Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream

La volta scorsa abbiamo divagato, ma oggi torniamo a parlare di musica, e lo facciamo usando il titolo dell’ultima canzone: da Cream a C.R.E.A.M., acronimo di Cash Ruines Everything Around Me. Si tratta del singolo più importante di un album considerato un capolavoro dell’hardcore rap, Enter the Wu-Tang: 36 Chambers. Loro sono i Wu-Tang Clan, io oggi mi faccio chiamare Gru JF Killa.

Come gli Avengers ma vestiti peggio

Partiamo dall’inizio.
Intanto l’hip hop, genere che arriva da lontano, nato negli anni ’70 ed esploso due decenni dopo, quando si smarca dall’area statunitense e si diffonde un po’ dappertutto.

Basso incalzante, batteria in quattro quarti, musica campionata e un tizio che ci rima sopra e agita le mani. Più o meno l’hip hop è quello, nelle sue varie declinazioni. L’hardcore rap si distingue per i testi molto duri che parlano di povertà e crimine, beat minimale, gente che dice shit, man, e yo maddafacca, e nigga. Notorious B.I.G. è stato uno dei suoi profeti, finché non gli hanno sparato nel ’97. I Public Enemy stanno a un’estremità temporale di questa linea, e i Wu-Tang Clan stanno all’altra, anche se cominciano a essere datati pure loro.

A differenza dei primi, musicisti che prestavano la loro opera quasi esclusivamente al gruppo, Wu-Tang Clan è un collettivo composto da MC’s con una propria carriera solista. Un MC è tipo la cintura nera dei rappers, un artista capace di improvvisare rime anche mentre il dentista gli sta chiudendo un molare e di avere sempre la capacità di trascinare chi lo ascolta senza dovergli puntare per forza una pistola alla tempia.

Il progetto nasce negli anni ’90 con l’intenzione di rivoltare l’industria discografica: non più un gruppo che sforna album di successo, ma qualcosa di più simile a un’idea di fondo a cui i singoli artisti collaborano. Producono un album ispirato al cinema di kung fu: le 36 stanze del titolo sono quelle che, secondo la tradizione shaolin, un discepolo deve attraversare per diventare un monaco guerriero e poter lasciare il tempio; in ognuna è celata una prova difficilissima, in genere una televisione accesa e una poltrona. Pochissimi riuscivano a resistere due ore davanti al Boss delle Cerimonie o X Factor, molti finivano per strapparsi gli occhi e ficcarseli nelle orecchie.

Il leader del gruppo si chiama RZA, e meriterebbe un capitolo da solo in cui raccontare delle sue esperienze musicali e cinematografiche. È uno di quegli artisti che hanno fatto tutto e tutto gli è uscito bene, compreso diventare un action figure vestito da cattivo di G.I. Joe.

Ha scritto, diretto e interpretato un film di kung fu che dal trailer sembra Tarantino dopo una serata di eccessi al Drago D’Oro All You Can Eat. Rotten Tomatoes gli ha assegnato un voto peggiore di quello per Sausage Party, che posso testimoniare essere un film orrendo, ma come può un film di rapper neri e guerrieri cinesi essere brutto? Stiamo parlando di hip hop, pugnali, sesso e kung fu, secondo me hanno recensito un’altra pellicola.

si capisce che è un film elegante dalla scelta degli accessori

si capisce che è un film elegante dalla scelta degli accessori

Ma io sono di parte, con quella roba ci ho attraversato i miei vent’anni.

Nel ’95 ci si spingeva così a nord di Manhattan solo per trovare della droga, che scambiavi coi fumetti Marvel, dato che le edicole da quelle parti avevano vita brevissima: il mercato delle pubblicazioni era in mano alle gang, ogni giorno finivi in una sparatoria per strada. La West Coast mandava i suoi sgherri per saturare il mercato locale con le storie di Occhio Di Falco, Tigra e Wonder Man, ma New York resisteva, e se la tua edicola non si allineava vendendo i fumetti di Luke Cage te la facevano saltare in aria.

Io avevo un contatto in una palazzina senza vetri alle finestre, un nido di tossici in mezzo al degrado. Lui si chiamava Alex, si faceva di eroina e Spectacular Spiderman. Una volta al mese gli portavo le sue storie preferite e lui mi metteva in mano una bustina di cristalli lattiginosi.

Li consumavo sul posto, nessuno sembrava badarci: non c’è come il down da crack per abbattere i pregiudizi razziali.

In quella stanzetta senza riscaldamento ho trascorso dei bei momenti col mio amico Alex. Fra un tiro e l’altro metteva su un cidi e mi raccontava di quella volta che fuori da Nell’s lui e Tupac se ne fossero fumata una insieme.

Un giorno ci facemmo un viaggio pazzesco sul mettere su un duo hip hop, io mi sarei chiamato Gru JF Killa e lui Dr. Suga, avremmo iniziato per strada, finché non ci avrebbe notato qualche pezzo grosso che ci avrebbe invitati nel suo studio per incidere un demo. Alex si esaltava, diceva che avrebbe portato la cassetta a un suo amico che aveva una radio lì a Harlem, ma non una di quelle che passano tutto il giorno Bobby Womack, un canale moderno, innovativo. Mi diceva “Man, you gotta trus’ dis nigga”. Si vedeva di lì a due anni a farsi tutta la Broadway ben vestito, sul retro di una decapottabile, dalla miseria del suo quartiere fino a un ristorante in centro che conosceva, dove uno come lui non sarebbe potuto entrare mai.

Neanche un mese dopo era morto, sopraffatto dai sogni che scioglieva nel cucchiaino.

Quando spararono a Tupac mi sentii sollevato. Non aveva senso, il mio amico si era ammazzato da solo, ma mi sembrò che qualcosa avesse ritrovato il proprio equilibrio, come se le ingiustizie mi avessero ricordato che sapevano colpire in ogni strato sociale.

quante volte ti hanno sparato, Tupac?

quante volte ti hanno sparato, Tupac?

Non era così, naturalmente. La guerra che interessava quelle persone era così legata al potere dei soldi che anche un episodio così violento rappresentava un’offesa per i poveracci come Alex.

Però a vent’anni non vedi altro che due squadre, la tua e quella avversaria, e ti schieri dalla parte dell’unica ragione che puoi accettare. 2Pac era il nemico, Biggie il buono, l’East Coast, New York, Harlem, Method Man, le dunk high, a vent’anni il tuo mondo te lo porti cucito addosso e non riesci a vedere più lontano di così.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
El Chapo Guzman – Los Tucanes de Tijuana
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval

Ci siamo lasciati la settimana scorsa, o quella prima, non mi ricordo, la mia presenza sul blog è discontinua come quella nel mondo reale, ma ricordo che abbiamo parlato di Celia Cruz in modo piuttosto vago, che avevo da fare, mi si stava bruciando il sugo, e la connessione ballerina, e cazziemazzi.
Avrei voluto ambientare la tappa successiva in Argentina, grazie a una collaborazione fra la cantante e un gruppo che non ho ancora capito se mi piacciono tantissimo o mi tritano le balle, Los Fabulosos Cadillacs. Incapace di risolvere l’enigma ho chiesto a un’amica che li adora di aiutarmi a scrivere il pezzo, ma per il momento è irreperibile, quindi facciamo che dell’Argentina parliamo un’altra volta e torniamo a visitare un paese dove siamo già stati.

È che Celia Cruz ha fatto anche l’attrice, e a guardare le sue foto viene da chiedersi come sia stato possibile, ma d’altra parte anche Vin Diesel c’è gente che paga per vederlo su maxischermo, no?
Il film in questione si intitola I Re Del Mambo, è del 1992, e nella colonna sonora troviamo una carrellata dei più grandi nomi della tradizione sculettara, da Tito Puente ad Arturo Sandoval. Per fortuna ci sono un paio di intromissioni di genere diverso, che ci permetteranno di cambiare completamente registro e parlare di un gigante che mi è particolarmente caro: Duke Ellington.

Duke Ellington, quando voleva ascoltare Dizzy Gillespie, non metteva su un disco, metteva su lui direttamente.

Grazie a quest’uomo incredibile sfondiamo per la prima volta il muro del ventesimo secolo, essendo nato nel 1899 a Washington, quella Washington lì che pensate voi, già.

Già da ragazzino dimostrava qualità da leader, radunava i parenti e i compagni di scuola nel suo giardino e imponeva loro di cantare delle melodie di sua creazione. Non avendo ancora chiaro il ruolo dei singoli elementi di un’orchestra dava a tutti la stessa partitura, molto semplice, che faceva più o meno sciabba dabba sciabba uè. I vicini trovavano molto buffo che nel giardino accanto ci fosse un raduno di tizi che cantavano sciabba dabba sciabba uè, cominciarono a raccontarlo agli amici, questi s’incuriosivano e fu così che il giorno in cui Duke Ellington fu in grado di proporre qualcosa di interessante potè già contare su un discreto pubblico.

A 23 anni si trasferì a New York, dove cominciò a suonare in un’orchestra, e due anni più tardi era il leader di un complesso chiamato Washingtonians. Poi la consacrazione a New York, al Cotton Club, il locale più in voga di Harlem. Qui Ellington suonò ininterrottamente dal 1927 al ’31, in pieno proibizionismo, fornendo la colonna sonora degli spettacoli e mettendo insieme quella che divenne, probabilmente, la più famosa orchestra jazz della storia.

Duke Ellington la dirigeva da dietro un pianoforte, facendo dei gesti ai musicisti e dicendo loro cose tipo “Oh tu, con la tromba! Gridaci dentro! Ehi sassofonista! No tu, quello di fianco, il mingherlino pelato. Adesso devi entrare deciso e sincopare a manetta!”

Negli anni successivi al Cotton Club la sua fama si estese fino a diventare internazionale, e mentre altre orchestre si buttavano sul swing, più ballabile e di facile presa sui regazzini che lo suonaveno nei giubbocs e rimorchiaveno le pischelle, il vecchio Duke manteneva salda la sua nave sulle acque vellutate e cariche di atmosfera del jazz.

Noi a questo punto scendiamo, perché voglio raccontarvi ancora una cosa che riguarda il locale che ha contribuito a lanciarlo, quel Cotton Club di cui sopra, che ha una storia piuttosto interessante.

Il Cotton Club di Harlem, quello che poi ha chiuso ed è andato a Broadway eccetera eccetera.

Siamo a Liverpool, in Inghilterra. È il 1901, e i Beatles sono ancora così lontani che mancano ancora 13 anni alla nascita della mamma di John Lennon.

È presente, invece, la signora Mary Madden, ma non ci sta tanto, prende la via del mare come molti suoi compatrioti e se ne va a stare da sua sorella, che vive a New York. L’anno successivo fa emigrare anche i figli Owney e Martin, e il collegamento coi Beatles finisce ancora prima di cominciare, mi spiace.

Owney è un ragazzino che capisce subito come si vive nel quartiere che lo ha adottato, Hell’s Kitchen, e si unisce alla Gopher Gang, approfittando del fatto che non solo i Beatles devono ancora nascere, ma in giro non c’è nessun supereroe cieco in calzamaglia rossa.

Insomma, diventa un criminale di quelli tosti, finisce anche a Sing Sing per un omicidio che non era neanche il primo, e quando esce ci mette poco a capire cosa vuole la gente, è cominciato il Proibizionismo, gli alcolici sono vietati, una manna per il contrabbando, e il figlio della signora Mary Madden ci si dedica a tempo pieno. Si mette in affari con altri due gangsters, Big Bill Dwyer e Big Frenchy De Mange, e insieme cominciano a fare incetta di night clubs, dove vendere l’alcool che importano di nascosto. Uno dei locali di punta in quel periodo è il Club Deluxe, un night di Harlem, che Madden rinomina Cotton Club. La persona che glielo vende, fra l’altro, non è uno sconosciuto biscazziere qualunque, è Jack Johnson, pugile, il primo afroamericano ad avere vinto il titolo di campione mondiale dei pesi massimi.

Madden gli lascia la gestione, si tiene l’incasso e trasforma il locale in un centro di sviluppo degli stereotipi sui neri americani: l’aspetto della sala ricorda una piantagione del sud, i musicisti e i camerieri sono quasi tutti neri, il pubblico no, lì i neri non sono ammessi, seduti ai tavoli ci sono soltanto i rappresentanti dell’upper class, non scuri, ma sciuri.

Owney Madden, secondo una foto del fichissimo museo dei gangsters americani, raggiungibile cliccando su questa foto.

Quando nel 1935 scoppia una bega ad Harlem per questioni razziali, il locale è costretto a chiudere, e chissà come mai.

Riaprirà qualche anno più tardi a Broadway, ma ormai i bei tempi sono passati, e il Cotton Club non resisterà a lungo.

Nel frattempo il Proibizionismo è finito, e contrabbandare liquori non ha più senso, così Owney Madden si dedica alla boxe, e diventa il manager di diversi pugili di spessore, fra i quali Primo Carnera, di cui vi parlerò nella prossima puntata.

Nel frattempo vi lascio con un pezzo di Duke Ellington, dove potrete gustarvi tutta la ruvidezza della growlin’ trumpet di James “Bubber” Miley, che per ottenere quel suono ruvido era solito cantare nello strumento e pronunciare frasi di sicuro impatto acustico, tipo Il papa pesa e pesta il pepe a Pisa, o Doria merda.

(continua)