Domenica 12 agosto

Dall’hotel ci facciamo portare al parco Qianlingshan (黔灵山公园),dove i macachi girano liberi e infastidiscono le persone, ma a differenza di qui non hanno diritto di voto.

In realtà sono le persone a infastidire i macachi, urlando e tirando loro bottiglie di plastica per attirare l’attenzione. Perché, al di là della palese maleducazione, è evidente che se tiro la spazzatura addosso a un animale questo si fida di me e si lascia avvicinare. Sapete quando dicevo che dell’idiozia diffusa dei cinesi dovrei scrivere un capitolo apposta?

Alcuni macachi, costretti ad attraversare la strada su cui transitiamo, si arrampicano sugli alberi e saltano di ramo in ramo fino ad arrivare dall’altra parte: è uno spettacolo cui non mi era mai capitato di assistere, se non nei documentari; ciononostante io e la mia fidanzata siamo gli unici a guardare per aria, tutti gli altri strillano in direzione di un paio di esemplari fermi sul terreno a qualche metro di distanza, con l’espressione di chi davvero vorrebbe essere altrove.

Shasha è infastidita dalla ressa, e vorrebbe andarsene alla svelta, ma accetta di accompagnarmi all’interno di una specie di zoo che si trova lungo il percorso. Le gabbie le evitiamo, un po’ per la folla e un po’ per la tristezza, ma soprattutto perché appena scopro che ci sono anche i panda parto alla bersagliera verso l’edificio indicato dalle frecce.

Ci sarebbero da dire diverse cose sugli zoo, e specialmente sugli zoo che ospitano animali rari come i panda. La Cina mantiene la proprietà su questi animali, compresi quelli ospitati all’estero, e se da una parte ha costruito santuari e aree protette, come quella di Chengdu, nel Sichuan (sulla cui eticità ho letto un articolo piuttosto interessante), dall’altra tiene esemplari in pessime condizioni negli altri zoo cittadini, primo fra tutti quello di Pechino. Non l’ho visitato di persona, ma dalle foto e dai racconti di chi c’è stato nei giorni in cui mi trovavo in città mi sono fatto un’idea abbastanza realistica di animali sporchi e segregati in piccole gabbie dalle pareti in plexiglass.

D’altra parte il panda è seriamente in pericolo, l’ultimo censimento del2014, secondo il WWF, parla di poco meno di duemila esemplari ancora liberi. Forse ci sono modi più efficaci di proteggerli, sono sicuro che qualche animalista sarebbe in grado di elencarmene diversi, ma ho paura che alcuni di essi non sarebbero realizzabili in un mondo reale. Tipo abbandonare le città e lasciare che la natura si riprenda i propri spazi non è un’idea su cui avrei voglia di discutere.

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I panda di Guiyang mi sembrano piuttosto soddisfatti di stare lì: quello che ho visto era da solo in un capannone con l’aria condizionata, i giochi e un sacco di bambù da rosicchiare. Prima che iniziassi a fargli il video si stava rotolando su una specie di scivolo di legno, e non dava affatto l’idea di essere depresso.

Il complesso di Qianlingshan comprende anche una grotta e un lago, e sulla cima del monte è situato un tempio ma, come ho detto, alla mia fidanzata scottano i piedi, e anch’io dopo aver fatto il pieno di scimmie e ricevuto il dono inaspettato dell’orso gatto (il nome cinese del panda è xiongmao, 熊猫, che significa, appunto, orso-gatto), non ho più niente da fare e voglio allontanarmi alla svelta dalla cagnara.

Torniamo a casa dei nonni, e più tardi, ma non troppo tardi, perché i nonni di tutto il mondo sentono lo stimolo di cenare a orari impensabili per i più giovani, raduniamo tutta la famiglia per andare al centro commerciale a mangiare una cosa che non ho capito, un piatto tipico di Guiyang.

Panda lo escluderei, forse macaco.

Ci sediamo in un recinto in mezzo a due ristoranti, dove aspettiamo un tempo interminabile che chiamino il nostro tavolo. Nel mentre due solerti cameriere ci offrono bicchieri di tè, e facciamo quattro chiacchiere col resto della famiglia. Cioè, immagino che sia quello che stanno facendo i miei vicini di tavolo, io sto seduto accanto al nonno sperando fortissimo che Shasha torni dal suo giro per salvarmi dalla noia. E sì che suo nonno è una persona con cui mi piacerebbe parlare, ha visto più cose lui di questo Paese che Licia Colò in un anno di trasmissione, ma le barriere linguistiche sono insormontabili. Per fortuna Shasha torna alla svelta, mi recupera e mi porta a fare un giro per i negozi.
Quando ci riuniamo col resto del gruppo viene fuori che il quarto d’ora che resta è un quarto d’ora di Plutone, corrispondente a 542.500 ore terrestri.

Ripieghiamo così su un altro posto lì intorno che fa hotpot. Sembra che in Cina si mangi solo hotpot. Ogni regione prepara il suo tipico zuppone in cui pucciare cose: qualcuno ci mette le rane, qualcuno il manzo, qualcun altro il pesce. In questo ti servi da solo con degli spiedini di roba e salse varie. Rispetto ai precedenti che ho visitato ha un aspetto più informale, ma la qualità resta alta.

Finita la cena qualcuno ha la brillante idea di andare al Ktv, un locale dove ti conducono per un corridoio pieno di porte chiuse con una lampadina sopra, che ricorda tantissimo una casa di appuntamenti. Dietro ogni porta c’è un salottino con dei divani molto invitanti, ma invece di fare del sesso digiti su uno schermo il titolo della canzone che ti interessa e poi ti metti a cantarla. È un karaoke, cristiddio.

I divanetti di pelle e la luce bassa conferiscono alla stanza un aspetto lascivo. Mi domando cosa succederebbe se non ci fosse una grossa telecamera appesa in bella vista al soffitto, e anche così mi prendo il tempo per controllare se non mi sto sedendo sopra qualche macchia sospetta.
Quest’articolo mi dice che non sono stato l’unico a pensarla così.

Restiamo abbastanza per realizzare che le mie doti canore fanno di me la parte meno talentuosa della coppia, e che anche allargando la competizione alla sua famiglia otterrei comunque un ultimo posto. Provo a difendermi sostenendo che il repertorio mi ha penalizzato, ma la verità è che il catalogo del locale comprende decine di pezzi dei miei gruppi preferiti, sono proprio io che faccio anguscia.

Mentre Shasha si esibisce in pezzi famosi in occidente, sua madre e sua zia, che non parlano inglese, si buttano decise sul pop melodico cinese anni ’80. ne ascolto così tanto che quando finalmente andiamo a dormire ho i capelli cotonati e indosso un giubbotto di pelle con le borchie.

Lunedì 13 agosto

Ci alziamo presto, che il nonno ci aspetta alla stazione di polizia per rifare la carta d’identità. Non ho capito perché sia necessaria la presenza del nonno, ma la burocrazia cinese segue logiche troppo contorte per la mia mente di italiano arrangista.

Intanto l’ufficio anagrafe è alla stazione di polizia. E fin qui non ci sarebbe niente di strano, anche in Italia vai in questura a rinnovare il passaporto.

Ma è necessario essere accompagnati da un familiare?

Ho scoperto che se devi richiedere uno stato di famiglia rischi di sfiorare la tragedia: per quello non basta andare in ufficio e farsene stampare una copia, devi anche presentare un documento di identità di entrambi i genitori.

Non è difficile immaginare gli scenari che una richiesta del genere può aprire in una famiglia con una situazione delicata, magari dopo un brutto divorzio. Per non parlare di casi più gravi, con delle storie di abusi domestici: non ce la vedo una ragazza andare a cercare il padre violento perché le serve una fotocopia della sua carta d’identità. Ma i cinesi cos’hanno nella testa?

Poi immagino che sia tutto dovuto alla disastrosa campagna promossa da Deng Xiao Ping, sempre lui, per contrastare il boom demografico degli anni ’60 e ’70. Per quasi trent’anni chi contravveniva a questa legge era soggetto a una pena piuttosto severa, cosa che ha spinto moltissime famiglie a non registrare i figli in esubero. Oggi si sta cercando di riparare i danni: fra il 2013 e il 2017 qualcosa come 14 milioni di persone fantasma sono state registrate nel sistema anagrafico cinese, ma si stima che il numero di cittadini ancora sconosciuti allo stato si aggiri intorno ai 60 milioni.
L’intera popolazione italiana, per capirci.

Mentre mi perdo in queste considerazioni Shasha sta discutendo con un poliziotto, che le spiega come il documento oggi non si possa fare: ci sono stati dei lavori in strada che hanno interrotto la connessione internet, perciò non sono riusciti a scaricare le foto spedite dal fotografo.

Non posso fare a meno di pensare alle macchinette delle stazioni, che con 5 euro ti fanno quattro foto, le porti in comune e il giorno dopo hai la tua carta nuova. Ma sono fazioso, è evidente che in una situazione normale questo sistema funzionerebbe meglio.

Torniamo a casa, dove la nonna hapreparato il ripieno, e ci mettiamo a fare i jiaozi (che, ricordo a chi dovesse trovarsi in Cina e avesse a disposizione solo carta e penna, si scrive 饺子), di cui ormai sono un esperto, li chiudo con la stessa facilità con cui chiudo una cerniera. E quelli che non riesco a chiudere li occulto in bocca.

Cosa che fa inorridire la mia fidanzata.

“Guarda che la carne cruda qui è meglio non mangiarla”, mi rimprovera. Per “qui” intende la Cina, prima ancora che Guiyang, ma non sono sicuro che sia un consiglio sanitario e non un suo pregiudizio su certo cibo: nonostante i cinesi mangino praticamente tutto quello che si muove riesce a trovare disgustose certe mie abitudini, come fare colazione col pane e marmellata pucciato nel tè o mangiare il fegato (non contemporaneamente, è chiaro).

Vorrei passare il pomeriggio in giro a fotografare palazzi brutti, o andare a vedere il parco dei divertimenti, ma mi spiace privare Shasha del poco tempo che passerà con la sua famiglia per venire dietro ai miei affari, e comunque questa immersione nella vita di una famiglia cinese non mi dispiace, specie quando la nonna mi allunga un gelato.

Il problema sorge quando la mia fidanzata va a riposare un’ora e io non posso seguirla, devo stare sul divano a fingere di dormire con una coperta sulla pancia, a 40°,e sorbirmi una specie di sceneggiato cinese in costume su nobili del medioevo che si dicono cose e fanno la faccia sconvolta.

Ritorniamo in albergo e ci buttiamo in piscina, dove facciamo conoscenza con due bambini vivacissimi che ci chiedono un sacco di cose in un perfetto inglese. I bambini cinesi sono dei fenomeni, parlano diverse lingue, fanno sport a livello agonistico, li vedi prendere lezioni di nuoto, sci, pianoforte e arti marziali un po’ ovunque. Uno degli ultimi giorni, a Pechino, ho assistito a un allenamento di una bambina che faceva pattinaggio su ghiaccio, impressionante.

In compenso i grandi non capiscono mediamente una minchia e vanno in giro con la maglietta tirata su e la panza fuori.

Per raggiungere la piscina attraversiamo la hall dell’hotel in accappatoio e ciabatte, sentendoci un po’ come Cersei Lannister durante la sua walk of shame.

Si avvicina l’ora di cena, e non abbiamo voglia di tornare giù in città, così chiediamo al concierge di indicarci un posto nei dintorni. L’idea sarebbe di andarci a piedi e fare due passi, ma il posto migliore è un centro commerciale un po’ troppo distante. Vabbè, taxi, tanto costano poco.

Sulla via passiamo abbastanza vicino al palazzo con la cascata da riconoscerne la sagoma, ma dal nostro punto di osservazione non si vede la facciata, e non c’è modo di sapere se è attiva o no. Spero fortissimo di no, visto che non potrò andarci sotto almeno non mi sarò perso niente.

Il centro commerciale è enorme, con un piazzale pieno di macchinine colorate, bocce trasparenti che vanno avanti e indietro come i mezzi di trasporto dell’ultimo Jurassic Park (gyrosphere, le chiamano nel film), trenini. Funziona che paghi, te ne prendi uno e lo carichi di bambini che lasci liberi di scorrazzare in mezzo alla gente. Dico bambini perché mi vergogno di chiedere alla mia fidanzata di noleggiarne uno per un’ora, ma l’invidia è tanta.

Gli spazi all’interno sono altrettanto ampi, in quei corridoi ci potresti posteggiare un autobus. In genere i centri commerciali cinesi sono costruiti intorno a un grande atrio su cui si affacciano tutti i piani, ma non è sempre così. Questo,ad esempio, è sviluppato in larghezza invece che in altezza, quindi lunghi corridoi distribuiti su tre soli livelli. A quello più alto, come sempre, ci sono i ristoranti.

La scelta, a sentire Shasha, è ampia. Per me sono tutti uguali, hanno dei tavoli all’interno e una scritta incomprensibile sulla porta. Riconosco solo i ristoranti di hotpot perché sul tavolo c’è una pentola. Qui l’hotpot è più diffuso che a Pechino, ce n’è di ogni tipo, ma l’abbiamo già mangiato ieri, andiamo a cercare qualcosa di diverso.

Su tutto il piano aleggia un forte odore di piedi. È un banco che cucina tofu invecchiato, l’alimento cinese più vicino al nostro formaggio. Ne prendiamo una porzione, non è male.

Scegliamo un ristorante che offre il piatto tipico locale, il si wawa, che se dovessi tradurre in italiano suonerebbe un po’ come “neonato di seta”.

Il concetto è lo stesso dell’anatra alla pechinese: piccole sfoglie sottili che farcisci con ingredienti a piacere e inzuppi nella salsa. La parte difficile è infilarseli in bocca senza versarsi niente addosso. Quelli bravi riescono anche a mangiarli a morsi, ma quando ci ho provato ho schizzato cibo perfino sui vetri del ristorante. C’erano i passanti, fuori, che si fermavano a guardarmi.

E insomma, ci risiamo. A sette mesi di distanza dall’altra volta sono ritornato in Cina, a casa della mia, sempre più seriamente, fidanzata.
“Quindi le cose fra voi vanno bene”, mi direte. Sì, ma le conclusioni si fanno alla fine, e qui siamo all’inizio, quando sono entrato all’aeroporto di Orio al Serio a un’ora indecente della notte e ho affrontato un’altra volta la massa di profughi in attesa dell’imbarco.

Due parole sui post che seguono: questa volta ho scritto tutto e, avendo già diviso il racconto in giorni, non finirà come al solito che inizio a scrivere e alla terza puntata mi rompo le balle perché sono già passati sei mesi e mi sono messo a fare altro.
Però devo ancora allegare le foto del viaggio, quindi magari mi rompo le balle di editare i post e smetto lo stesso, chi lo sa. 
Se tutto andrà secondo i piani dovrebbero essere 12 episodi non troppo lunghi, ma non contateci troppo.

Per il momento inizio, è Giovedì 2 agosto, siamo all’Aeroporto di Orio al Serio. No, campo profughi di Orio al Serio. Esattamente come l’altra volta, ma con persone diverse.

Sapendo già cosa mi aspetta mi impadronisco della prima sedia libera e mi accampo. Poi chiedo a una signora accanto a me di darmi un’occhiata alla valigia e vado a vedere se i cubicoli giapponesi dove ti fanno dormire, che ho scoperto troppo tardi la volta precedente, sono liberi. Leggo che costano 9€ l’ora, e sono tutti occupati.

La signora a cui ho chiesto di guardarmi la valigia è ucraina, sta tornando a casa in aereo per la prima volta e non sa come si fa. Si vede che a Bergamo ci è venuta in bici. Non parla molto, ma non mi molla fino all’imbarco; la aiuto a portare una borsa che da quanto pesa dev’essere piena di sassi, lei mi aiuta a saltare la fila prendendo a gomitate chi ci precede. In fondo è uno scambio vantaggioso.

Il lottatore ucraino con cui ho condiviso l’attesa dell’imbarco

In aereo provo a dormire col nuovo cuscino da viaggio comprato apposta dopo un’attenta valutazione delle offerte sul sito cuscinidaviaggiochenontifarannopentiredellacquisto.it, che a sorpresa fa cagare come tutti i cuscini da viaggio. Vengo comunque svegliato a un’ora dall’atterraggio da una voce metallica che dice “biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette, biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette.. biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantotto..”.

È la suoneria di qualcuno seduto davanti, che evidentemente sta dormendo coi tappi nelle orecchie e non sente. Sente tutto il resto dell’aereo, e spera che qualcuno la spenga, ma non succede, e il supplizio va avanti fino alle biribiribiribì e venticinque, quando l’omone seduto accanto a me chiama la hostess e le fa capire che se non trova subito il responsabile strappa un’ala dell’aereo a morsi e la usa per farle un’endoscopia. Glielo dice in russo, non ci sono prove che siano state queste esatte parole, ma neanche prove contro. In ogni caso funziona, la hostess individua il tizio seduto due file più avanti e lo fa scendere dal velivolo. Sì, in volo. È per questo che i biglietti della Ukrainian Airlines sono così convenienti e le recensioni su tripadvisor tutte negative.

A Kiev so già come funziona, faccio la coda per i passeggeri in transito e vado a mangiare da Ararat, il ristorante appena oltre le scale, dove l’attesa al tavolo è eterna, ma il cibo è decente. Insieme a me uno ordina un cognac e una coca cola. Qui sono le nove di mattina.

Mangio due ravioli due col bacon e la cipolla e me ne vado, sopraffatto dallo scazzo della cameriera. Anche l’altra volta la cameriera mi ha fatto venire voglia di morire, si vede che in quel ristorante le prendono così per scoraggiare quelli che tengono il tavolo occupato senza ordinare.

Visto che ho tempo decido di rischiare il ristorante “Spirito di Italiano”, che sa di posto davvero genuino. Bisogna sempre trovare nuovi modi di farsi male, ma la ciabatta Enzo E Lorenzo è pesante abbastanza da narcotizzarmi per qualche ora e farmi passare meglio il viaggio fino in Cina.

Se dovessi perdere il lavoro ho già trovato un’alternativa all’estero all’altezza delle mie capacità

Venerdì 3 agosto

Pechino. Al terminal 2 pubblicizzano un nuovo washlet, che per quelli pratici dell’igiene intima sarebbe il gabinetto con bidè incorporato. Oltre quello mi aspetta l’interminabile coda alla dogana, che però stavolta non c’è. Dal mio viaggio precedente è stata tutta sostituita con un sistema elettronico di lettura delle impronte digitali, consegna di un bigliettino che ti manda a uno sportello dove un poliziotto ti guarda il passaporto, ti fa lo scanner facciale, ti ripiglia le impronte, casomai avessi cambiato identità in bagno, ti sorride e ti manda via. Cinque minuti in tutto.

Shasha mi aspetta fuori, con un sorriso che mi farebbe passare la fatica anche se fossi arrivato in Cina a piedi. Andiamo a prendere la macchina e torniamo a casa, è l’una passata.

Appena apro la portiera vengo assalito da una folla di parrucchieri che mi circondano puntandomi addosso i loro phon, o almeno questa è l’impressione che ricavo dalla calura pazzesca che copre la città. Il pensiero “come farò a sopravvivere?” mi occupa tutta la testa, e neanche mi rendo conto che nel viaggio mi sono caduti dalle tasche sia il telefono che il portafoglio con dentro un sacco di quattrini. Me ne accorgo solo più tardi, in casa, e naturalmente vado nel panico: tutti i documenti, cinquecento euri in contanti, la carta di credito, il bancomat stanno viaggiando nella notte pechinese sul sedile posteriore di uno sconosciuto. Se fossimo in Italia potrei già immaginarlo completamente ubriaco mentre cerca di comprarsi una mercedes con la mia carta di credito, ma in Cina gli autisti di Didi (滴滴) sono più onesti dei tassisti, e questo, una volta richiamato, ci garantisce che tornerà a riconsegnare la mia roba, basta che gli paghiamo la corsa. Dobbiamo stare svegli un’altra ora e mezza prima di risolvere questa cazzata, e a  quel punto finalmente possiamo andare a dormire. Sono quasi le quattro.

Shasha si alza tipo dieci minuti più tardi e va al lavoro, io mi sveglio a mezzogiorno sereno e riposato come uno al primo giorno di ferie, mi vesto con la calma di chi ha davanti tutto il giorno e faccio amicizia col suo nuovo inquilino: Eyup se n’è andato, adesso la stanza è in affitto su Airbnb, e quando arrivo c’è uno spilungone francese di nome Adrian. Ha i baffi, non ama la cucina cinese e mangia un sacco di marmellata. Dice che resterà per una decina di giorni.

Ciao, sono a Pechino e sono vivo nonostante abbia viaggiato con Ukrainian Airlines!

Superate le cordialità di rito esco per andare all’hotel di Shasha, col passo tranquillo di chi conosce bene la strada e sta attento a non fare il minimo sforzo per non ritrovarsi fradicio di sudore al terzo passo: l’umidità è al 91% da queste parti.

Vado a fare colazione da Starbucks, più per il wifi gratuito che per una reale passione per i prodotti offerti, e comunque il cappuccino non è male, solo che te lo servono nel bicchiere e lo devi bere dal foro del coperchio. Pagano tutti col telefono tramite una delle varie applicazioni disponibili collegate al proprio conto corrente, da Alipay, che è nata proprio per questo, a WeChat, che è come se io pagassi con WhatsApp. Nessuna di queste opzioni si può collegare a un conto corrente estero, quindi per me solo la vecchia tradizione dei contanti e delle carte. Sarà per questo che la commessa mi rivolge il suo sguardo più ostile mentre mi dà il resto?

Quando la mia fidanzata mi raggiunge andiamo a mettere una spunta sul primo dei miei buoni propositi cinesi: comprarmi un telefono.

Prima di partire mi sono informato sui modelli e le differenze di prezzo fra qui e là, e mi sono presentato in un negozio superfigo tipo Apple Store ma cinese con un’idea ben chiara, poi Shasha e il negoziante si sono parlati in quella lingua che ignoro, e lei mi ha tradotto “è appena uscito questo modello qui, perché non te lo prendi? È migliore di quello che volevi tu, e costa svariati soldi”. Provo a confrontare il prezzo con quello del mercato italiano, e scopro che in Italia quel telefono lì neanche lo vendono, però sembra un buon modello, e andrei a spendere più o meno lo stesso di quel che avevo in mente. Va bene dai, fammi pagare.

Solo che il negozio tirato a lucido del centro commerciale non è abilitato ai pagamenti con carta di credito, e il commesso ci chiede di seguirlo fuori, nel sottoscala di un altro edificio molto meno figo, pieno di persone sudate in attesa di sottoscrivere contratti e piccoli banchetti dove sudati rivenditori delle diverse marche di telefonia cinese espongono i loro prodotti in modo parecchio meno fashion. Qui una signora vestita male seduta in mezzo a scatole vuote passa la mia carta di credito su un pos del secolo scorso, mi restituisce uno scontrino lungo mezzo metro e siamo liberi di andarcene. Da notare che in tutta questa operazione il telefono nuovo è sempre stato nel suo sacchetto, che tenevo io. Se fossimo scappati fra la folla non ci avrebbero beccati mai più.

Boh però mi avrebbero rintracciato tramite il telefono, eh, giusto.

Restiamo in zona Oriental Mall per la cena, in uno dei mille ristoranti al piano interrato. Questa volta hot pot, si comincia subito benissimo.

Quelle striscioline appese a sinistra sono budella di anatra, e sono buonissime

Dovevo venire in Cina per scoprire che besugo è la traduzione genovese di un pesce che in inglese si chiama besugo