque inevase, le spiegazioni che ti avrei fornito ancora insufficienti.

La verità è che io e te non siamo capaci di stare insieme. Tutte le parole che ci mettiamo davanti servono solo a nascondere la paura di ammetterlo. Ci desideriamo, ma il desiderio appartiene a chi lo prova, non lo si può condividere, e l’amore dovrebbe essere condivisione.
Io e te vogliamo qualcosa, lo vogliamo fortissimo, ma non siamo pronti a dare niente in cambio.
È per questo che litighiamo, perché nessuno dei due è disposto a cedere. Perché siamo due egoisti, ci siamo derubati a vicenda finché ce n’era e adesso che non è rimasto niente battiamo i piedi e gridiamo.

Non so se immagini quanto mi costi ammettere questa cosa. Perché sono orgoglioso e anche stavolta vorrei l’ultima parola, e dimostrarti che ho ragione io.
E perché, maledizione, rinunciare a quello che sei capace di darmi è difficilissimo. A quello che abbiamo buttato avanti per poterlo raggiungere insieme, alla meraviglia del tempo che abbiamo condiviso, a tutto quello che avevo disegnato in testa e aspettavo paziente, e che adesso non tornerà più.
Ma sto cercando di diventare adulto, e pare che ammettere i propri errori sia parte del processo.

Ti saluto qui, con queste due righe, che non sono neanche un centesimo di quelle che ci siamo scambiati quando parlavamo solo di cose belle.
Vorrei che le mie ultime parole per te fossero più dolci, e ti lasciassero un ricordo con cui scaldarti di quando in quando. Ma non riesco a trovare niente di meglio, sto salutando la donna che ho nel cuore. Non so neanche se esistono parole adatte.
Ti porterò sempre con me, come un oggetto raro, e ti rimpiangerò ogni volta.

Ti voglio bene,

Dino

2.

Scendi dalla macchina e corri mentre dietro di te lo schiocco degli spari somiglia a quello dei popcorn nel pentolino e non pensi a Tano Catarella accasciato sul sedile non pensi ai tuoi amici saranno dietro saranno fermi li avranno visti non pensi a niente pensi ai popcorn pensi alle piastrelle della cucina alle sedie coi cuscini deformati vuoi tornare a casa non ti interessa altro fanculo a Tano Catarella fanculo questa città fanculo voglio vivere nascondermi vivere cazzo vivere!

Non poteva scendere, lo sapeva. E non poteva restare lì a guardare mentre ammazzavano una persona, chiunque fosse.

Non pensò a niente, allungò una mano e la piantò sul clacson e restò lì con gli occhi sbarrati ad aspettare che succedesse qualcosa, la morte. Qualcosa.

Le due figure dietro il furgone corsero via senza voltarsi e si infilarono in un vicolo lì accanto. La macchina di Catarella fece fischiare le gomme e superò quella dei tre ragazzi sparendo in fondo alla strada.

Silenzio.

“Raga”
“…”
“Raga siamo vivi”
“…”
“Raga siamo vivi!”
“Cazzo”
“RAGA SIAMO VIVI! PORTIAMO VIA IL CULO!”

In quel momento bussarono nel vetro.

Enzino, che stava seduto dietro, si voltò a guardare e c’era la canna di una pistola che lo fissava. Non disse niente, si voltò, si mise composto e aspettò di morire come un bravo cristiano.

Toni, che stava seduto nel sedile del passeggero, continuava a sbraitare partipartiparti e non si accorse di niente, così la pistola bussò più forte, e stavolta se ne accorse, e nella macchina si diffuse un vago odore acido.

Dal finestrino del guidatore, che era abbassato, comparve la faccia di un uomo.

“Voi chi siete?”

Tutti e tre alzarono le mani, anche se l’uomo non li stava minacciando altro che col proprio dito. Dal finestrino opposto erano scomparse le armi, adesso sembrava una semplice conversazione notturna fra un uomo in strada e tre ragazzi su un’auto. Auto che puzzava sempre più di piscio.

“Siamo amici di Toni. Lui è Toni. Abita qui. Lo stavamo portando a casa. A Toni. Abita qui Toni.”
“Siete stati voi a suonare?”
“Minchia è uno di quelli col mitra siamo fottuti”

L’uomo si fece da parte e nel riquadro del finestrino prese il suo posto il nasone di Tano Catarella.

“Vi devo ringraziare”, disse. “Se non li facevate scappare adesso io stavo all’altro mondo”.

Il giorno seguente, intorno all’ora di pranzo, i tre furono ricevuti da un boss in canottiera in un modesto appartamento dall’altra parte della città. Offrì loro vino e salame e spiegò che quello vicino a casa di Toni era uno dei tanti rifugi di cui si serviva per non essere trovato dai suoi nemici.

“Certe volte mi domando chiccazzo me lo fa fare, sapete? Ma che volete, sono fatto così. E poi ho tante persone che mi vogliono bene, e se smettessi li renderei infelici. Così sopporto tutti sti scazzi e vado avanti. E grazie a voi adesso ci sono tante persone che possono continuare a volermi bene invece di venire al mio funerale, che i funerali sono una tale rottura di coglioni, mamma mia! Gli avete fatto un grande favore a queste persone, e vi voglio mostrare riconoscenza. Chiedetemi quello che volete.”

Nessuno rispose.

“Allora? Che volete?”
“È che tutto quello che vogliamo è tanta roba, non è facile decidere”, balbettò Enzino.

“Basta che non mi chiedi di diventare un astronauta, che quello non lo posso fare. Vuoi diventare astronauta?”
“Beh no”
“Allora che minchia vuoi?”
“Mi.. piacerebbe cambiare macchina..”
“Tutto lì? Scegli la macchina e domani ce l’hai. Nuova. Vuoi altro?”
“Posso chiedere altro?”
“E se te lo dico!”
“Vorrei un appartamento in centro.”
“Allora ti metto in una delle mie case in centro. Tranquillo, è tutto a spese mie, non mi devi pagare affitti o cose così. Ci stai dentro quanto vuoi, pure per sempre se ti va. E voialtri?”

Toni, che aveva capito come funzionava, ebbe meno esitazioni.

“Vorrei lavorare in un grosso albergo. Alla reception. Essere vestito bene e incontrare le attrici che vengono in città per il festival.”
“Bravo furbo. Così che si ragiona. Nient’altro?”
“E voglio farmi un viaggio in America!”
“Allora vai a casa e prepara la valigia. E quando torni vai a lavorare al Majestic. Conosco un amico che può farti entrare. Nessun problema.”

Dino sapeva cosa chiedere, e ottenne la promessa di un bell’appartamento in centro vista mare. Ma poi non gli sembrò di poter chiedere altro, e disse che bastava così.

“E basta?”, insistette Catarella. “Tu sei quello che ha suonato il clacson, a te voglio fare il regalo più grosso.”
“Ma le cose che voglio io non si possono comprare”, cercò di spiegargli Dino.
“Amico, io posso comprare tutto. Cosa vuoi?”

Fu Toni a spiegarlo al posto suo.

“A Dino piacerebbe diventare uno scrittore. È bravo! Però si è convinto che un meccanico di Santo Vito non può diventare uno scrittore, e le cose che scrive le fa leggere solo a noi.”
“Allora Dino lo facciamo diventare uno scrittore. Domani mandi le tue cose all’editore Brancucci, che mi deve dei favori, e lui ti ci fa uscire un libro.”
“E se poi non gli piace la roba che scrivo?”
“E noi gliela facciamo piacere.”

Ci sarebbe stato anche il terzo desiderio, ma anche se sei l’uomo più potente di Santo Vito non puoi convincere Dolores a innamorarsi di qualcuno, specie di qualcuno che non conosce. Così non chiese altro e dopo un po’ i tre vennero congedati.

3.

Sei mesi più tardi Dino contemplava il mare dalla piccola terrazza del suo appartamento.

Il boss era stato generoso, la vista era impagabile: tutto il golfo si apriva davanti a lui, e se guardava in basso poteva vedere gli atleti della squadra di canottaggio che rientravano dall’allenamento.

Anche l’altra metà della promessa era stata esaudita: ora Dino aveva un agente che gli organizzava incontri quasi ogni giorno, e un contratto in cui l’editore si impegnava a pubblicare e promuovere i successivi tre romanzi che avrebbe scritto, uno all’anno.

Il casino era che adesso doveva scriverli, e non sapeva da dove cominciare.

All’inizio aveva cercato di essere metodico: sveglia presto, tre ore al computer, pranzo, passeggiata distensiva, altre tre ore, resto della giornata libero. Gli sembrava un buon piano di lavoro, ed era riuscito a rispettarlo per tre giorni interi, ma la sera del terzo aveva litigato con Dolores, e il resto della settimana l’aveva passato a scrivere a lei invece che il suo romanzo.

Già, alla fine l’aveva conosciuta.

Era successo un paio di mesi prima. Con Toni dall’altra parte del mondo aveva messo da parte gli scrupoli e aveva scritto a Enrica per chiederle aiuto.

Avevano organizzato un’uscita a quattro, Enrica e Dolores, lui ed Enzino, che in questa cosa si sentiva parecchio a disagio, e mentre andavano all’appuntamento continuava a ripetere “Vabbè, ma io che ci guadagno, scusa? Una piace a te, e non è che posso mettermi con l’ex di Toni, quello mi ammazza”.

Era stata una serata piacevole, Dino aveva sfoggiato il suo nuovo ruolo di scrittore single con appartamento in centro, e Dolores quello di ragazza che sta vedendo uno ma non è una cosa seria e ha sempre nutrito la curiosità di conoscere da vicino uno scrittore single con appartamento in centro.

Si erano visti ancora da soli, e le cose avevano preso una piega interessante, e da lì era nata una frequentazione cui ognuno dava un nome diverso: per Dino era la Storia Importante, per Dolores non c’era modo di capirlo, ogni giorno sembrava viverla in modo diverso, e questo li portava a litigare più o meno sempre, con le conseguenze di cui sopra.

Dino chiamò il suo confidente di fiducia e lo aggiornò sul contenuto dell’ultima discussione.

Dall’altra parte del telefono Enzino trovò il nome adatto a quel rapporto complicato:

“Ancora!! Minchia ma questo è l’inferno! Ma perché non la mandi affanculo a quella? È evidente che non state bene insieme, lasciala e mettiti a scrivere che hai un romanzo da finire!”
“Ma che ne sai tu di come stiamo insieme, Enzino. Tu non ci sei nella mia testa, non lo sai come mi sento io quando le cose funzionano. È che è difficile farle funzionare, tutto lì.”
“Io non lo so cosa ci sia nella tua testa, ma so cosa c’è nella mia da una settimana. E ci siete voi due, minchia, non ne posso più! Tutti i giorni trovate una scusa per litigare, ma non vi volete lasciare e continuate a litigare. Ma ficcate almeno, ogni tanto? Lo trovate il tempo?”
“Sì, ogni tanto lo troviamo.”
“E allora basta! Fate quello e state sereni! E finisci sto libro! Quando lo devi consegnare?”
“Devo mandare una bozza la settimana prossima.”
“E ce l’hai?”
“No.”
“E lo sapevo io.”
“Non riesco a concentrarmi, ogni volta che provo a mettere giù due righe mi sembra di scrivere cazzate. Sono troppo incazzato per scrivere.. Senti Enzino, ma secondo te il boss ci ha fatto un regalo? Perché a me sembra che stavo meglio prima.”
“Ma quando? Quando smontavi carburatori? Ma sei scemo?”
“Non lo so, forse le cose bisogna guadagnarsele, se ti arrivano tutte addosso da un giorno all’altro vai fuori di testa. Prima era più facile.”
“Ma ti sembra che Toni stia male?”

Toni aveva fatto il turista negli Stati Uniti per tutta l’estate, poi si era reso conto che non voleva più tornare, e così aveva scambiato il posto in albergo con un po’ di contante, e si era aperto una pizzeria in California. Era contento, stava imparando a fare surf e non gli veniva più in mente Santo Vito, Catarella e tutti i casini e la miseria che aveva lasciato a casa. No, lui non stava male per niente, e se lo avesse sentito fare certi discorsi gli avrebbe dato dello stronzo.

“Dino, le occasioni bisogna saperle raccogliere quando arrivano, non c’entra niente come succede. L’importante è che succede, e a te è successo. Adesso vuoi mettere la testa a posto e lavorare o preferisci buttare tutto nel cesso e pentirti per il resto della tua vita? Perché è quello che farai se molli ora, sappilo.”

Dino tornò a sedersi al computer, scrisse un’altra mezza pagina, ma il ronzio nella testa era così forte che copriva tutto. Non gliene fregava niente del suo romanzo e del contratto con l’editore, pensava solo a dov’era e a come ci era arrivato. Pensava al diavolo che ti illude di darti quello che vuoi, ma ti regala solo illusioni. Pensava a Dolores, a quello che avevano messo via in quei pochi mesi che avevano trascorso insieme.

Prese tutto il lavoro che aveva fatto fino a lì e lo buttò nel cestino. Non era lui quello lì dentro. Poi aprì una nuova pagina e scrisse una lettera a Dolores, in cui le chiedeva scusa, ma questa storia doveva finire perché stava distruggendo tutti e due. Perché in quei pochi mesi insieme quello che avevano saputo mettere insieme era niente. Non era lui neanche in quel frangente.

Poi raccolse tutta la sua roba e uscì a cercare degli scatoloni per infilarcela dentro. Inutile restare chiusi in una scatola che non ti contiene, se prendi una decisione la prendi fino in fondo.

Mentre camminava per la strada con le mani in tasca si chiese chi era lui, se non era tutte quelle cose, e cosa avrebbe fatto adesso, ed entrambe le domande restarono senza risposta.

FINE

Ciao Pi.

Mi sono permesso di cancellare il tuo ultimo post, spero che non ti arrabbierai.

È che non credo fosse necessario.

Stai imparando un sacco di cose su te stesso, in questi ultimi anni. Certe volte ti guardo e davvero mi sembra di guardare un uomo adulto.
Sei intelligente, diverse volte hai dimostrato una sensibilità che non è così scontato trovare in una persona. E in certe situazioni difficili ti ho trovato diverso dal te stesso di prima, migliore. Più solido. Che non vuol dire più duro, anzi, ogni tanto può voler dire proprio il contrario.

Certo, hai ancora parecchio da fare, angoli da smussare, e c’è tutto un capitolo sull’empatia che andrebbe approfondito, ma ritengo che si debba guardare indietro oltre che avanti, e rispetto a dov’eri hai fatto un sacco di chilometri.

Sei anche fortunato, hai amici capaci di consigliarti quando ti fermi e aiutarti a correggere i tuoi errori, hai un’ironia ben oliata che ti evita di cadere nell’autocommiserazione, e credo che se ti lasciassi guidare di più dalla pancia riusciresti ad abbandonare i vecchi schemi rigidi a cui ti ostini a rimanere aggrappato.

È per questo che ho cancellato il tuo post. Era come urlare in faccia a qualcuno che non vuole capire il tuo punto di vista.
Spesso, se uno non capisce, la colpa è nostra, che non siamo stati capaci di spiegarci. Non tutti parlano la nostra stessa lingua, e accanirsi non serve a niente. Devi lasciarli liberi di comunicare a modo loro, e se occorre di farlo coi loro simili.

Non hai più bisogno di scrivere cose del genere, di portarti sulle spalle pesi inutili, di avere ragione a tutti i costi.

Volerla vinta significa non sapere accettare i propri sbagli, a che ti serve trascinarti dietro un vecchio errore? Guardalo, impara a non ripeterlo e lascialo lì.
E lasciaci tutto quello che ti fa male, è altro peso inutile che ti toglie il sorriso.

E a me piaci molto di più quando sorridi che quando mugugni.
Ti voglio bene,

Il tuo ombelico

Riassunto delle puntate precedenti:

Il giovane Luke Skywalker, alla notizia che le truppe imperiali stanno costruendo una nuova Morte Nera per ridere più forte dei pestaggi del G8 scrive all’imperatore Palpatine chiedendogli che cazzo fa, e lo chiama bellamerda. Quello gli risponde che Darth Vader è suo cognato.
Avevo detto che no, cosa gli scrivo a fare, ma alla fine l’ho rifatto, che c’erano ancora due o tre cose che mi premeva di chiarire. L’ho scritta e spedita senza rileggerla, e il risultato si vede. Scusate le ripetizioni.

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Un paio di aggiunte, se posso.
Grazie a voi per la celerità della risposta. Aggiungo due righe tanto per chiarire alcuni punti. Non che lo ritenga necessario, ma non mi va di lasciare dei dubbi riguardo la mia posizione.

Chi vi scrive non è un manifestante o un attivista, sono un cittadino comune che crede davvero nell’importanza di un corpo di polizia, e che davvero nutre rispetto per i suoi rappresentanti. Sono ancora convinto che esistano agenti di tutto rispetto che cercano di fare il loro lavoro nel migliore dei modi, con mezzi insufficienti e rischiando la loro pelle e quella dei propri familiari, ed è per rispetto a loro che sto scrivendo di nuovo. Credo che un’iniziativa come quella perpetrata in questi giorni a Genova li stia offendendo, in un certo senso, come offende me. Perché sono offeso, indignato per la sfacciataggine con cui proponete la vostra versione dei fatti del G8. Come se undici anni di atti processuali fossero stati superflui, come se le indagini non avessero accertato a dovere le responsabilità.

Ma davvero stiamo ancora discutendo di queste cose? Mi sembra incredibile che dopo undici anni nessuna delle parti in causa sia stata in grado di ammettere le proprie colpe e ancora ci si facciano queste ripicche da ragazzini. Il manifesto del Coisp arriva dopo sentenze che hanno tutelato il Corpo più di quanto fosse lecito, e hanno inflitto condanne alla parte opposta ben più severe di quelle comminate in precedenza per casi analoghi: c’era davvero bisogno di ribadire la vostra posizione? E’ stata una caduta di stile e di buongusto, una ripicca da ragazzini, appunto.

Io a Genova ci abito, durante il G8 non partecipai a nessuna manifestazione, non ero “impegnato”, e le immagini trasmesse dalla televisione mi trovarono a parteggiare per la polizia, impegnata a tutelare la sicurezza di fronte a un esercito di barbari. E’ dopo che ho cambiato idea, quando è venuto fuori che la sicurezza era tutelata con troppo zelo, e soprattutto verso chi non rappresentava affatto un pericolo; ma non sono diventato una “tuta bianca”, la retorica mi fa tanto schifo quanto le bastonate, per questo la mia visione sull’argomento cerca di essere imparziale. E si, la vostra iniziativa l’ha scalfita parecchio.

Quando mi parlate di dietrologia sugli infiltrati vi state nascondendo dietro a un dito, la realtà dei fatti è chiara e documentata, a disposizione di chiunque voglia informarsi. Ridurre tutto a “un estintore” è generalizzante, è mascherare la verità, è omissione. Credo che la Polizia avrebbe dovuto prendere le distanze da quanto accadde allora, isolare i responsabili degli eccessi e punirli. Invece ha scelto di coprire chi ha sbagliato, e ancora oggi non conosciamo i responsabili del pestaggio alla Diaz, per dirne una. Queste sono le cose che fanno perdere fiducia nella divisa, non le amenità sulle regie occulte. E a farne le spese sono anche quegli agenti che fanno il proprio dovere con professionalità. Per questo ho scritto che la vostra iniziativa offende anche loro: invece di scendere in strada e denunciare le condizioni in cui siete costretti a lavorare, la carenza di fondi e di strumenti, decidete di ribadire che al G8 vi hanno trattati male, poverini.
Credetemi, “belle merde” descrive solo in parte la frustrazione che provo.

Fra parentesi, esprimere la propria opinione è una delle attività proprie della democrazia, manganellare chi la esprime no.

Buona giornata,

Pablo Renzi

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Poco dopo mi arriva la risposta, che non commento neanche perché mi sembra superfluo.

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Lei ritenga pure che la realtà non sia quella rappresentata dalle vele del Coisp, può anche credere che quelle immagini siano frutto di fantasia. Purtroppo, in primis per noi che quella violenza la abbiamo affrontata a genova e continuiamo ad affrontarla in molte altre occasioni, non abbiamo il lusso della scelta di stare a casa.

Ovviamente lei può credere che le fotografie delle scene di violenza facciano torto a quei poliziotti che quella violenza l’ha subita a genova ed in molte altre occasioni, anche molto recentemente.

Ragionamento parecchio contorto .

Il rispetto che dichiara di aver perso, fondato su basi tanto solide quali “belle merde”, la qualifica da se, tanto quanto credere che sia espressione democratica il dissenso espresso a bombe molotov.

In Italia, è un reato, anche se viene trascurato dai magistrati che su questi fatti,  non indagano.

L’attività di denuncia del Coisp sulla situazione delle Forze dell’Ordine è ferrea, diffusa anche nella sua città con ogni mezzo. Ci dispiace che lei non l’abbia notata in questi ultimi cinque anni,. Pazienza. Continueremo ad agire con la medesima determinazione con la quale abbiamo voluto ricordare chi e cosa è accaduto a Genova.

Anche chi sta a guardare dalle finestre, spesso, sente di poter giudicare. Nel 2001 come oggi.

Nel rispetto delle opinioni di tutti, non riteniamo di dover ulteriormente replicare ai suoi insulti.

La Segreteria Nazionale del Coisp

 ……………………………………………………………………….

Mentre sto scrivendo questo post ricevo un’ulteriore missiva da un certo Franco, che immagino essere un membro del sindacato, visto che risponde direttamente alla mia prima email, allegata sotto:

…..Fra 10 anni per il Sig. Pablo Renzi i No TAV saranno descritti come dei tranquilli campeggiatori disturbati da Poliziotti delinquenti che scaricavano lacrimogeni nocivi in mezzo al bosco….. Non so che ambienti frequenti il il Sig. Renzi, ma vista la distorsione della realtà che riesce ad elaborare la sua testa, è evidente che certe sostanze non circolano solo “nelle caserme”. Franco.

Evidentemente sono stato l’unico a lamentarsi per l’infelice iniziativa del manifesto, e forse è la cosa che mi rattrista di più.

Dopo la mia lettera di venerdì ecco arrivare pronta la risposta della Segreteria Nazionale del Coisp.
Non mi aspettavo niente di più, purtroppo, ed è per questo che ho deciso da subito di adottare un tono sarcastico e rinunciare al dialogo: da parte loro non ne ho visto alcuno.
Né ho intenzione di replicare, non ho altro da aggiungere di fronte alla cecità di queste belle persone.

 

Grazie per le belle parole. Non esiste la benché minima proporzione quantitativa tra le immagini esposte dal Coisp sul camion che gira a Genova in queste ore e gli undici anni di immagini che sono state proposte ovunque (forse lei non frequenta le manifestazioni) le dietrologie sugli infiltrati e le regie occulte e tutte le amenità sull’argomento, hanno sepolto la realtà dei fatti.

Siamo certi che la sua visione sull’argomento non sarà scalfita dalla nostra iniziativa che, dato il successo che sta riscuotendo, cercheremo di riproporre fino a quando l’espressione democratica “belle merde” le sarà consentita, noi  esprimeremo la nostra opinione.

Nelle nostre caserme  si pensa che “ci è andata bene” quando portiamo a casa la pelle. Liberissimo di continuare a credere altro.

La Segreteria Nazionale del Coisp

Qui il finale.

“Ottimo lavoro!” è l’oggetto dell’email che ho appena spedito al COISP, il sindacato di Polizia, che oggi ha affittato un camion pubblicitario per portare a spasso per le vie di Genova il suo manifesto commemorativo dei fatti del G8.

Sono fotografie delle devastazioni in città da parte dei manifestanti durante il vertice del 2001, corredate dallo slogan “L’estintore quale strumento di pace. Liberi di fare questo!”.

Non sto a raccontarvi come mi ha fatto sentire un gesto del genere, ma l’ho raccontato a loro, potete leggerlo qui sotto:

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“Sentenze della Cassazione sulla Diaz: ora svoltiamo pagina e non fomentiamo l’odio nei confronti dei servitori dello Stato!

Questo l’ho trovato sulla prima riga del vostro comunicato stampa successivo alle sentenze sulla Diaz, e devo dire che mi ha trovato abbastanza d’accordo, l’odio nei confronti delle forze dell’ordine è sbagliato a prescindere dal loro comportamento, e poi ci si dimentica troppo facilmente di chi svolge il proprio dovere con impegno, e di quei poveracci che dentro la divisa ci hanno lasciato la pelle.
Certo, se da parte di chi ti difende ci fosse anche l’impegno a non scassarti di botte sarebbe tutto molto più facile, ma bisogna capirli, sono stressati, li insultano, qualcuno si prende anche degli sputi, e poi capita a tutti una giornata storta, no? E comunque la polizia al G8 non ha ammazzato nessuno, quelli sono stati i carabinieri!

Oggi invece leggo che il COISP di Genova, il sindacato di Polizia, ha affittato un camion pubblicitario e l’ha tappezzato di foto delle devastazioni compiute in quei giorni in città; lo slogan scelto a commento è una perla di stile: “L’estintore quale strumento di pace. Liberi di fare questo”.

Beh, ragazzi, tanto di cappello, davvero! La Polizia di Stato ha salvato la faccia tante volte che non si contano più: gli abusi del G8, i vari Cucchi e Aldrovandi, la cocaina che girava per le caserme, la mano pesante in Val Susa..  C’è sempre stato qualcun altro a cui dare la colpa, in qualche modo ve la siete sempre cavata, ci voleva una bella figura di merda dall’interno!

Perché se ci pensate è un vero colpo di genio: dopo le sentenze miti agli agenti per le torture alla Diaz e la sproporzione di quelle ai manifestanti per le vetrine spaccate, dopo la promozione sul campo di tutti i pezzi grossi coinvolti, dopo che l’opinione pubblica è riuscita in qualche modo a metabolizzare anche questa ennesima porcata, ecco che il COISP manda per strada il suo messaggio dove interpreta, pensa un po’, la parte della vittima. Le vittime! Non avete pensato di starvene zitti e ringraziare che anche stavolta v’è andata bene, no, macchè! A Genova si direbbe che avete “rimestato la merda col bacchetto”, e non credo di dovervi spiegare cosa significa.
Ma chi è stato quel mago del marketing che ha avuto questa bella pensata? Davvero, se avessi voluto infangare l’immagine della Polizia non avrei saputo scegliere un sistema più efficace che far circolare a Genova, nell’anniversario del G8, un’immagine che riporta alla memoria quei giorni in cui la giustizia non stava più dalla parte di nessuno, i pacifisti facevano la guerra e chi doveva proteggere i cittadini li massacrava.

Genova se le porta ancora addosso quelle ferite vecchie di undici anni, non c’è bisogno che qualcuno vada a buttarci del sale sopra, e soprattutto non che a buttarcelo sia una delle parti che quelle ferite le ha provocate. Volevate ricordare che i manifestanti erano brutti e cattivi? E volete ricordarcelo voi?? Ma credete di vivere in mezzo a dei deficienti o cosa? Va bene che a frequentare solo caserme poi uno si confonde, ma vi garantisco che qui fuori esistono anche dei cervelli funzionanti, ci sono persone in grado di ricordare quel che è successo, e se è il caso sbattervelo in faccia. Certo, non fa male come un tonfa (soprattutto quando impugnato al contrario), ma lascia delle ferite che ci mettono molto più tempo a rimarginarsi. Pensate se per le strade circolassero le foto di Alessandro Perugini, allora vice capo della Digos, mentre prende a calci in faccia un minorenne, peraltro tenuto fermo da due agenti, metti che non riesca a centrarlo. Pensate che bell’immagine a corredo delle assoluzioni, prescrizioni e insabbiamenti che hanno restituito al Corpo quel candore che in fondo sa benissimo di non meritare.

Oppure davvero l’intenzione del sindacato di polizia era quella di svergognare il corpo una volta per tutte, e far capire che la violenza eccessiva non è dovuta ad alcune mele marce nei reparti, ma è un sistema riconosciuto e giustificato, un valore da difendere, un diritto acquisito insieme alla divisa, e in culo al cittadino.

Per quel che mi riguarda ci siete riusciti, quel poco di rispetto che il G8 di Genova non era riuscito a strapparmi me l’ha portato via il vostro manifesto.
Belle merde.

Pablo Renzi


Qui la replica del COISP.
Qui l’ultimo capitolo.

Incontrando una vecchia collega ho saputo che Valeria, una ragazza con cui lavoravo fino all’anno scorso, ha avuto una bambina. Non sapevo neanche fosse rimasta incinta, sebbene me l’aspettassi, era sempre stato il suo desiderio, e dopo il matrimonio immaginavo sarebbe stata solo questione di tempo.

Non posso e non voglio chiamarla per esprimerle le mie congratulazioni, i nostri ottimi rapporti si sono rovinati tempo fa, dopo che ha cercato di piantarlo nel culo a me e ad altri colleghi.

Ciononostante sento il bisogno di felicitarmi, in nome di un’ottima amicizia che andava ben oltre il rapporto professionale, per cui penso che scriverò due righe per lei, nell’eventualità che leggesse ancora il mio blog.

Valeria,
ho saputo che sei diventata mamma, e sono davvero molto felice per te, ma resti comunque una gran troia.

Pablo