Riassunto delle puntate precedenti:
Vado allo stadio con Beonio e scoppia una rissa: la morale è sempre quella, le scelte sbagliate provocano disastri. O almeno è così che me la racconto, la verità è che sono uno stronzo.

6.
30/09/20.., 14:09 – Beonio: Quindi vi siete lasciati
30/09/20.., 14:10 – Pablo: No, ci siamo presi del tempo per capire cosa vogliamo.
30/09/20.., 14:10 – Beonio: Quindi vi siete lasciati
30/09/20.., 14:10 – Beonio: La pausa di riflessione è sempre il modo più gentile che trovano per piantarci. Ti ha piantato, stattene
30/09/20.., 14:12 – Pablo: Ma no, ci siamo sentiti ancora stamattina, mi ha chiamato lei.
30/09/20.., 14:13 – Beonio: [odiosa faccina con gli occhi sbarrati]
30/09/20.., 14:13 – Beonio: E cosa voleva?
30/09/20.., 14:14 – Pablo: Saranno un po’ cazzi nostri, no?
30/09/20.., 14:15 – Beonio: [faccina altrettanto odiosa coi lacrimoni dal ridere] Stronzo
30/09/20.., 14:16 – Pablo: Ma niente, voleva sapere come sto, si è scusata per la scenata di ieri, dice che è colpa sua, che non sa bene quello che vuole, che anche lei ha delle cose che le pesano addosso, che magari è meglio se ci parliamo di persona.
30/09/20.., 14:19 – Beonio: Ahia
30/09/20.., 14:19 – Beonio: Ti vuole piantare
30/09/20.., 14:20 – Beonio: Preferisce dirtelo di persona
30/09/20.., 14:21 – Pablo: Qui se c’è uno che la deve piantare quello sei tu, gufo di merda.
30/09/20.., 14:22 – Beonio: [stessa faccina di prima che abbiamo già appurato quanto sia odiosa]
30/09/20.., 14:22 – Pablo: Adesso ci parliamo e vedrai che va tutto a posto.
30/09/20.., 14:23 – Beonio: E tu ci vorresti tornare insieme?
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Nel caso decidesse di non lasciarti
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Tutti i tuoi dubbi che avevi?
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Li hai risolti?
30/09/20.., 14:23 – Pablo: Credo che valga la pena provarci.
30/09/20.., 14:23 – Beonio: Perché è inutile se poi anche tu non sai quello che vuoi
30/09/20.., 14:24 – Beonio: Non durerebbe
30/09/20.., 14:24 – Beonio: Fra due settimane sarete da capo
30/09/20.., 14:25 – Pablo: Anch’io sono stato affrettato. Abbiamo guardato tutti e due altrove invece di dedicarci a quello che stavamo vivendo insieme.
30/09/20.., 14:25 – Pablo: Due cretini, insomma.
30/09/20.., 14:26 – Beonio: [sempre quella cazzo di faccina, ma che problemi avete con la comunicazione verbale?]

Il giorno in cui ci vediamo è una sera, e una sera di pioggia, e vado a prenderla in macchina, e lei scende i tre gradini del portone senza sorridere, e mi chiedo cosa stia pensando, se è stata una cazzata accettare di vedermi, se sarò arrabbiato, ma non lo so, neanche riesco a capire cosa sto pensando io, mi guardo dentro in cerca di una risposta chiara, un sentimento che emerga su tutti gli altri e mi dia una direzione da seguire, e invece lei apre la portiera, si siede e mi guarda, e io la guardo, e non provo niente.

Non andiamo lontano, piove e nessuno dei due ha voglia di camminare. Siamo lì perché abbiamo da dirci delle cose, non c’è neanche bisogno di scendere dalla macchina. Cerco un posto in centro dove posteggiare, e restiamo lì, senza musica, il ticchettio della pioggia sul tetto. Ci sono state sere indimenticabili iniziate nello stesso modo, ma temo che questa lo diventerà per ragioni diverse.
Stiamo in silenzio, cominciare a parlare è un po’ un’ammissione di colpa, e a nessuno va di assumersi delle responsabilità. Perlomeno a me no, in fondo cos’ho fatto a parte ascoltare i consigli di quello scemo del mio amico? Insomma, non mi va di puntare il dito contro qualcuno, ma in questa macchina se c’è una persona che ha sbagliato atteggiamento non è certo quella che sta al volante.
Anna sembra leggermi nel pensiero, rompe il silenzio e dice “Scusami”.

“Ma no, dai, di cosa”, rispondo, mentre in testa si sgrana un rosario di accuse.
“Ti ho fatto una scenata per niente”.
“Vabbé, sarai stata..”
“.. è che mi sono sentita incastrata in qualcosa che non ero sicura di volere, capisci? Mi hai chiesto di prendere una posizione quando neanche sapevo dov’ero. Ho reagito male.”
“Ma non è che ti ho chiesto..”
“.. ma devi anche considerare la mia situazione, lo sai da dove arrivo. Ho alle spalle una storia pesante che mi ha segnato, non me la sono sentita di lasciarmi andare con questa leggerezza, mi ha preso il panico, ho pensato di non essere pronta.”
“Beh, certo, tutti abbiamo..”
“.. ma è sbagliato comportarsi così, perché se stai con una persona devi fidarti di lei, la fiducia è la base di tutto, se manca quella è inutile stare insieme, no?”
“…”
“.. e stare insieme significa quello, stare insieme, non passare del tempo insieme ma rimanere chiusi ognuno sulle proprie posizioni, significa aprirsi, e io questo non l’ho fatto, non mi sono fidata, ho avuto paura di farmi male, e così ho finito per farne a te, scusa.”
“Va bene, non..”
“.. e quando non ci sei stato più, perché io ti ho chiesto di andartene, io, non tu, colpa mia, lì ho capito che per te provavo qualcosa di più forte delle mie paure, che il passato è passato e tu rappresenti il futuro e voglio stare con te, fidarmi di te, ed è stato terribile che tu non ci fossi, e adesso che l’ho capito non ti voglio perdere di nuovo, voglio darti tutto quello che ho, che non sarà molto, ma è tuo, se lo vuoi ancora. Allora? Non rispondi?”

Dovrei dire qualcosa, e invece me ne sto fermo ad appoggiare lo sguardo sulla forma rassicurante della leva del cambio, del freno a mano, del bordo del sedile. Frugo con la mano nel buio della mia anima alla ricerca di un sentimento credibile con cui replicare. Non dico amore o passione, che sarebbero eccessivi, ma qualcosa vicino all’affetto, alla fiducia, andrebbe bene anche un po’ di stima. E invece niente. Il Molise.
Allora la bacio, col trasporto di chi cerca di sfuggire all’imbarazzo di non avere niente da dire, il classico bacio che in una coppia in crisi fa nascere un figlio. E lei ci crede, e mi infila in bocca una lingua avida. Cominciamo a toccarci, a infilare mani, a sbottonare, sganciare, strizzare dimentichi di essere posteggiati in una strada trafficata. Perlomeno dimentico io, lei si riprende quasi subito e mi sfila delicatamente la mano dalle sue mutandine.

“Se dobbiamo farlo qui almeno facciamoci pagare il biglietto”, mi sussurra all’orecchio col fiato grosso. Non mi faccio pregare, e prendo la via dei monti. Casa sua sarebbe più comoda, ma non me la sento di tornare a immergermi così in fretta nella sua vita.

03/10/20.., 10:12 – Beonio: E avete fatto bene, il divano era occupato [faccina che strizza l’occhio]
03/10/20.., 10:12 – Beonio: Come due ragazzini, eh?
03/10/20.., 10:13 – Beonio: Quindi adesso siete di nuovo fidanzati?
03/10/20.., 10:13 – Pablo: Vabbè, fidanzati.. ci vediamo.
03/10/20.., 10:14 – Beonio: Si, certo, fai il duro. Senza Anna sei perso
03/10/20.., 10:18 – Beonio: Sabato io e Francesca andiamo a cena. Venite?
03/10/20.., 10:20 – Pablo: Una bella uscita a quattro per metterci una pietra sopra e andare avanti.
03/10/20.., 10:21 – Beonio: [faccina che guarda su e immagino voglia dire che ci vuole tanta pazienza a sopportarmi]
03/10/20.., 10:21 – Beonio: Che rompicazzo che sei
03/10/20.., 10:21 – Beonio: Se ci fai pace vai avanti, sennò la lasci e basta!
03/10/20.., 10:22 – Pablo: Hai ragione, scusa. Va bene, dai, glielo chiedo. Ma immagino di sì, non avevamo impegni.
03/10/20.., 10:22 – Beonio: Volevate approfittare della casa libera [faccina che ma chi è che ride così, dai]
03/10/20.., 10:22 – Pablo: Hahaha.
03/10/20.., 10:23 – Beonio: [doppia faccina uguale a quella di prima, con queste grosse gocce di umore blu che le escono dagli occhi, secondo me indica una grave congiuntivite]

Due ore e quindici minuti prima dell’incidente.
Sono in macchina sotto casa di Anna, aspetto che scenda. La sua coinquilina ha passato la giornata con Beonio, ci incontreremo al ristorante. Un messaggio mi invita a salire, rispondo che dovrei cercare posteggio e che l’aspetto qui. Ascolto una canzone degli Smiths che dice di incontrarci nel vicolo presso la stazione ferroviaria. Guardo nello specchietto se arriva qualcuno, e quando sono certo di non essere visto mi abbandono a una smorfia difficile da spiegare. Beonio la tradurrebbe con una faccina in cui tutti i segni dell’espressione puntano verso il basso. Il portone si apre, è Anna. Passo alla canzone successiva.

Un’ora e quarantuno minuti prima dell’incidente.
Fuori dal ristorante La Buga non si vedono né Beonio né Francesca. E non rispondono al telefono. Entriamo, la cameriera vorrebbe sapere a che nome abbiamo prenotato, e vorremmo saperlo anche noi: Corradi, il cognome di Beonio, non risulta da nessuna parte, ma non significa niente, il mio amico lascia sempre cognomi diversi; potrei chiedere se le risultano prenotazioni a nome di politici o calciatori, o se stanno aspettando qualche ospite straniero, probabilmente cinese. Faccio prima a guardare se i nostri amici sono nella saletta sul retro. Non ci sono, tranne un tizio seduto da solo la saletta è vuota. Quando torno di là arrivano Beonio e Francesca. Lui dice alla cameriera che la prenotazione è a nome Rosolini. Ma perché?

Più tardi la forchetta di Anna plana inattesa sul mio piatto e pesca due acciughe. “Ehi!”, rispondo. Lei mi mostra la lingua. Sento qualcosa muoversi laggiù, nel buio. La guardo, ha i capelli raccolti sulla nuca, gli occhiali le sono scivolati sulla punta del naso. Racconta agli amici di un episodio accaduto al lavoro, si sta divertendo. La guardo ridere, le osservo la bocca, i denti piccoli, ho voglia di baciarla. Mancano trentasette minuti all’incidente.

Otto minuti. La cameriera viene a chiederci se desideriamo il dolce. Lo desideriamo. Siamo un po’ ubriachi, lo desideriamo rumorosamente. Anna mi si appende al braccio e mi soffia qualche parola nell’orecchio. Non capisco, le do un bacio leggero e sembra soddisfatta. Chissà cos’avrà voluto dire.
Faccio dei segni a Beonio per capire se si fermerà a dormire da Francesca o se avremo la casa per noi. Avrei ottenuto di più se gliel’avessi chiesto in cinese, mi dice cazzo vuoi a voce molto alta.

Mancano due minuti all’incidente. Attiro l’attenzione del mio amico e stavolta il messaggio arriva. Mi fa un sorrisetto malizioso, si volta a dire qualcosa a Francesca e anche lei mostra lo stesso sorriso. Dice “Anna, mi sa che qualcuno ha dei piani per il dopo cena”. Anna dice “Mi sa che li abbiamo tutti e due”, mi bacia il collo. Rido, un po’ imbarazzato.

Dalla sala sul retro compare il tizio di prima, quello che credevo a cena da solo. Non è da solo, sta parlando con qualcuno alle sue spalle. Il qualcuno alle sue spalle viene fuori dalla stanza, e non è qualcuno. È Drusilla.

Smetto di ridere.

Il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di psicanalisi, sebbene non fosse iscritto all’albo. Diamine, il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di qualunque cosa, era la mia wikipedia personale, se avevo bisogno di scoprire quale specie di scarafaggio infestasse la città di New York e quale quartiere ne fosse maggiormente colpito non avevo che da chiedere a lui: mi avrebbe fornito tabelle, filmati e interviste ai cittadini e agli scarafaggi.
Solo che di uno psicanalista non iscritto all’albo non sapevo che fare, a me ne serviva uno in grado di prescrivermi il farmaco con cui andare in overdose e farla finita con questa vita di merda.

Però il professor Delbruck aveva una copia delle mie chiavi di casa, che al momento stavano in cima alla lista delle priorità.

L’ho trovato seduto sulla finestra con la chitarra in mano che cercava di suonare Io Sono Fatto Di Neve. Non si è accorto di me, e me ne sono stato un po’ lì ad ascoltare questa canzone triste che mi stringeva lo stomaco e irradiava alcaloidi saturi di rancore.

Una volta una ragazza mi aveva dedicato una canzone di questo gruppo, un po’ di tempo dopo che ci eravamo lasciati. Si intitolava Una Palude, e parlava di come dopo la fine di una storia il cantante si sentisse di merda. L’avevo interpretato come un tentativo di ricostruire il rapporto fra di noi, ma mi sbagliavo. C’ero anche rimasto male, che scherzo del cazzo, ma vabbè, magari per lei il testo significava tutt’altro, non era molto brava ad interpretare le canzoni dei Ministri.
Mi ricordo che considerava Lei Non Deve Stare Male Mai come l’emblema della devozione cieca che un uomo deve avere verso la donna che ama, e io obiettavo che dietro quella venerazione veniva mostrato l’annullamento dell’individuo, e insomma, mi sembrava un rapporto parecchio egoista, ma la ragazza voleva quel tipo di relazione lì, non ci eravamo lasciati benissimo.

Da allora “cercare con estrema cura possibili compagni di avventura” era diventata una regola ferrea, per evitare sorprese.
Però mi spiaceva non averle dedicato anch’io una canzone, è un gesto che unisce la passione per la musica alla necessità di mandare un messaggio, ed è la cosa più pratica se non possiedi talento artistico, né una casa discografica, uno studio di registrazione e un album in uscita entro breve.
Scrivere un racconto non è altrettanto efficace, magari lei non legge racconti. Magari l’ultimo libro che ha letto è il libretto del dvd di Beyoncè che regalava TV Sorrisi E Canzoni. Magari è una capra. Ci sta di innamorarsi di una capra, le capre hanno belle tette e uno sguardo intelligente nel loro viso semita.
Chiedilo a Saba, quante cose trovi nel suo belato.

Ecco, con una canzone queste cose non succedono. Arriva dappertutto, la passa la radio.
Pensa a quando Tom Waits ha scritto Who Are You, pensa alla donna cui era dedicata. Pensa a come dev’essersi sentita ogni volta che la ascoltava alla radio e sapeva di essere lei quella che continua a scappare dalle finestre in abiti costosi.
Dio, come avrei voluto una ex stronza a cui dedicare Who Are You di Tom Waits.

Un rapido conteggio sulla punta delle dita mi ha fatto realizzare che ex stronze non ne avevo neanche una. Al limite squallide, ma non valevano la pena di essere ricordate.
Il pensiero mi ha gettato addosso nuovo sconforto, che mi ha riacceso l’ipofisi, che mi ha aiutato a sopportare il dolore, che mi ha reso di umore migliore, che mi ha quasi fatto desistere dal piano autodistruttivo.
Ma è stato solo un momento, ormai la decisione era presa. Mi sono mostrato al professor Delbruck e gli ho chiesto le chiavi di casa e un cocktail di barbiturici.
Mi ha dato solo le prime. Per l’altro ha detto di non volersi assumere la responsabilità. Però conosceva un buon analista in grado di aiutarmi.

Tempo una settimana e stavo seduto in uno studiolo a fissare una signora in pile coi capelli brizzolati, divisi nel mezzo in un taglio piuttosto mascolino. Più che una psicoterapeuta sembrava una guida alpina. Mi è venuto da chiederle se le piacevano le capre.

“Mi parli del suo rapporto con suo padre”

Ma che gliene frega a questa del mio rapporto con mio padre?

“Lei non si è sentito amato da bambino e sta inseguendo l’approvazione di suo padre”

Ma non mi può prescrivere del temazepam e lasciarmi abbracciare il mio destino senza tante menate?

“Mi descriva il rapporto con sua madre utilizzando solo aggettivi di tre sillabe”

Maledetti altruisti devoti alla salvezza dell’umanità, ma perché non vi salvate fra voi e ci lasciate in pace?

“Sua madre è stata iperprotettiva e le ha fatto perdere il valore della gratificazione. Perciò adesso lei si sente inadeguato qualunque cosa faccia.”

Il giuramento di Ippocrate comprenderebbe anche il rifiuto a operare i calcoli renali, se vogliamo essere coerenti fino in fondo.

Poi mi ha messo in mano dei fogli e una matita.

“Disegni il suo posto nel mondo, come si vede e come la vedono gli altri. Disegni le cose importanti per lei, disegni sé stesso mentre compie la sua azione preferita.”

L’ho guardata, ho guardato il foglio. Non so disegnare neanche l’omino stecco, mi viene tutto sproporzionato. L’ho guardata di nuovo.

“Se glielo mimassi?”

Mi ha fissato in silenzio.

Il figurativo era oltre le mie capacità, ho improvvisato un’opera astratta.
Mondrian, per esempio, coi suoi spazi regolari avrebbe rappresentato al meglio il mio bisogno di equilibrio, e di dare una forma a tutto ciò che vedo.
Non è facile andare dritti senza un righello, mi tremavano le mani per l’ansia da prestazione, e il prodotto finale sembrava più un Mirò. Ho cercato di aggiustarlo, ma ogni tratto di matita non faceva che peggiorare il lavoro. Alla fine ho consegnato un Pollock.

“Interessante. Lei dovrebbe imparare a valorizzarsi di più, vincere le sue paure ed essere più indulgente verso sé stesso. Si ricordi che i fallimenti fanno parte del gioco, e sono indispensabili per potersi migliorare, pertanto vanno accolti, e non demonizzati.”

“Va bene. Adesso potrei avere le mie pastiglie, per cortesia?”

“Mi spiace, io sono freudiana, credo nella guarigione attraverso una lenta e dolorosa presa di coscienza. Se vuole la strada facile deve rivolgersi a quei cazzari degli junghiani. Oltretutto non ci vuole molto a capire che lei e le dipendenze avete un bellissimo rapporto. Se le prescrivessi un oppiaceo non farei che spostarla da una prigione a un’altra, mentre quello che le serve davvero è di liberarsi.”

“Il mio piano era quello”, confessai. “Vorrei uccidermi.”

“Glielo leggo in faccia. E non cercherò di dissuaderla, i consigli non servono a niente, se non a farci sentire ancora più incapaci di seguirli. Ma ci sono diversi modi di arrendersi, e non tutti contemplano la morte. Non quella fisica, perlomeno.”

“Mi sta suggerendo di diventare un sommelier?”

“No, di trasformare i suoi fallimenti in un obiettivo.”

“Meno male, preferisco la ciucca anarchica a quella regolamentata”

“Lei sta spingendo un masso in cima a un monte, e ogni volta si frustra vedendolo rotolare di nuovo giù. Il fallimento le toglie la voglia di riprovare, e adesso ha deciso di arrendersi. Perché a cosa serve impegnarsi se il risultato è sempre zero?”

“Va bene non dissuadermi, ma non credo che l’istigazione al suicidio sia etico, dottoressa.”

“No, ma che suicidio. L’unico suicidio utile è quello della ragione. Lasci perdere il buon senso e si affidi alla pancia. Cerca sempre una ragione a tutto, ma non è detto che debba esserci per forza. Certe cose succedono e basta. Lo scopo non dev’essere per forza arrivare in cima, potrebbe essere anche solo spingere la pietra.”

“Uscirebbe con me domani sera?”

“Mi è proibito dal codice deontologico uscire con un paziente.”

“E se non fossi un paziente uscirebbe con me?”

“No”

“Questo danneggia la mia autostima”

“Ma preserva la mia. E comunque imparare ad accettare i rifiuti è un passo verso la guarigione.”

“Lo farò, grazie mille!”

Sono uscito più sollevato. Adesso sapevo cosa fare: avrei accettato i rifiuti. Anzi, di più, me li sarei presi in casa!

(continua)