Qui è dove dovrei raccontarvi che succede, che dopo i resoconti puntuali del mio viaggio in cina ho lasciato il blog al consueto abbandono, e magari qualcuno pensa che sia tornato a grattarmi la pancia sul divano davanti a Netflix. Ebbene, non è così.

Cioè, sì, mi sto grattando un casino la pancia, anche perché con tutto quello che ci sto infilando dentro durante queste feste ho bisogno di fare posto, e ho letto da qualche parte che grattarsela serve a muovere le cose dentro e recuperare centimetri cubi preziosissimi in vista del cenone di fine anno.

Ma non è quello che mi sta tenendo lontano da questo schermo, e neanche Netflix.

Cioè, anche Netflix, che qualcosa di bello lì sopra ce lo trovo sempre, e se riesco a non addormentarmi dopo dieci minuti per la pennica postprandiale arrivo anche a scoprire pellicole importanti. L’altra sera per esempio ho visto Split, che parla del professor Xavier che esce di testa e diventa venti persone diverse e finalmente fa quello che chiunque farebbe se si trovasse come lui dotato di poteri psichici e di un liceo: molesta le ragazzine.

Ma non è quello che mi sta portando via tutto il tempo, e neanche i videogiochi.

Cioè, anche i videogiochi, soprattutto Mad Max, che ha una storia fighissima e un’ambientazione che domani mi spruzzo la vernice dorata sui denti e mi metto a guidare l’ape per strada urlando “ammiratemi!”, tanto il mio paese sembra il deserto tutto l’anno.

Ma non è quello, e neanche la mia fidanzata, che si è trasferita a casa mia e per un anno buono dovrebbe restarci, con buona pace del mio gatto che si sente usurpato del ruolo di padrone di casa, e del mio computer che improvvisamente si è messo a parlare cinese e a diffondere dalle casse canzoni di Beyoncé, e del mio bagno, che trabocca di prodotti per il viso per le unghie per il trucco per lo strucco per il barbatrucco per le mani per i piedi per i capelli per le orecchie per i denti per l’idratazione per la disidratazione per i riflessi per le ombre per delle cose che non so cosa siano perché sono in cinese ma sono tanti e sono ovunque, e con buona pace anche del tempo che dedicavo alla scrittura e adesso devo impegnare per aiutarla coi compiti di italiano e andare a fare la spesa insieme e tenerla lontana da Sephora sennò avremo presto bisogno di un altro bagno.

No, la ragione per cui non sto scrivendo qui sopra è che sto scrivendo da un’altra parte, che poi in realtà è sempre qui sopra ma in un’altra pagina privata, e certe volte mi dimentico perfino di fare il backup e posso solo sperare che i proprietari dello spazio che utilizzo non falliscano di colpo, o metà della mia già scarsa produzione finirebbe nell’oblio, ma che ci volete fare, io per qualche ragione mi sento più prolifico se scrivo direttamente sul browser che se uso un foglio word. Boh, non sto bene.

Comunque è quello, sto scrivendo un racconto che è cominciato come una specie di sfogo sull’attuale situazione politica di cui però preferisco non parlare perché sennò m’incazzo e non vi racconto più cosa volevo dire, ed è finito per diventare una cosa più elaborata, tanto che dopo nove pagine sto ancora raccontando di come i protagonisti, che per una volta sono più di uno, dovranno ottenere quello di cui hanno bisogno per poter andare avanti col loro piano, tipo che sono alla fase uno di un progetto che potrebbe averne un numero che mi fa paura contemplare, perché sennò lo so già che mi sembra un lavoro improbo e come tutti i lavori improbi mi passa la voglia di scriverlo e pianto lì, fossero anche soltanto due punti più in là.

Non so cosa succederà dopo e non lo voglio sapere, sennò è come raccontarsi la storia usando meno parole, e io una storia che so già come finisce non ho voglia di leggerla di nuovo, quindi la leggo per la prima volta mentre la scrivo, e spero che nel frattempo non mi venga voglia di leggerne un’altra.

Voi tenete duro, se mi viene da aprire altre parentesi ci rivediamo qui fra un paio di giorni, sennò quando finisco il racconto.

Che poi non è neanche detto che lo pubblicherò qui, magari lo vendo alla Feltrinelli e ci faccio un sacco di soldi e questo blog lo chiudo senza neanche salutarvi.

In ogni caso fra due tre giorni parto per Parigi, al ritorno potrei avere da raccontare qualcosa.

Però anche voi non è che interagite più di tanto, eh? Come faccio a sapere che là fuori c’è ancora qualcuno che mi legge? Stronzi.

Quella volta che senti il bisogno di fare qualcosa di stupido insensato e dannoso, un’espiazione per i peccati commessi, che ti pesano sulla schiena come quando tradisci un amico. Ma i Transformers li hanno già ritirati dalle sale, non ci sono ragazze capricciose di cui innamorarsi, e allora farsi centoventi chilometri in scooter senza parabrezza e neanche una felpa, in una sera che minaccia temporale, ti sembra l’unica scelta disponibile.

A Santo Stefano Belbo, la città natale di Cesare Pavese, si esibiscono Vinicio Capossela e Vincenzo Costantino Cinaski, un reading letterario dedicato a uno dei miei scrittori preferiti. Me la immagino la serata: un viaggio interminabile sotto la pioggia, una cappottata di freddo, e poi starmene lì in piedi a guardare due tizi che tendono un agguato al mio umore zoppo e lo ammazzano nel buio. Una catena di eventi che spingerebbero a prenotare una stanza all’albergo Roma, ma non me ne curo. È una catarsi, non un funerale.

Arrivo che il temporale è appena terminato, ne ho incrociato la coda a Canelli, ho la cerata bagnata e i pantaloncini asciutti. Posteggio secondo le indicazioni e mi pecoro dietro un gruppo di spettatori fin dentro l’area dello spettacolo. C’è un ring da pugilato sul palco, un pianoforte nel mezzo e due microfoni ai lati. Due sgabelli stanno agli opposti angoli, e dentro i secchi degli sparring partners invece della spugna c’è una bottiglia di dolcetto.
L’esiguo spazio davanti al palco è già stato colonizzato, mi siedo sui gradini appena dietro. Ottima visuale, distanza invidiabile, spero solo che non piova, i giardinetti del paese non offrono riparo e la mia cerata non ha il cappuccio.

Dopo un’ora comincia, Mr.Pall legge una sua poesia, Mr.Mall risponde con un brano dal proprio libro, e sono una decina di minuti di vino da contemplazione, te li rigiri in bocca per sentirne tutte le fragranze, poi il cantante si ricorda del proprio mestiere e si accomoda al piano per un Tanco del Murazzo buttato via.

Un altro giro dedicato alla vita sregolata, sono due animali notturni questi, predatori di mignotte e vodka sour. Storie che finiscono male, solitudine che non ti pesa sul cuore ma sul fegato, odore di fumo e di brioches. L’affondamento del Ginastic è il secondo pezzo, e va già meglio, che quella di prima mi piaceva poco.

Arriva la trilogia classica, un omaggio a Pavese: letture da quella meraviglia che è Dialoghi con Leucò, alternate alle composizioni di uno dei miei dischi preferiti, e arrivano Dimmi Tiresia, Nostos e Le Sirene, sulle cui ultime note Cinaski legge una calda dedica alla birra firmata Bukowski.

Mi sento prudere il cervello come una ferita che guarisce, ho voglia di tornare a casa e fare cose.

Riprende a piovere, sono solo due gocce, ma il pubblico si innervosisce e gli artisti tagliano corto, resta il tempo per Le Cento Città e la canzone che ne è sorella, In Clandestinità. Saluti, si va via alla svelta.

Sulla strada del ritorno, perso su provinciali buie che si arrotolano nella campagna e intorno alle chiese dei paesini, non mi faccio intimorire dai lampi, scarto il maltempo sopra la testa come quello dentro di essa. Ho voglia di cambiare delle cose, piccoli spostamenti nel caos su cui nessuno si affaccia, che mi ricordano quello che sovente mi capita di dimenticare, e di cui vengo talvolta accusato: sarò anche pigro, ma in realtà non mi sono fermato mai.