L’inquietudine è un tizio pelato che sta nascosto dietro un gruppo di persone che chiacchierano col bicchiere in mano all’inaugurazione di una mostra, passa qualcuno, il gruppo si allarga e per un attimo lo vedi e in quell’attimo il suo sguardo si fissa su di te e ti fa sentire impotente.

È i primi quattro secondi di una canzone sufficienti a farti capire che non è quella che volevi ascoltare, e neanche quella dopo, che non c’è al mondo una canzone capace di arrivare in fondo senza farti venire voglia di scappare lontano. E il silenzio è peggio.

Qualcuno che ti parla e non lo ascolti, la voglia di camminare per tutta la città, entrare in tutti i locali, guardare dentro tutte le macchine, fermare la folla e chiederle dove. Dove cazzo.

L’inquietudine è negli spazi che non riempi, nel tempo che perdi, nel respiro corto, nel caffè che non sale. Hai fame nei polmoni, nelle mani, negli occhi. Guardi oltre chi hai davanti, cerchi e non sai cosa cerchi. Sei fuori casa con una scarpa sola, divori le giornate senza gustarle o te le lasci scorrere davanti col cervello staccato, seduto davanti a uno schermo che si muove, una dopo l’altra. Reagisci, ti arrendi, reagisci di nuovo, ti arrendi di nuovo, e non sono passati dieci minuti.

Ma che cazzo di vita è? Uno bravo ci fa uno spettacolo, la porta in tournèe la sua inquietudine, la mostra a un pubblico che tanto non la capisce mica, che ride perché lo vede fare le facce e se ne va pensando di avere visto una cosa che faceva ridere. Divertente, dicono agli amici. Ma divertente un cazzo, scusa. Ti sta dicendo che sta male e tu ridi?

Uno bravo a cosa gli serve essere bravo se riesce a trovare un modo per esprimere il suo disagio e questo modo non viene capito? Che differenza c’è fra lui e quello che si chiude in casa e non lo vedi finché qualcuno non va a vedere cos’è quella puzza? Perché la chiave non è esprimerlo, il disagio, è scioglierlo, e per quello non servono spettacoli di comici disagiati che fanno le vocine e corrono nudi per il palco, ci vuole qualcos’altro.

I modi per sciogliere il disagio conosciuti finora sono: le goccine che non ti fanno stare meglio ma ti fanno dimenticare che stai male, il suicidio, correre nudi su un palco, scrivere su un blog, ma questi durano il tempo che durano, poi sei da capo.

Il disagio causa infelicità, e per i buddisti le cause dell’infelicità si possono riassumere in tre: paura, aspettative e senso di colpa. Io però non sono buddista, non so in quale delle tre categorie vada inserito il disagio. Inoltre queste semplificazioni.. io quando a scuola spiegavano le semplificazioni di secondo grado ho marinato perché all’ora dopo avevo interrogazione di tedesco e in tedesco sapevo dire solo Keine Ahnung.

Sai quando ti rendi conto che nella tua vita ti serve un buddista che ti spieghi come si fa a vivere?Ma buddisti non ne conosco, la cosa più orientale che mi è venuta in mente è stata la mia ex insegnante di meditazione, la Signorina Jodel. Forse vi ricorderete di lei per quella volta in cui mi convinse a sperimentare la medicina ayurvedica.

Al suo numero ha risposto la segreteria telefonica di un museo. Una voce ranocchia con un forte accento del sud mi ha ricordato che il museo apre dalle ore. Boh, ho riattaccato e sono andato a cercare su wikipedia dove si trovano i buddisti. In Cina, dice. Così ho guardato quante ore di volo servono per arrivare a Pechino. Troppe. Con l’inquietudine che ho addosso troppe, cercherei di scendere dopo un paio d’ore, e in un paio d’ore di volo atterri in posti che mi rendono ancora più inquieto, niente da fare.

Ho cercato su internet i sinonimi di buddista per vedere se c’era qualche rimedio alternativo al bonzo arancione, tipo le medicine che contengono gli stessi cosi, come si chiamano, quelli che stanno dentro le medicine e ti fanno stare bene, i principi attivi.

(Qui potrei far prendere al racconto una piega inaspettata giocando con gli accenti, e mettermi a cercare eredi al trono di reami da favola impegnati nel sociale o con una marcata posizione politica, ma questa storia è fortemente autobiografica, come si è capito, e non mi va di inventarmi cose per sfuggire alle mie responsabilità)

Sul dizionario online di Virgilio (ma esiste ancora Virgilio??) ho trovato tre sinonimi: fratello, padre e monaco. C’erano anche religioso e prete, ma io coi religiosi preti non lego granché da quella volta che uno di loro ha fatto il lavaggio del cervello a un mio amico e lo ha convinto a diventare un vigile urbano.

Quindi, per esclusione, fratello sono già io, di mia sorella; padre no, ma questo mi ha ricordato un episodio angoscioso del mio passato e un’altra fonte di inquietudine mica da ridere, e magari questa non ve la racconto, ma sono sicuro che ve la state immaginando abbastanza bene da soli.

Monaco, allora. Di Baviera, visto che ho dichiarato qui sopra di snobbare l’argomento principi e principati.

Che sta in Germania.

Dove si parla tedesco.

E io in tedesco so dire solo Es ist eine schöne Bratwurst in meine Lederhose.

Ho marinato.

E sono ancora inquieto. E l’inquietudine è un post sul pablog che non va da nessuna parte come l’ultimo spettacolo di Antonio Rezza, che ti dice che bene è uno stato d’animo lontano come la Cina.

Tuttapposto, andiamo avanti.

Capita prima o poi di trovarsi seduti su una panchina, al buio, di guardare per aria e chiedersi il significato di tutto quanto, la vita, l’universo, la panchina, e quarantadue non è detto che basti come risposta. Ci si interroga sugli elaborati meccanismi che regolano la nostra esistenza su questa sfera malfatta, ci si chiude in casa finché non si è trovata una soluzione ai grandi misteri, e ci si fa il sangue nero perché quella soluzione non la troviamo, e intanto stiamo anche smettendo di vivere. La rinuncia non è mai la soluzione, rimuovere le cose le rende solo più forti, tranne quando sono i vigili che ti rimuovono la macchina, non rende più forte te o la tua macchina, ti fa spendere un sacco di quattrini e basta, perciò alla fine rende più forti i vigili, ma questo è un altro discorso. Può capitare, se siamo parecchio fortunati, di imbatterci in qualcosa di inaspettato: mentre siamo lì a chiederci se non sarebbe meglio cambiare strategia e metterci a guardare il dito che indica il cielo, potrebbe capitarci di notare qualcosa di nuovo, come l’apparizione di una stella.

Osservare la nascita di un fenomeno celeste è una gran botta di fortuna, ti permette di esaminare con lucidità tutti i passaggi che hanno portato Christopher Nolan a girare Interstellar, e magari a non cadere nei suoi stessi errori, o a farne di nuovi, tipo spendere altri sette euri e cinquanta per un film che ne valeva tre, giusto per la compagnia; capire come funziona l’universo, chi sei tu che lo abiti e dove devi metterti per non farti colpire dalle comete sono risposte che arrivano dopo, ma partono comunque da lì, dal film di Christopher Nolan che però Inception era più bello.
“Something about the universe and how it’s all connected”, diceva coso, e non c’è da meravigliarsi, siamo fatti dei medesimi atomi che compongono una stella, ed è per questo che il processo che ci porta a guardare al di fuori di noi è sempre lo stesso, che si tratti di visitare un corpo celeste o uno terrestre.

Per primo c’è l’avvistamento:
Stai guardando il cielo e pensi ai fatti tuoi, e noti una luce: è apparsa ora, o magari c’è sempre stata, ma eri tu a non avere gli occhi giusti per vederla. Pensi che potrebbe essere la scoperta del secolo e già stai cercando il numero di telefono della Esimia Società Di Astronomia, ma ti fermi, che già in passato li hai contattati per chiedere che ti dedicassero una sala dell’istituto, e poi era solo una ditata sul cannocchiale. Riprendi l’osservazione col cuore in affanno, è difficile stare tranquilli e far finta di niente quando si ha una natura inquieta e fallace, e poi non è neanche il momento giusto, hanno appena ripromosso Plutone al grado di pianeta, se arrivi tu con la tua nuova stella è facile che neanche ti prestino attenzione. Il tuo lato razionale stabilisce le regole a cui dovrai sottostare di lì in avanti, che l’astronomia è una scienza esatta e l’improvvisazione fa ridere, ma non ti porta da nessuna parte. L’istinto, dall’altra parte, risponde che certo, le regole, e promette che domani inizierà a seguirle tutte, adesso però mollami. È come se dentro di te ci fosse la NASA che pianifica al millesimo una missione spaziale e poi mette al comando un astronauta ubriaco.

La seconda fase è l’avvicinamento:
Va bene, è un nuovo corpo celeste, ma che ci fai? Interstellar è una macinatura di balle, ma ci ha insegnato che per tirare su una missione spaziale e spedire un gruppo di astronauti dall’altra parte dell’universo basta un quarto d’ora di pellicola, perciò ci sta che in due righe ti sia già organizzato un’impresa che a confronto la Luna è stata scendere un attimo dal tabacchino sotto casa. Impari a guidare un’astronave in un solo stacco di scena, ti prepari al viaggio più impegnativo della tua vita in tre battute tre, e potresti già essere in viaggio , però uno non parte così come niente e va ad esplorare una stella, sono corpi astrali con un campo gravitazionale fortissimo, se non prendi le dovute precauzioni ti riducono a pulviscolo cosmico prima che tu possa dire tesseratto.
Prima di tutto si inviano segnali radio per capire se è abitata, poi delle sonde ti diranno di più sulla gravità in superficie; la gravità è importante, a volte capita di atterrare su un pianeta e trovarci una gravità diversa dalla tua, fai una battuta innocente e quelli ti guardano come se gli avessi ammazzato la famiglia con un trapano. Bisogna capirla la gravità, quando ogni cosa cade dall’alto con tonfi incredibili è meglio non avventurarsi.
Tutte queste congetture vanno fatte in un tempo breve, che un’altra cosa imparata dal film di Nolan è che se ti distrai un momento sono passati ventitré anni e devi ricalcolare tutto dal principio, che una stella non è che sta lì ad aspettare te.

Accertate le condizioni favorevoli dell’astro rimane la parte più emozionante, il contatto:
Sbarchi sul nuovo mondo con tutto il tuo bagaglio di speranze da confermare e doni per gli autoctoni. Esperienza e perline, e chiedi in cambio pressappoco lo stesso, che per intraprendere vantaggiosi scambi commerciali c’è sempre tempo, e neanche sai se ne vale la pena, metti che incontri delle creature che mangiano le banane con la buccia perché non le sanno aprire. L’importante è metterci il giusto impegno, sennò tanto vale che te ne stai a casa tua.

È uno sbattimento notevole e spesso neanche ne vale la pena, ma allora perché dedicarcisi? Cos’è che ci spinge a conoscere, a superare noi stessi e non accontentarci dell’involucro che ci siamo costruiti? Aspiriamo ad essere più di quanto la natura ci ha concesso, ma da dove arriva quest’inquietudine, e come si può controllarla, ed è giusto farlo?
I saggi e gli incoscienti sanno che la risposta è sempre sticazzi, “la serenità si misura in sticazzi per unità di tempo” (cit.), ma Torquato Tasso diceva già nel ‘500 che “Perduto è tutto il tempo che in viaggi spaziali non si spende”, e non possono avere ragione entrambi. E poi ci siamo noi, da qualche parte nel mezzo fra i due, ad arrabattarci e cercare risposte che non ci sono, col sospetto crescente che non ci sia in tutto l’universo un pianeta adatto, se neanche su quello dove siamo nati riusciamo a sentirci completi, e che il nostro guardare il cielo nasconda molto peggio di un’indole romantica.

“Beati loro che si accontentano di ciò che hanno”, diciamo, “ignari del dubbio che possa esistere di meglio, e che forse ciò che hanno non era quello che volevano davvero”. Alla fine loro restituiscono una vita in positivo, ed è solo quello che conta, sennò non vivi, sopravvivi.

Già, beati loro.. Ma vorresti tu vivere così? Se potessi staccare la corrente che dà luce a quell’impianto complicato che hai nel cuore, lo faresti? Di lasciare al buio il quartiere in cui vivi, che la creatività è figlia dell’inquietudine, ormai lo sanno anche le pietre che dalle pietre non nasce niente, rinunciare al calore che ti brucia ma ti tiene in vita, lo faresti davvero?
Passi la vita a progettare astronavi, ma alla fine non ti importa mica se il pianeta che hai scoperto lo raggiungerai o no, mentre sei lì col naso per aria a guardare le stelle cominci a pensare che lo scopo non sia la destinazione, ma il viaggio.

Comincio a credere che non sia una cosa bella.

 

 

Oggi, quando sono arrivato a casa, mancava il gatto bianco e nero. Mi sono chiesto dove fosse finito, che di solito lo trovo in giardino ad aspettarmi.
Mi sono preoccupato, ha una ferita dietro l’orecchio, dono di qualche rivale notturno, ho temuto che gli fosse andata in suppurazione e che il poveretto si trovasse nascosto da qualche parte, a lasciarsi morire.
Il pensiero che potesse semplicemente averlo investito una macchina davanti a casa non mi ha neanche sfiorato: la mia inquietudine è raffinata, segue percorsi più tortuosi.

Ad aspettarmi in giardino c’era il gatto rosso, quello raffreddato, e mi ha accolto con una salva di starnuti; dev’essere questo tempo ballerino, c’è un’umidità che sembra di stare nella giungla, prosperano soltanto i funghi e le erbacce. Solo le seconde le trovo qui fuori.

Magari però non è il tempo, potrebbe aver contratto una di quelle malattie da gatti, ce ne sono talmente tante.. E se non lo curo non farà che peggiorare, l’occhio per esempio non mi sembrava che gli lacrimasse, ieri.

Se almeno ci fosse Marzia, lei saprebbe cosa fare. Gli darebbe una pastiglia, quella giusta che cura il raffreddore da gatti, o la rara malattia tropicale che colpisce solo i felini di pelo rosso.
Le i sa sempre cosa fare, come risolvere i problemi, non far attaccare il risotto, piegare le magliette negli armadi, sintonizzare l’antenna della tele; ha sempre una soluzione, di noi due è certamente lei la parte più concreta.
Averla accanto mi fa attraversare la vita con lo spirito più lieve, come se la stessi solo raccontando.

Non c’è niente di strano, c’è chi nasce per guidare e chi per guardare dal finestrino, e io mi sono sentito sempre più propenso al ruolo di spettatore.
La maggior parte delle cose che mi ruotano intorno mi sono aliene come motori di astronave, in compenso sono perfettamente a mio agio con le creature bizzarre che mi vivono dentro, con le quali comunico in ogni istante, spesso ad alta voce, con grande imbarazzo di chi mi sta vicino.

Avere qualcun altro seduto al posto di guida mi libera di un peso enorme, lasciandomi libero di dedicare tutta la mia attenzione al mondo che sta sotto i miei capelli. Non quello dei pidocchi, ancora più sotto.

Capita però in queste giornate nuvolose, questi intervalli di tempo votati all’incertezza, quando gli avversari si fermano a studiarsi, i libri terminano rimandandoti al volume successivo, le serie televisive si prendono una pausa, che il navigatore satellitare ti segnali di colpo che devi svoltare a sinistra, ma che alla tua sinistra ci sia il mare. E’ il caso in cui dovresti prenderti una pausa, accostare e riflettere, perché è sempre in quei momenti lì che il passeggero smette di guardare fuori, si volta verso di te e ti fa: “Siamo proprio sicuri che è questa la strada?”.

Oggi, quando sono arrivato a casa, mancava il gatto bianco e nero. Mi sono chiesto dove fosse finito, che di solito lo trovo in giardino ad aspettarmi.
Mi sono preoccupato, ha una ferita dietro l’orecchio, dono di qualche rivale notturno, ho temuto che gli fosse andata in suppurazione e che il poveretto si trovasse nascosto da qualche parte, a lasciarsi morire.
Il pensiero che potesse semplicemente averlo investito una macchina davanti a casa non mi ha neanche sfiorato: la mia inquietudine è raffinata, segue percorsi più tortuosi.

Ad aspettarmi in giardino c’era il gatto rosso, quello raffreddato, e mi ha accolto con una salva di starnuti; dev’essere questo tempo ballerino, c’è un’umidità che sembra di stare nella giungla, prosperano soltanto i funghi e le erbacce. Solo le seconde le trovo qui fuori.

Magari però non è il tempo, potrebbe aver contratto una di quelle malattie da gatti, ce ne sono talmente tante.. E se non lo curo non farà che peggiorare, l’occhio per esempio non mi sembrava che gli lacrimasse, ieri.

Se almeno ci fosse Marzia, lei saprebbe cosa fare. Gli darebbe una pastiglia, quella giusta che cura il raffreddore da gatti, o la rara malattia tropicale che colpisce solo i felini di pelo rosso.
Le i sa sempre cosa fare, come risolvere i problemi, non far attaccare il risotto, piegare le magliette negli armadi, sintonizzare l’antenna della tele; ha sempre una soluzione, di noi due è certamente lei la parte più concreta.
Averla accanto mi fa attraversare la vita con lo spirito più lieve, come se la stessi solo raccontando.

Non c’è niente di strano, c’è chi nasce per guidare e chi per guardare dal finestrino, e io mi sono sentito sempre più propenso al ruolo di spettatore.
La maggior parte delle cose che mi ruotano intorno mi sono aliene come motori di astronave, in compenso sono perfettamente a mio agio con le creature bizzarre che mi vivono dentro, con le quali comunico in ogni istante, spesso ad alta voce, con grande imbarazzo di chi mi sta vicino.

Avere qualcun altro seduto al posto di guida mi libera di un peso enorme, lasciandomi libero di dedicare tutta la mia attenzione al mondo che sta sotto i miei capelli. Non quello dei pidocchi, ancora più sotto.

Capita però in queste giornate nuvolose, questi intervalli di tempo votati all’incertezza, quando gli avversari si fermano a studiarsi, i libri terminano rimandandoti al volume successivo, le serie televisive si prendono una pausa, che il navigatore satellitare ti segnali di colpo che devi svoltare a sinistra, ma che alla tua sinistra ci sia il mare. E’ il caso in cui dovresti prenderti una pausa, accostare e riflettere, perché è sempre in quei momenti lì che il passeggero smette di guardare fuori, si volta verso di te e ti fa: “Siamo proprio sicuri che è questa la strada?”.