Oggi, nel 2002, moriva Joe Strummer, il cantante dei Clash.

Tre anni prima lavoravo in un piccolo bed & breakfast londinese come portiere di notte, occupazione che mi lasciava tutti i pomeriggi liberi e un bel po’ di sterline da scialacquare in cidi. Abitavo in albergo, in una stanza condivisa con un ragazzo francese di nome Arno, pessimo cuoco e tenace suonatore di chitarra. Era anche uno schiavo del pop, ascoltava tutto il tempo una orribile stazione che trasmetteva canzoni punzapunza e negre melodiche scosciatissime, e quando tornavo in camera lo beccavo spesso ad esercitarsi su cantanti del suo paese, ma non quelli fighi tipo Brassens, macché, lui conosceva dei musicisti che oltre a violentare il pentagramma amavano stuprare anche le lingue straniere, e cantavano questi pezzi in anglese, che sarebbe l’inglese pronunciato da un francese, che insomma è una roba che se non l’hai sentita è difficile anche spiegarla, ma fa schifo forte. Tutte le volte che lo sentivo biascicare “lovmì, ai sgiast uontiù intù mai arrmz” mettevo su un cidi di Jimi Hendrix e gli mostravo il dito medio, e alla lunga avevo finito per conquistarlo, tanto che un giorno mi chiese di accompagnarlo in un negozio a comprare quella raccolta, che la voleva anche lui e io di sicuro non gli avrei prestato la mia, che poi me la restituiva tutta sporca di rane.
Il mio negozio preferito si trovava in una traversa di Oxford Street, resa famosa in tutto il pianeta per essere finita sulla copertina di un disco degli Oasis, e si chiamava Reckless Records. Non era l’unico negozio, la parte alta della via è piena di botteghe per le orecchie, mentre quella bassa appaga gli istinti ad altezza mutanda: sexy shop e locali ambigui, per capirci. Cominciammo il giro dall’alto, tenendoci il meglio per ultimo, e nella prima rivendita Arno si presentò alla cassa con un cidi di Ricky Martin. Glielo strappai di mano, nella mia vita avevo sopportato abbastanza a lungo i Gipsy Kings per riuscire a reggere qualunque altro latino che non fosse Ovidio, e gli misi davanti Are You Experienced?, del capellone di cui sopra.

La scena si ripeté in ogni altro negozio che visitammo, lui cercava di comprare i Boyzone, io gli proponevo i Rolling Stones, lui ci provava con Britney Spears e io rilanciavo di Etta James. Sulla porta di Reckless Records trovammo un compromesso per una roba dei Blur che conosceva lui, e ci accingevamo ad entrare, quando venne fuori un tizio in giubbino di pelle e capelli tirati indietro. Sembrava un nostalgico del rock’n’roll, ma quel naso a becco era inconfondibile: dal mio negozio preferito era appena uscito Joe Strummer.

Arno non lo degnò di uno sguardo e fece per entrare, ma lo agguantai per un braccio, e quando fui di nuovo in grado di parlare gli indicai l’uomo che si stava allontanando. “Ma lo sai chi è quello? Joe Strummer!!”

Gli avessi detto Evaristo Bartolazzi sarebbe stato uguale.

“Il cantante dei Clash!”.
Nessuna reazione.
“London Calling! The Guns Of Brixton!”.
Encefalogramma piatto.

Sospirai e gli canticchiai un pezzo di Should I Stay Or Should I Go, e ovviamente Arno strabuzzò gli occhi, da quella puttana da classifica che era, e gridò “Joe Strummer!!”, e gli corse incontro.
Il leader dei Clash si era voltato, sentendosi chiamare, e se ne stava lì a guardarci. Arno lo raggiunse trafelato e gli mostrò la più incredibile delle facce da culo: “Mr. Strummèr! Mr. Strummèr! Vi ar big fansoviù, mai frrend herre ès olloviorrrecòrrz!”

Mi aspettavo già lo sfanculo, e invece il vecchio punk rocker ci salutò e ci chiese da dove venivamo, ci strinse la mano e poi vide il sacchetto di Arno e gli chiese cos’aveva comprato.
Il paraculo tirò fuori il cidi di Hendrix che gli avevo regalato io, “Ze second best arrtist in ze worrld, afterr iù!”
“Good boy”, gli ghignò l’altro di rimando, poi se ne andò con le mani in tasca. “Take care”, ci disse.

Il giorno dopo il mio coinquilino si presenta in camera con una raccolta dei Clash e mi dice che sì, quella canzone è bella, ma le altre sono un po’ una merda, e riattacca coi suoi pipponi in anglese sconosciuto.
Se domani incontro Sgianrenò non ti dico un cazzo, crepa.

Aggiornamento rapido:
Combinazione oggi è morto un altro Joe, quello con le orecchie da Cocker e la barba ispida, cui avrei voluto rendere omaggio con un altro post, ma non lo faccio non perché sono uno snob di merda, ma perché lo conoscevo molto meno e l’unica cosa positiva che mi verrebbe da dire di lui è che non è mai stato Zucchero. Finirò la bottiglia di vino in omaggio a entrambi.

La High Line è un giardino incolto a sei metri da terra, un biscione che si snoda fra i palazzi da Chelsea fino al Meatpacking District, e dato che prima ci passava il treno era tutto un abbandonare gli edifici in cerca di posti migliori, mentre adesso che è un parco che attira gente in quantità c’è la corsa opposta a recuperare i palazzi adiacenti, ed è tutto un cantiere, ma con questo non voglio mica dire che sia brutto, eh? Che camminare sospeso sopra il traffico e vedere l’Hudson da una parte e i grattacieli dall’altra e i tetti delle case sotto e la città che si muove tutto intorno ti dà la sensazione di stare in un acquario.

Il Meatpacking District è carino, edifici bassi, strade acciottolate, diversi ristoranti italiani, fra cui uno che si chiama Macelleria, dove però non siamo entrati, che mangiare italiano all’estero è una di quelle esperienze che sta nella mia classifica delle cose da provare almeno una volta nella vita subito dopo l’assumere eroina e il sesso anale.

A proseguire per quella strada che mi pare si chiami Washington qualcosa, ma non ho voglia di verificare anche se ho google maps aperto, pensa la pigrizia, ma checcazzovuoi sono in vacanza, si arriva in una zona del Greenwich Village abitata dalle celebrità come Sarah Jessica Parker e Sbirulino, ma a noi non interessano né i clown né i cavalli, quindi ci dirigiamo verso Washington Square, dove abbiamo appuntamento con la cognateria.

C’è l’arco di trionfo de noatri sotto il quale Harry viene scaricato da Sally, è più piccolo di quel che credevo, ma sarà che sono abituato agli standard europei, e tutto intorno c’è un uso degli spazi pubblici cui non sono abituato. Insomma, da noi se vedi delle persone coi piedi a bagno nella fontana pensi subito che il Genoa è tornato in serie A, oppure ti chiederanno degli spicci.

Appena dall’altra parte della strada ci abita Martin Mystère, che a quanto pare ha tolto l’edera dalla facciata, e ancora più in là si estende l’East Village, che trasuda musica da ogni angolo.

 

 

C’è il negozio punk, dove l’unico punk è il proprietario, che gli altri non ce li spendono tutti quei soldi per dei vestiti strappati. Io però gli anfibi al mio nipotino li avrei presi, che per esclamare dei “rocchenroll!” credibili è bene indossare abiti adeguati.

 

 

C’è il palazzo che compare sulla copertina di Physical Graffiti dei Led Zeppelin e c’è la via dove Bob Dylan si è fatto fotografare abbracciato alla fidanzata su quella di The Freewheelin’, e scusate se poi alla fine la foto non l’ho fatta, che non rendeva l’idea e poi a me Dylan neanche piace così tanto.

C’è il negozio di dischi dove ti accoglie una signora sui sessanta in costume da bagno e per sbirciare l’enorme quantità di dischi negli scaffali devi spostare i vestiti appesi in giro e c’è il negozio dove neanche riesci ad entrare da quanta roba è ammucchiata alla porta, e il padrone è anziano e disperato perché sono trent’anni che non riesce più a trovare l’uscita e ti guarda da dietro una pila di cidi e dimmi un po’ se quelle non sono audiocassette, ma cosa se ne farà.

 

C’è una banca anonima dalla facciata bianca che di fronte ha dei pali ricoperti di mosaici a ricordare ai posteri che quello una volta era il Fillmore East e ci hanno suonato anche i Pink Floyd, e fuori c’è un signore che mostra a dei ragazzini le foto di com’era quando il mondo andava avanti col rocchenroll invece che con le speculazioni finanziarie.

 

C’è l’ex Palladium, dove si esibivano i gruppi e il bassista dei Clash ha sfondato il suo strumento sul palco ed è finito sulla copertina di London Calling, e adesso ci dormono gli studenti, spero che ogni tanto qualcuno si faccia prendere dalla nostalgia e fracassi la chitarra del compagno di stanza, giusto per celebrare, dai, cosa t’incazzi, domani te la ricompro.

 

C’è Tompkins Square Park dove una compagnia di ragazzi sta mettendo in scena Shakespeare con un baule di vestiti usati e due barbe finte, e c’è un omone con tutta la testa tatuata come i maori, e la musica trasuda appena fuori, sul murale dedicato a Joe Strummer, che non sono neanche stato l’unico ad andare lì e abbracciarmelo.
Salutiamo la cognateria non lontano dal bar dove Sally simula l’orgasmo davanti a Harry, un bel modo di chiudere la parentesi anche se in mezzo ci siamo occupati di tutt’altro che di commedie romantiche, e andiamo a vedere il graffito del topolino con la scopa sulla base di cemento di un lampione, che uno non capirebbe l’emozione di trovarsi di fronte quello scarabocchio se non sapesse che il primo Banksy è come il primo bacio e non si scorda mai.

Per essere il primo giorno abbiamo girato tutto il Village di qua e di là, Chelsea e Meatpacking District. E neanche un negozio di fumetti!

Punto diretto su Forbidden Planet per una versione inglese di V For Vendetta. Sulla strada visitiamo Toy Tokyo, che è pieno di cazzate che uno non ci crede, e facciamo conoscenza con l’autista di Tom Cruise che non ci introduce al magico mondo della celluloide, ma va detto che neanche prova ad affiliarci a scientology. Se ne sta lì in doppia fila ad aspettare che qualcuno della famiglia esca dal portone del palazzo che si chiama Genesis ed è proprio dopo l’ex Palladium, non puoi sbagliare, ci sono anche i paparazzi sotto che fanno i misteriosi. Noi però preferiamo i fumetti.

Per cena il nostro facoltoso ospite ci porta nel miglior ristorante di sushi della città, Sasabune. È talmente sofisticato che se non segui le indicazioni del cameriere e metti la soia dove non ci va il cuoco fa seppuku sul marciapiede.

La notte sogno di trovarmi in fondo alla Quinta Avenue e di dover arrivare in cima e sono scalzo e la metro non funziona e piove e tutti i taxi sono pieni tranne uno che però lo guida Godzilla. Forse ho mangiato troppa salsa wasabi.

(continua)